16 marzo 2011

Negli uffici pubblici il crocifisso non si tocca


Chi troppo vuole nulla stringe. Proverbio che ben si attaglia alle pretese dell’ex giudice di pace di Camerino, Luigi Tosti. Il togato, lo ricordiamo, nei mesi scorsi si era rifiutato di tenere udienza fino a quando il crocefisso non fosse stato eliminato da tutti i palazzi di giustizia italiani. Non gli bastava poter lavorare in una stanza sguarnita della figura sacra, no, voleva l’azzeramento totale del simbolo della cristianità in tutte le aule, oppure, in alternativa, chiedeva di poter esporre anche la «Menorah», simbolo della fede ebraica. Due pretese che gli sono costate, nel gennaio scorso, la rimozione dall’incarico da parte del Csm. Tosti si così è rivolto alla Cassazione dove ha incassato un’altra sconfitta. La Corte, infatti, ha confermato la sua espulsione dall’incarico e ha difeso – vivaddio - il crocefisso nei tribunali e negli edifici pubblici. I giudici, a Sezioni riunite, hanno chiaramente affermato che il simbolo della cristianità nei tribunali non è un pericolo per la libertà religiosa di chi non è cristiano. «La presenza di un crocefisso – si legge nella sentenza n. 5924 – può non costituire necessariamente minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano un’aula di giustizia per i più svariati motivi e non solo necessariamente per essere tali utenti dei cristiani”. Di conseguenza, il giudice Tosti non poteva “rifiutare la propria prestazione professionale solo perché in altre aule di giustizia (rispetto a quella in cui egli operava) era presente il crocefisso». A Tosti, infatti, era stata messa a disposizione un’aula senza alcun simbolo ma lui aveva lo stesso rifiutato di tenere udienza chiedendo la rimozione del crocefisso da tutti i tribunali italiani perché a suo avviso, la presenza della cristianità «violava i diritti di libertà religiosa e di coscienza degli utenti di quelle aule». Una valutazione bocciata dagli ermellini che hanno, tra l’altro, escluso la possibilità di esporre altri simboli religiosi perché manca una legge: «È necessaria una scelta discrezionale del legislatore, che allo stato non sussiste», dicono chiaro e tondo. Inoltre, la stessa Cassazione mette in guardia il Parlamento da una scelta di questo tipo perché ci sarebbe il rischio di “possibili conflitti” che potrebbero nascere dall’esposizione di simboli d’identità religiose diverse. Meglio dunque fermarsi al crocefisso che meglio rappresenta il sentire comune degli italiani. Il punto fermo fissato ieri dalla Cassazione, però, potrebbe però sgretolarsi nei prossimi giorni. Venerdì, infatti, la Grande Chambre della Corte europea dei Diritti dell’uomo si esprimerà, con sentenza d’appello definitiva, sul caso dei crocefissi nelle scuole italiane. Artefice di questo bailamme è una cittadina italiana di origini finlandesi, Soile Lautsi. Nel 2002 richiese al consiglio d’istituto di una scuola media di Abano Terme, frequentata dai figli, di rimuovere il crocifisso dalle aule. La richiesta era stata rifiutata e la donna si era rivolta al tribunale competente, il Tar del Veneto. Da lì una lunga battaglia arrivata fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo che si è già espressa, due anni fa, a sfavore del crocefisso nelle scuole perché la sua presenza «violava il diritto all’istruzione e il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo». Dopo il ricorso del governo italiano, ecco la seconda e ultima battaglia a sfondo religioso. Ma se la Corte boccerà il crocefisso nelle aule, la Gelmini obbedirà ai giudici europei contro il volere del popolo italiano? Nel dicembre 2004, per esempio, un insegnante dell’istituto per geometri di Ivrea aveva chiesto di togliere il crocefisso dall’aula ma il Consiglio d’istituto aveva deciso all’unanimità che il simbolo religioso tornasse in classe. E l’anno prima ci fu un braccio di ferro tra Adel Smith e gli organi scolastici di Ofena, provincia dell’Aquila. L’uomo pretendeva la rimozione del crocefisso esposto nelle aule della scuola materna ed elementare, frequentate dai suoi figli. Una pretesa finora andata a vuoto.

(tratto da "Il Giornale")

14 marzo 2011

Il testamento di Shahbaz Bhatti


Vi proponiamo il testamento spitituale di Shabaz Bhatti, ministro pakistano ucciso il 2 Marzo scorso dai talebani.

"Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.

Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.


Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: "No, io voglio servire Gesù da uomo comune".


11 marzo 2011

Che sorpresa, è Quaresima ma l'Italia non se n'e accorta


Vorrei dare una notizia in esclusiva: ieri (mercoledì) è iniziata la Quaresi­ma. Lo dico perché nessun giorna­le e nessuna Tv ha riservato alla vicenda la benché minima atten­zione. Il mercoledì delle Ceneri è passato via inosservato, fra gli avanzi del Carnevale grasso, le ul­time feste di Venezia e le ricadute di polemiche scatenate attorno al­la festa della donna. Per carità: momento importante l’8 marzo. Ma di tutte le pagine ricoperte di mimose, fra tutte le iniziative in rosa, e le quote rosa, le ricorrenze rosa e i palazzi illuminati di rosa, possibile che non ci sia uno spa­zietto viola per ricordare che oggi inizia il tempo più importante per i cristiani? Scommetto che se oggi fosse co­minciato il Ramadan avremmo già stampato titoli a caratteri cubi­tali. Succede ogni volta: cinque­mila a Vicenza per il Ramadan, diecimila a Milano per il Rama­dan, e giù a raccogliere opinioni degli esperti per dire come ci si comporta durante il Ramadan, quali sono le regole del Rama­dan, com’è bello fare il Ramadan.
Persino alcuni vescovi a volte sembra che s’emozionino più per il Ramadan che per la Quaresima: si sa, è più facile ottenere un titolo su Repubblica inchinandosi ai fe­deli musulmani, magari propo­nendo una moschea in ogni quar­tiere, che celebrando il consueto cristiano rito delle Ceneri… E allora, però, è abbastanza inu­tile lamentarsi dell’Eurabia, cita­re le profezie di Oriana Fallaci, spaventarsi per l’arrivo delle mas­se di immigrati dal Nord Africa e per il conseguente «suicidio del­l’Europa», come ha fatto ieri il Cor­riere con un sentito editoriale di Piero Ostellino, se poi non ci si ac­corge nemmeno che in tutto il re­sto del giornale (e dei giornali) non c’è una riga per ricordare che sta accadendo qualcosa di impor­tante per i cristiani. È inutile per­ché non si può vincere la sfida con l’islam cancellando la nostra me­moria, le nostre tradizioni, la no­stra fede. Chi perde le proprie ra­dici rischia di essere spazzato via anche da un venticello, figuriamo­ci da una bufera come quella che si è sollevata in terra araba. Ma in fondo noi quella sfida l’abbiamo già persa. Abbiamo perso perché sappiamo tutto del­le celebrazioni del venerdì in mo­schea e nulla delle Ceneri. Abbia­mo perso perché nella preghiera laica del mattino, che sono i gior­nali, citiamo i carri di Viareggio e le arance di Ivrea, ma non sappia­mo più perché esiste una festa che si chiama Carnevale. Abbia­mo perso perché se domani, che è il primo venerdì di quaresima, nelle mense scolastiche serviran­no prosciutto e bistecca nessuno avrà nulla da dire. E magari sono gli stessi che giustamente si scan­dalizzano se, per errore, sul tavo­lo di un musulmano finisce un tocco di maiale…Ci tornano in mente le parole della Fallaci perché abbiamo pau­ra. E abbiamo paura perché non sappiamo più chi siamo, mentre gli islamici lo sanno benissimo e sono così orgogliosi della loro fe­de e del loro passato da difender­lo anche in terra straniera. Noi, la nostra fede e il nostro passato, non sappiamo più raccontarlo nemmeno negli oratori, dove si celebra solennemente il multicul­turalismo, ma ci si dimentica di spiegare il significato delle Cene­ri. Se ieri fossimo andati in giro per le città a chiedere: «Che giorno è og­gi?», avremmo avu­to molte risposte: «Il giorno dopo la festa della donna», «il giorno dopo il martedì grasso», «il 9 marzo», «il giorno in cui si ri­torna a scuola», «il giorno in cui ap­passiscono le mi­mose», «il giorno della Champions League». Tutto ve­ro, tutto esatto. E le Ceneri? Chi lo sa. Ormai persino la giornata interna­zionale della len­tezza, la giornata mondiale senza ta­bacco e la giornata internazionale sul­la protezione della fascia di ozono stratosferico han­no più visibilità dell’inizio della Quaresima. Sarà forse una giustificazione il fatto che buona parte delle grandi aziende editoriali hanno sede a Milano? Per la grande stampa e per le Tv il tempo della penitenza potrebbe cominciare domenica, secondo il rito ambrosiano? Mac­ché: domenica ci saranno gli ulti­mi riti della settimana bianca, co­minceranno le cerimonie laiche della primavera, il Fai che apre i giardini e le ville e altre interessan­ti attività. La Quaresima no, quel­la l’abbiamo cacciata via. Non se ne parla, è tabù, forse perché la ri­teniamo troppo tri­ste da inserire nel­la nostra vita, un’overdose di sa­crifici che non ci vuole in mezzo a giorni che sembra­no ormai quasi tut­ti quaresimali. Ed invece sbagliamo. Sbagliamo perché, come ha scritto l’ Avvenire ieri, la Quaresima è sem­pre meno il rito del­la malinconia, e sempre più è il rito dell’ironia, che «sorride in faccia ai gufi della storia». Lo si voglia o no: «Non è più una tesi filosofica, ce lo si legge proprio ad­dosso». Basta guar­darsi intorno. Pro­prio perché i tempi sono già così cupi, proprio perché siamo di fronte a un mondo che crolla, proprio per­ché la vita già ci sembra una serie di infinite quaresime, non c’è al­tra strada che sperare nella Quare­sima. Quella vera. Che, se non al­tro, a differenza delle tante quare­sime quotidiane, dà un senso ai sacrifici, portando con sé la spe­ranza della Pasqua.

(di Mario Giordano- tratto da "Il Giornale")

09 marzo 2011

La mia scuola privata, spalancata sul bene del sapere ben più di quella pubblica

Strano modo di procedere quello di Paola Mastrocola, di cui pure apprezziamo la passione pedagogica: denuncia la decadenza della scuola pubblica e poi difende la stessa a spada tratta in nome della resistenza democratica.

Ma lo spirito pubblico che sta tanto a cuore alla prof torinese e ai severi progressisti democratici cofirmatari dell’appello di Repubblica, si coltiva benissimo anche studiando in una scuola privata. Il ministro Gelmini, ormai, parla solo di scuole statali e di scuole paritarie, sussumendo entrambe nella categoria del pubblico. Giusto. Ai miei tempi, invece, c’erano la scuola pubblica e la scuola privata parificata. E io che dall’asilo alla maturità ho sempre frequentato scuole private, e anzi ho dovuto farlo per motivi politici, vi garantisco che per nutrire il senso dello stato, l’adesione spontanea al civismo, il rispetto dei valori della democrazia liberale non ho avuto bisogno di farmi indottrinare da un professore barbuto, da un militante antifascista duro e puro che leggeva il manifesto, teneva lezione sull’“Antologia di Spoon River”, consigliando ai suoi scolari la lettura di don Milani, se andava male, o degli scritti giovanili di Karl Marx, se andava bene.

I miei professori erano suore. A cominciare da suor Maria Cecilia, gli occhi azzurri e il viso butterato dall’acne giovanile. Era una Piccola Ancella del Sacro Cuore e mi ha insegnato a leggere, a scrivere, a fare di conto, a perdermi con la fantasia, dopo aver studiato gli antichi egizi sul sussidiario, sognando di giocare ai faraoni, nelle buche di sabbia scavate dalla pioggia nella pineta di Monte Mario. A dieci anni, trattandosi di scegliere le medie, mi decisi per le Ancelle del Sacro Cuore, perché molte delle mie compagne di gioco andavano lì. Una scuola bellissima, che oggi non esiste più. Anni fa, il villino in liberty e gli edifici moderni che ospitavano le aule della media, dei due licei, classico e linguistico, le camere delle interne, poiché era anche un collegio, e quelle delle suore vennero venduti insieme al bel giardino su Villa Balestra. Da allora varie generazioni di professioniste donne, giudici, avvocati, scrittrici, manager, persino un’astronauta, la prima in Italia (Barbara Negri) e molte madri di famiglia passano davanti al cancello chiuso dei Monti Parioli, con una stretta al cuore, perché la loro scuola non c’è più. Fu lì infatti che negli anni Settanta frequentarono il liceo parificato, studiando Kant e le guerre di religione con madre Giuditta Federici, la protesta di Leopardi secondo Walter Binni con madre Dolores de Bernardiis, la struttura del Dna con la mitica Puglielli, che era laica, e l’“Alcesti” con Nicola Santoro, grecista pugliese, anche lui laico, e le leve di terzo tipo con Silvia Spaziani, e Botticelli e Sironi con Francesca Romana De Marco, “l’unica vergine di Roma”, come lei stessa si professava, indifferente ai nostri scherzi feroci. Fuori da quel giardino delle bambine viziate c’era la contestazione, ma per noi era la festa della matricola, gli scioperi, ma per noi erano goliardie; c’era mio fratello Berto, che non poteva entrare a Mamiani, e una mattina si trovò fra i “fasci” ostaggio di un gruppo di “compagni” che minacciosi roteavano in aria le catene della moto, col casco calato sul viso. Per questo io, unica figlia femmina di un paria, neofascista ma parlamentare del Msi, dovendo scegliere il ginnasio venni tenuta lontana dalla scuola pubblica. In compenso, imparai un metodo, il gusto e la fatica di studiare, l’allegria di conoscere. A scuola nostra, l’unica politica era non fare politica. Mai decisione si rivelò più liberatoria.

(di Marina Valensise)