25 ottobre 2010

Via dagli slogan torniamo alla realtà


È la fine di un sistema. Del sistema del multiculturalismo.
Quello decretato da Angela Merkel qualche giorno fa è proprio come la fine di un sistema. Un po’ come quando crollano sistemi politici, ditatture o repubbliche, come crollò il fascismo, come crollò, qui da noi, la prima Repubblica. Un crollo del multiculturalismo. Del suo sistema. E come quegli altri sistemi crollarono ma non senza spargimento di sangue e ferite profonde, anche questo crollo ha nelle mani sangue e tensioni. Scontri e traumi. E come quei sistemi, anche questo crolla non per un avversario esterno, ma per l’esplosione di troppe interne contraddizioni.
Dire che il sistema del multiculturalismo non funziona significa prender atto della crisi di un sistema di pensiero, oltre che di un sistema di potere. Perché non c’è dubbio che la ideologia del multiculturalimso ha anche creato un sistema di potere. Basta vedere quanti e quali programmi e iniziative politiche, sociali, culturali e così via si dicevano ispirate e sostenute a quella ideologia.
Bastava il marchio di multiculturalismo e si diventava immediatamente giusti, corretti, moderni. Come avveniva con le iniziative ispirate al fascismo. O a certe idee, sempre qui da noi, della Prima Repubblica.
Che ci fosse una egemonia dell’ideologia multiculturale lo dimostrano infiniti atti legislativi, come quelli che a furia di voler garantire una astratta idea di libertà a tutti, ha finito per proibire a moltissimi la più discreta e personale affermazione di appartenenza culturale e religiosa, in un deserto di identità che è il contrario di quanto affermato teoricamente dall’ideologia multiculturale. Un po’ come quando in nome del comunismo dei beni si ritrovavano soprattutto i più poveri senza beni. O, tornando qui da noi, in nome del luminoso avvenire italico, l’Italia si impoveriva di tutto.
Anche in questo caso, in nome del multiculturalismo si è finito per costruire ghetti, per favorire tensioni sociali e radicalizzarsi di affermazioni identitarie. Non solo per reazione, ma per inevitabile conseguenza di un sistema errato nei suoi fondamentui teorici. Ci sono parole che vorrebbero rappresentare la realtà. E invece rappresentano la mente, l’idea di chi vorrebbe che le cose fossero come lui le immagina. Queste parole diventano ideologie suasive, ben confezionate e propagandate. Solo che la realtà, per così dire, non ci sta dentro. Ma non si vuole ridiscutere quelle parole. Perché significherebbe perdere la comodità di essere automaticamente giusti, corretti e moderni. Si perderebbe il potere che automaticamente ne discende. E allora il sistema va avanti, ma calpestando la realtà. E le persone.
L’idea di una società multicuturale ha evidenziato i suoi drammatici scompensi in molti posti del mondo. Le crisi in Francia, in Germania, in Inghilterra - accadute sotto governi di diversi colori, ma integrati nel sistema del multiculturalismo - ci devono insegnare qualcosa, sia sugli errori sia sul valore di certe idee non campate per aria che abbiamo in Italia.
L’esempio da molti citato della società Usa non è adeguato: lì c’è una società multietnica, non multiculturale. Le recenti polemiche sulle domande da inserire nel questionario di censimento, sulla moschea a Ground Zero e altri fatti più o meno evidenti, mostrano che finché l’idea è essere innanzitutto americani (l’idea che vince sempre a Holliwood e nei grandi media, altro che multiculturalismo!) le cose funzionano. Altrimenti scricchiolano. E parecchio. A un sistema che crolla è bene non sostituirne un altro. Ma come diceva un gran poeta francese: diffidare dei sistematici, e servire umilmente la realtà.
(di Davide Rondoni- tratto da "Avvenire)

Il demonio? Oggi si chiama ideologia

Uno stuolo di specialisti insegna che le ideologie hanno fatto il loro tempo. Non ci credo. Un ideologo altro non è se non un arrogante che partorisce una tesi sufficientemente 'fondamentale' per avere una risposta a tutto e che, appollaiato su questa pietra filosofale, compita dall’alfa all’omega ogni dramma umano. Siamo immersi nell’ideologia, che cava gli occhi come nella Lettera rubata di Edgar Allan Poe, al punto che la sua evidenza impedisce di scorgerla.
Non condividiamo la convinzione ultima che il diavolo non esiste?
Poiché questo personaggio ha perso grinfie, coda, corna e alito cattivo, concludiamo con ipocrisia che abbia testé ingoiato il certificato di battesimo. La morte di dio si presta a dibattiti. La morte del diavolo non solleva grandi contestazioni, sembra andare da sé. Chi, nelle nostre indulgenti democrazie, si esporrebbe all’obbrobrio di apparire tanto oscurantista da sostenere che resistere al male costituisca la sfida più profonda della condizione umana! Agli occhi dei benpensanti sussistono ancora avversioni puntuali: da una parte le emissioni di CO2 e gli Ogm, dall’altra l’aborto e l’omosessualità. Ma nessuno dubita che questi supposti mali, se ancora non sono stati eliminati, possano esserlo. Il diavolo è morto, vi dico. Solo i nostri impegni quotidiani possono sradicarne pompe e opere. Una crisi intorbida la schiuma dei giorni? Ciascuno corre a rifugiarsi nel verde paradiso degli amori infantili.
Gli uni pretendono di ritornare a un’età dell’oro regressiva; i religiosi rimpiangono il tempo benedetto in cui dio reggeva l’universo, regolava le coscienze e interdiceva l’usura, mentre i politici diventano nostalgici, sognando un passato utopico in cui lo stato, i sindacati e il civismo escludevano derive affariste. Chi ha rubato i nostri 'trenta' gloriosi? Altri programmano l’avvenire di uno sviluppo durevole sorvolando turpitudini e rivalità. Altri ancora si aggrappano alla grande sera perorando una rivoluzione più indefinibile che mai, salvo promettere la fine del Belzebù capitalista e produttivista.
Sia in caso di infelicità sia in caso di felicità, la nostra buona novella, una e indivisibile, suona l’ora della scomparsa programmata dei rischi, dei pericoli e delle catastrofi. Lo zelota di una così confortante certezza perdoni i miei cattivi pensieri. Fate rullare i tamburi e salutate Goethe: Mefisto è resuscitato!
Non il piccolo diavolo della contessa di Ségur, ma una forza distruttrice il cui affabile garbo era solo la penultima astuzia che precedeva l’imparabile finzione di darsi per morto. Niente a che vedere con le contraffazioni sataniste che con i loro effetti speciali danno vita alla languida anima degli spettatori; inutile rievocare le messe nere degli ubriaconi e degli imbecilli che macchiano i cimiteri. Per farvi dell’avversità un’idea meno sempliciotta, rammentate Tifone, diavolo pre e postcristiano, l’ultimo titano che tentò di svellere l’Olimpo.
Zeus, Giove tonante, gli scaraventò l’Etna in piena faccia e poi lo rinchiuse sotto terra e nel cuore degli uomini; a condizione che i poveri mortali affrontino, d’ora in poi da solo a solo, le devastazioni di cui si fanno freccia e bersaglio. L’intimo nemico dei socratici antichi e moderni è il prestigiatore, sofista o postmoderno, che si dedica a travestire gli istinti di morte da passioni anodine. «Per la sofistica [... ] tutto ciò che è per noi è vero, niente è falso [... ] secondo questa tesi innocente, non c’è vizio, non c’è reato, ecc.» (Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia). Il 'sofista egizio' Proteo sommerge i semplici mortali con una spessa bruma in cui destinazioni e riferimenti svaniscono a beneficio di una confusione senza sponde, una fitta coltre mantenuta con cura che dà riparo ai nostri nidi di vipere. Quale rapporto tra la crisi economica mondiale, i massacri del Darfur che subentrano allo spietato annientamento dei ceceni, le bombe umane, i record di corruzione e il persistere delle crudeltà nelle nostre prospere e tranquille società? Il rapporto siamo noi. Attiene alla nostra inalterabile sorpresa costellata dal ricorrente interrogativo: «Come sono possibili simili incongruità? Nel nostro così civilizzato e mediatizzato ventunesimo secolo?». Il ritorno tossico, cupido, stupido o guerriero di un Mefisto dai mille volti ottunde chi voglia ignorare che il caro scomparso non ha mai smesso di starci alle calcagna.
(di Andrè Gluksmann- tratto da "Avvenire")

20 ottobre 2010

Se il figlio è un prodotto


Dopo l'incredibile storia dell'embrione spedito con corriere espresso dagli Usa all'India per essere impiantato in una madre surrogata, eccone un'altra sconcertante: una coppia canadese che affitta un utero, ma poi impone alla donna che porta in grembo il loro embrione di abortire perché le analisi mostrano che il bimbo ha la sindrome di Down. Da Avvenire del 14 ottobre 2010. L’ultima notizia sconcertante in tema di uteri in affitto arriva dal Canada. Un uomo e una donna si trovano a dover affrontare una battaglia contro la madre surrogata che sta portando in grembo il figlio concepito in vitro con i loro gameti, a causa del rifiuto della gestante di abortire. La richiesta di interrompere la gravidanza è arrivata dalla coppia canadese una volta che gli esami hanno evidenziato che il bambino è affetto dalla sindrome di Down. La legge canadese prevede la possibilità della maternità surrogata nei casi in cui non vi sia una ricompensa in denaro per la donna che porta avanti la gravidanza, ma in questo caso il motivo della disputa legale è costituito dal contratto stipulato tra quest’ultima e la coppia. Il dottor Ken Seethram, che lavora presso la clinica di Vancouver che ha seguito l’iter medico della coppia, ha infatti rivelato che esiste un accordo scritto secondo il quale, nel caso in cui la madre surrogata si rifiutasse di abortire, la coppia non avrebbe alcun tipo di responsabilità nei confronti del figlio. Giuristi, medici ed esperti di bioetica si interrogano adesso sulla validità di quell’accordo e su quale sia la strada per tutelare i soggetti coinvolti. Lo stesso dottor Seethram ha posto l’accento sul fatto che contratti di questo tipo rischiano di impedire una scelta libera e consapevole da parte della madre surrogata. Secondo Juliet Guichon, bioeticista dell’Università di Calgary, i genitori non possono rifiutarsi di prendere in carico il bambino. Il contratto non avrebbe alcun valore poiché le norme che riguardano gli accordi tra due o più persone non si possono applicare in materia di maternità surrogata a meno di non ledere la sacralità della vita umana. “Non si può dire – ha aggiunto Guichon – ‘Oh oh, c’è un difetto’ ed interrompere la gravidanza”, rischiando così di confondere la produzione con la riproduzione. Dello stesso avviso è la professoressa Francoise Baylis, della Dalhousie University, secondo la quale il figlio è visto dalla coppia come un prodotto e, nel caso specifico, “un prodotto difettoso”. Sally Rhoads, della Surrogacy in Canada Online, che garantisce assistenza e supporto a chi decide di utilizzare la maternità surrogata, sostiene invece che sono i genitori a dover essere tutelati: “Il bambino è il loro bambino, perché dovrebbero essere costretti a crescere un figlio che non vogliono?”, si è chiesta Rhoads. Domande che necessitano di una risposta per un fenomeno, quello degli uteri in affitto, sempre più diffuso in Canada.
(di Lorenzo Schoepflin)

19 ottobre 2010

Ciò che ci scandalizza non è il male ma il perdono


Pubblichiamo le prime righe della bellissima intervista allo scrittore Luca Doninelli pubblicata su Avvenire che potete leggere e scaricare integralmente cliccando qui.

"Comunque la si prenda, la vicenda di Sarah Scazzi "va stretta" a qualsiasi analisi: psicologi, sociologi, giornalisti o criminologi, tutti si affannano a darle dei contorni, a chiuderla in una gabbia di razionalità, ma il male prevarica incontenibile, è come se ci fosse sempre un pezzo che scappa fuori..E meno male, sbotta lo scrittore Luca Doninelli". CONTINUA....

18 ottobre 2010

Nella fede di quei minatori rivedo mio padre


Conosco gli uomini della miniera. Per una volta il mondo si è accorto di loro, laggiù in Cile, e subito la tv ne s’è impossessata: “ma io sono e voglio restare un minatore. Non trasformateci in star”, ha detto sanamente Mario Sepulveda, uno dei primi a riemergere dalle viscere della terra.
Mario ha anche urlato: “Questi incidenti non devono più succedere!”. Finalmente un uomo autentico.
Io li conosco perché sono nato in una famiglia di minatori, ho imparato dalla loro forza (anche nel dramma), dalla loro fede cristiana, dalla loro nobiltà. Conosco quell’allegria di naufraghi, di compagni che si dividono il pane, il sudore e il poco companatico.
Dentro la miniera cilena, fra i sepolti vivi, e sopra la miniera, fra i familiari, all’accampamento Esperança, si sono viste per settimane immagini della Madonna (con una statuetta di padre Pio) e bandiere del Cile, perché tutto quel Paese ha pregato e tutto quel Paese sente che gli uomini della miniera sono l’orgoglio della nazione, la sua dignità e la sua forza.
Sono cresciuto sulle ginocchia di uno di questi uomini, mio padre, ed è stato lui il mio orgoglio, la mia scuola di vita, la mia vera università, il mio “master a Oxford”.
Non mi ha insegnato l’inglese, ma mi ha insegnato la dignità, l’amore per la pittura del Trecento e per la musica, la fede cattolica e la passione per la libertà. Ho imparato da lui a non sopportare l’ingiustizia, l’ozio di chi ingrassa vizioso sul dolore di altri esseri umani.
E’ grazie a lui che non portai il cervello all’ammasso del conformismo rosso, negli anni del liceo, e non mi sono rincoglionito di chiacchiere o di droga. Neanche me lo potevo permettere: non avevo una lira in tasca e dovevo studiare (erano i figli di papà che potevano permettersi il lusso di fare i rivoluzionari, di non studiare o di sperperare soldi nella droga).
Grazie a mio padre non mi sono imborghesito nell’anima, perché so cosa vale nella vita (e non sono i soldi) e so che essere se stessi è il tesoro vero.
Qualcosa della rudezza “cafona” degli uomini della miniera, per fortuna, mi resta addosso e – trovandomi a lavorare nel mondo finto degli intellettuali, delle televisioni, delle curie, dei salotti e dei moralisti farisei – c’è sempre un padre e un nonno minatore nel mio sangue che si ribella al conformismo, all’ingiustizia, all’ipocrisia e grida sbrigativamente: “ma andate a farvi fottere!”.
Quei volti sporchi di terra che vediamo nelle immagini dal Cile, quella loro nudità, sottoterra, dove si soffoca di caldo col 90 per cento di umidità, li conosco da quando ero piccolo. E anche la loro malinconia.
Mio padre me li raccontava con la sua faccia bella e scarna, con le sue poche parole, li rappresentava nei suoi quadri e li cantava come dei personaggi di Omero nella personale epica delle sue poesie che oggi mi tornano in mente – guarda un po’ – insieme ai versi di Neruda.
Mia madre per anni e anni è stata una delle ragazze che non sapevano se l’amore della sua vita, quel giorno, sarebbe stato inghiottito dalle profonde gallerie della miniera.
Mia madre è stata una delle donne che si trovava di colpo il cuore in gola quando per il paese correva la voce: “c’è stato un incidente alla miniera!”.
A mia madre è crollato il mondo addosso quella notte del febbraio 1953 in cui seppe che lui aveva avuto un incidente e che solo grazie al gelo della notte invernale non era morto dissanguato perché il sangue si era ghiacciato (ma il “mostro” aveva comunque mozzato una sua mano). Dovevano sposarsi di lì a poco.
Tutto il paese dove sono nato e cresciuto ricorda i giorni in cui la miniera inghiottì due compagni di mio padre. La stessa angoscia della povera gente del Cile. Perché la povera gente cristiana, a tutte le latitudini, si assomiglia.
Con quale tenerezza mia madre ricorda la gioia e l’orgoglio di mio padre, quando poté comprarsi una moto Iso e non dovette più andare, per cinque o sei chilometri, alla miniera a piedi o in bicicletta, di giorno e di notte, in tutte le stagioni.
Nella miniera di San José il più giovane dei 33 minatori è Jimmy Sanchez 19 anni. E’ uscito da quel tunnel sprizzando gioia. Guardando la sua faccia, bella di giovinezza, è impossibile non commuoversi. E’ ancora un ragazzo.
Ho pensato quanto avrei desiderato vedere mio padre quando, a 14 anni, ha cominciato a lavorare in miniera: lui era un bambino. Aveva l’età che adesso ha mio figlio (quanto vorrei fargli ereditare la sua dignità).
Mio nonno Adriano – quando arrivò mio padre a lavorare – era già in miniera da 10 anni. Ci sono rimasti tutti e due tanto tempo. Entrambi ne hanno avuto i polmoni compromessi.
Anche i minatori cileni, che oggi festeggiano – perché stavolta l’hanno scampata – con le loro mogli e i loro figli (ce n’è uno che ha due donne ad aspettarlo e sarà un problema dare spiegazioni) sanno che ogni salvataggio è sempre precario ed effimero.
Laggiù i corpi si impastano col carbone e il fango e la terra li considera ormai suoi. A volte se li riprende senza neanche aspettare che crepino, con un’esplosione di grisù. Ma altre volte li richiama a distanza di anni. Una chiamata che gronda ingiustizia.
I polmoni di mio padre a 80 anni erano pieni di quella polvere di carbone che aveva respirato per decenni: aveva ormai la miniera nelle carni, nel sangue, nelle ossa, nelle fibre. Il suo killer ce l’aveva addosso da una vita.
La miniera è una matrigna che non perdona: ti ha nutrito con qualche povero tozzo di pane, ma prima o poi reclama il suo diritto di ammazzarti. Anche a distanza di tempo.
Così mio padre se lo è portato via il 21 maggio del 2007. Non si può morire a maggio, mi dico sempre. Ma la miniera non conosce stagioni, non ha riguardi nemmeno per la primavera: laggiù sotto è sempre lo stesso bestiale inverno di fuoco.
Così la miniera ha ammazzato mio padre dopo anni. Ma forse anche gli ha risparmiato lo strazio di vivere il dramma di mia figlia Caterina.
Questo s’impara dagli uomini della miniera, che la vita è una lotta e non una vacanza alle Maldive, che è inevitabile sporcarsi di terra e di carbone (cosa che non capita alla settimana bianca, né all’Accademia), che la vita è fragile ed effimera, che un Altro ce l’ha data e lui ha pietà di noi perché è Padre.
Uno dei minatori ha detto: “sono stato fra il diavolo e Dio, ma alla fine è Dio che mi ha afferrato”. Conta questo: essere afferrati da Dio. E conta la dignità con cui si vive. Dagli uomini della miniera si capisce che è bello avere Dio e avere accanto dei fratelli con cui condividere il pane e l’avventura dell’esistenza.

(di Antonio Socci- tratto da "Libero" del 14/10/2010)

14 ottobre 2010

L'altra Chernobyl


Pubblichiamo l'editoriale del numero di ottobre del mensile "Tracce".

Basta la parola, relativismo. E scatta l'equivoco. Si pensa subito a qualcosa di astratto. Importante, per carità: non sarà mica un caso che il Papa ne parli di continuo. Però, se siamo leali, avvertiamo l'idea che si tratti di una questione da filosofi. Da dibattito culturale. Da una parte, appunto, i pochi (Papa compreso) che insistono sull'esistenza di una Verità. Dall'altra i più che la negano. Con tutte le conseguenze del caso. E con l'impressione che la battaglia condotta dalla Chiesa sia giusta sui princìpi, ma perdente nei fatti. Errore. Perché il relativismo non è solo un pensiero debole che si porta appresso un'etica informe. Non riguarda solo le grandi questioni morali (la vita, i valori), annegate nell'idea che una posizione vale l'altra e gli unici orientamenti pratici restano la tecnica e il consenso (è lecito quello che siamo in grado di fare, se la maggioranza è d'accordo). Ha un risvolto concreto nella vita di tutti i giorni, in tutti i suoi angoli. Ed è un risvolto paradossale e drammatico. Se tutto è uguale, la conseguenza non è che tutto ha lo stesso valore: è che nulla vale la pena. Tutto si consuma in fretta. E nella vita - nella nostra vita quotidiana: il lavoro, i rapporti, la famiglia - genera disillusione. Fastidio. A volte, rabbia. La condizione in cui ci troviamo spesso. Il relativismo riguarda anche noi, insomma. Ci scava dentro. È per questo che è decisivo sconfiggerlo. Trovare un'arma che consenta di vincere la guerra sul campo della vita quotidiana. Da lì passa il vero contributo che i cristiani possono dare alla vita di tutti. Che non è solo la difesa - doverosa - di certi valori da tutelare con ogni mezzo, ma prima di tutto la testimonianza di qualcosa che permetta di affrontare senza timori questo fastidio, di non restare intrappolati nella rabbia, di vincere la disillusione. Di dare alla vita un altro gusto. Nuovo. Per fare questo non bastano le idee, neanche quelle giuste. Non bastano commenti e parole sul relativismo, per abbatterlo. Nemmeno le parole più cristiane. Anni fa, don Giussani introdusse l'immagine bellissima ed efficace di una Chernobyl per descrivere quello che succede alla nostra umanità: fuori appare intatta, ma dentro è indebolita, fiaccata, malata come per le conseguenze delle radiazioni sparse dalla celebre centrale nucleare. Bene, di fronte a questa tragedia rischiamo tante volte di vederne un'altra, figlia di quella stessa riduzione: una specie di Chernobyl nel modo di vivere l'avvenimento cristiano. Le parole che lo raccontano possono essere inalterate nella loro ortodossia: carisma, fede, esperienza. Ma il contenuto no. Può diventare un involucro vuoto. Fatto di categorie e discorsi corretti, ma privato della sua caratteristica principale: quella di essere reale. Qualcosa che accade nelle nostre vite, appunto. E «calamita tutta la nostra umanità», come succede a Giovanni e Andrea di fronte a Cristo. Lo fa vedere bene la Pagina Uno di questo numero. Leggetela con attenzione. Lì diventa chiaro qual è l'unico antidoto a questa malattia che corrode da dentro l'esistenza: la memoria. Il riaccadere di Cristo nella nostra vita, ora. Fino ad attrarre la nostra umanità e la coscienza che abbiamo di noi stessi. E a cambiarle, se siamo disponibili. Ma lo dimostra la stessa testimonianza indomabile di Benedetto XVI, che - non a caso - non si può proprio ridurre a parole, ma è essa stessa prima di tutto un fatto, una presenza. Qui si percepisce il vero contributo che noi cristiani possiamo dare anche alla vita pubblica. Dovunque siamo. Sulla cattedra di una scuola o in una chiesa di frontiera, nel segreto della propria casa o sugli scranni di un Parlamento... Una presenza in cui riaccade la Sua Presenza, e cambia.

12 ottobre 2010

Europa, un revival cristiano?


A metà maggio papa Benedetto XVI ha compiuto un pellegrinaggio apostolico in Portogallo: mezzo milione di persone hanno preso parte alla messa papale tenutasi all’aperto a Fatima. Una volta tornato a Roma il Papa, duecentomila pellegrini hanno invaso piazza San Pietro per la recita del Regina Coeli da parte di Benedetto XVI, dimostrando il loro appoggio ad un pontefice assediato da mesi dalle critiche su sacerdoti colpevoli di abusi verso minori e vescovi irresponsabili. Una settimana dopo si è conclusa l’esposizione ­durata 44 giorni - della Sindone di Torino nella cattedrale di questa città dell’Italia settentrionale. Nel corso di queste sole 6 settimane, qualcosa come 2 milioni di persone hanno affrontato lunghe file per passare pochi, brevi istanti di fronte a quello che alcuni credono essere stato il lenzuolo funebre di Cristo. Per non parlare dell’ultimo viaggio in Inghilterra...
Messaggio ai vari Mark Twain: sono state troppo 'gonfiate' le inchieste sulla morte del cristianesimo in Europa? È una domanda semplice, e visto che sono stato uno di quelli che ha suonato il campanello di allarme sulla crisi europea in termini di civiltà morale con la pubblicazione del mio Il Cubo e la Cattedrale, mi sento obbligato a cercare una risposta. Che è questa: è troppo presto per dirlo.

Il grande afflusso di pellegrini a Fatima o i numeri straordinari di quanti sono venuti a vedere la Sindone: tutti questi sono segni incoraggianti. Come lo è l’intensa pietà popolare che continua ad essere evidente in Polonia, soprattutto di recente, in occasione della tragica morte di alcuni leader di quella nazione nell’incidente aereo dello scorso aprile, quando si stavano recando nei luoghi delle fosse comuni di Katyn.
Inoltre, in un senso paradossale, vale lo stesso per i virulenti attacchi rivolti alla Chiesa e al Papa negli ultimi mesi. Nessuno spende energie per rimproverare un’istituzione considerata moribonda ed un anziano di 83 anni ritenuto irrilevante; questi stessi attacchi sono l’evidenza che la fede cristiana - e la Chiesa cattolica - rimangono fattori rilevanti nella cultura europea e nella vita pubblica europea.

Inoltre, se la Giornata mondiale della gioventù, che si terrà a Madrid il prossimo agosto, arriverà ad ospitare un milione o più di giovani pellegrini, come sembra possibile, essa risulterà una sfida lanciata al governo spagnolo iper-laicista di Zapatero e ai figli dell’Europa anni Sessanta, che possono tollerare il cristianesimo come una scelta di vita personale (sebbene la considerino decisamente bizzarra), ma sono gli stessi che insistono sul fatto che la società europea del XXI secolo deve essere liberata da ogni argomento morale religiosamente ispirato.
Ma l’elemento decisivo in tutto questo, comunque, è se questa pubblica dimostrazione di convinzione e pietà cristiana diventerà un elemento di trasformazione della cultura, in maniera da essere capace di esercitare un movimento nella sfera pubblica. E non è semplice vedere qualcosa del genere succedere in Europa. Il cattolicesimo europeo ha poco delle infrastrutture messe in campo negli Stati Uniti negli ultimi decenni in vista di tale 'guerra culturale'. Faccio un esempio: in Europa non vi è niente di simile alla rivista First Things e al suo insieme di scrittori, i cui saggi e articoli richiedono attenzione da parte di funzionari pubblici, docenti universitari, media, e altri opinion makers. Esercitare questo tipo di movimento culturale richiede un duro lavoro e anche risorse. Soprattutto, comunque, domanda una massa critica di discepoli radicalmente convertiti al cristianesimo che sono passati attraverso momenti come quelli di padre Robert Barron, un prete di Chicago che vive a Torino. Il quale scrive: «Devo ammettere che questa (l’esposizione della Sindone, ndr) è stata una delle esperienze religiose più straordinarie della mia vita. I segni sulla Sindone ­ comprese le macchie di sangue ­ sono chiaramente visibili, cosa che significa che la brutale realtà della Passione è chiaramente visibile. Fissando la Sindone sono stato realmente portato indietro in quella squallida, piccola collina fuori dalle mura di Gerusalemme nell’anno 30 quando un giovane uomo venne torturato a morte.
Mi compare davanti il volto di quella figura: quel volto pacifico, nobile, strano, ammaliante, che dischiudeva, allo stesso tempo, la profondità della miseria umana e la pienezza della misericordia divina. Nel volto del Dio crocifisso si dischiude l’intero dramma e tutta la poesia della fede cristiana, la Risposta che è nient’altro che una risposta facile, la Parola che sorpassa la parola di ogni filosofo …».

(di George Weigel- tratto da "Avvenire")

10 ottobre 2010

Adesso la famiglia fa più paura del mondo

Il ragazzo l'ha chiamata «propensione sessuale». È il ventunenne studente universitario di Cairo Montenotte (Sv) che ha, sembra, ripetutamente abusato di una bambina di due anni. Se lo zio di Sara Scazzi può apparire un mostro (il cinismo, per esempio, da «consumato attore», come ha detto un commentatore tv, con cui ha recitato per giorni davanti alle telecamere), questo ragazzo è così normale, così uguale ai nostri figli da lasciare poco spazio alla ricerca di patologie. E noi, qui, a commentare. Siamo diventati tutti moralisti «di nessuna morale», come scrisse una volta Leonardo Sciascia. Preti, giornalisti, medici, intellettuali, politici: tutti con la faccia preoccupata, tutti pronti a condannare, a trarre conseguenze, moniti, timori. Qualcuno, poi - psicologi, neurologi, psichiatri - possono cavarsela nascondendosi dietro le loro competenze professionali. Ma almeno uno scrittore dovrebbe evitare questa deriva che porta dritta all'ipocrisia, visto che in questi casi tutti sappiamo da che parte stare. Uno scrittore dovrebbe provare a rimanere all'altezza delle cose, senza protezioni, senza sponde. Se c'è un buco nero, lo scrittore ci deve entrare.

Tutti noi abbiamo i nostri bravi vizietti, le nostre amabili debolezze, le nostre «propensioni sessuali» (o d'altra natura), e commettiamo i nostri peccatucci sotto cui spesso si aprono voragini che cerchiamo di non guardare. Tutti abbiamo i nostri scheletri nell'armadio. Però - finché non ci scoprono con le mani nella marmellata - possiamo permetterci di condannare o - che forse è peggio - di «capire».
Allora, a che serve uno scrittore? A trattenere, forse, qualche immagine, magari per paragonarla a qualche altra immagine che conserva in sé. La prima immagine è fatta di solitudine. Quella dei vivi, come la povera bambina di Cairo Montenotte, che forse sa balbettare qualche piccola parola, ma che non può avere le parole per dire quello che le accade, mentre si trova in balia di questo ragazzo. Quella dei morti, come la povera Sara, gettata in un pozzo pieno d'acqua mentre la madre si domanda dove sarà mai, e mille fotografie orribili le passano davanti agli occhi della mente. Ho conosciuto una madre che ha perso il figlio diciassettenne nel lago, urtato accidentalmente da un motoscafo e poi perso in quelle acque, morto, per tre giorni prima che fosse ritrovato.

Perché è vero che sono corpi senza vita, ma è del corpo che noi abbiamo bisogno, è il corpo che desideriamo stringere, per questo ai cristiani l'immortalità dell'anima interessa molto meno della resurrezione della carne. Che m'importa se la tua anima vive, papà, che m'importa, zio Gianni, zia Iose, Marcello, che m'importa, nonni miei carissimi, se non potrò più stringervi tra le mie braccia?
Ma stringere tra le braccia una persona... questo sì è il problema. Ci hanno insegnato che possiamo avere qualunque cosa desideriamo, che la felicità è la soddisfazione dei propri desideri e che tutti ne abbiamo diritto. Ma ci hanno insegnato anche che il nostro desiderio coincide con il nostro istinto, e questo falsifica tutto. Quel farabutto dello zio di Sara, quel mentecatto del ragazzo di Cairo Montenotte hanno cercato proprio questo: di possedere quello che credevano di desiderare. E hanno visto dissolversi nel nulla quello che credevano di possedere - di stringere, appunto, tra le braccia -: quello che avrebbe dovuto essere amato, rispettato, curato. Tutto ridotto a nulla. Da questi casi orribili, specchiandomi in essi, imparo una cosa semplice: che noi, oggi, niente conosciamo meno dei nostri desideri. Non sappiamo più che cos'è un desiderio. Ci crediamo realisti perché pensiamo che uno possa desiderare stuprare una bambina o violentare la propria nipote, e non ci rendiamo conto che, dicendo queste cose, scegliamo solo la via più comoda. Crimini come questi nascono dal «non» fare i conti con il proprio desiderio. Se facessimo i conti con il nostro desiderio, faremmo i conti anche con Dio, perché questa voglia di amore e di bellezza che ci stringe il cuore non è opera nostra. Ma questo è il passo più duro per tutti. «Gli uomini non hanno paura del male» mi disse una volta un amico psicanalista «ma del bene». Ed è così.

(di Luca Doninelli- tratto da "Il Giornale")

08 ottobre 2010

L'infinito bisogno di giustizia è una ferita


Eppure quella commozione davanti alle telecamere, prima che si scoprisse l'orribile fatto, credo fosse sincera. Anche lui non poteva capire - come a un certo punto ha confessato incalzato dalle domande della figlia -, perché l'avesse fatto e il rimorso ha prevalso su tutto. E a me pare che quelle lacrime davanti alla Tv fossero lacrime vere anche se usate per ingannare. Ma questo male e rimorso infinito non potrà mai rimetterlo in pace né con sé stesso, né con i suoi. Potrà mai anche l'ergastolo restituire Sarah all'affetto di chi l'amava?E lo zio potrà perdonarsi per quello che in un momento di obnubilamento della mente e della volontà ha fatto . MAI. A meno che... "Feriti, torniamo a Cristo" dove si dice una cosa infinita come è infinito il nostro bisogno di giustizia:

"La nostra esigenza di giustizia. È senza confini. Senza fondo. Tanto quanto la profondità della ferita. Incapace di essere esaurita, tanto è infinita. Per questo è comprensibile l’insofferenza, perfino la delusione delle vittime, anche dopo il riconoscimento degli errori: nulla basta per soddisfare la loro sete di giustizia. È come se toccassimo un dramma senza fondo.Da questo punto di vista, gli autori degli abusi si trovano paradossalmente davanti a una sfida simile a quella delle vittime: niente è sufficiente per riparare il male fatto. Questo non vuol dire scaricarli della responsabilità, tanto meno della condanna che la giustizia potrà imporre loro. Non basterà neanche scontare tutta la pena.(...)".

Per questo anche quelli più esigenti, più accaniti nel pretendere giustizia, non saranno leali fino al fondo di se stessi con la loro esigenza di giustizia, se non affrontano questa loro incapacità, che è quella di tutti. Se questo non accadesse, soccomberemmo a una ingiustizia ancora più grave, a un vero “assassinio” dell’umano, perché per poter continuare a gridare giustizia secondo la nostra misura dovremmo far tacere la voce del nostro cuore. Dimenticando le vittime e abbandonandole nel loro dramma".Nulla potrà restituirci la cara Sarah. E la nostra esigenza di giustizia non sarà soddisfatta realmente nemmeno da dieci ergastoli. Occorre un giustizia più grande.E c'è.

(riflessione tratta dal sito "Anna Vercors")

07 ottobre 2010

Libere di morire con la RU 486

Una breve corrispondenza pubblicata sul New England Journal of Medicine del 30 settembre, firmata da tre epidemiologi del Center for Disease Control and Prevention di Atlanta (l’organismo di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti), annuncia che altre due giovani donne vanno aggiunte alle vittime finora accertate dell’aborto chimico con la Ru486. A ucciderle è stata un’infezione da Clostridium sordellii, il micidiale batterio già responsabile di altri decessi legati all’aborto farmacologico. La prima vittima, ventinovenne, è morta nel 2008, a sei giorni dall’assunzione della miscela chimica che doveva farla abortire; la seconda, una ragazza di ventun anni, è morta nel 2009, a ben dodici giorni dall’assunzione del mifepristone per via orale e del misoprostol per via vaginale (è uno dei sistemi di somministrazione della Ru486). Per entrambe, il ricovero ospedaliero – intervenuto dopo cinque giorni di sintomi per la prima e dopo sei per la seconda – è arrivato troppo tardi e non è riuscito a evitare l’esito mortale per choc settico. Non è la prima volta che il New England Journal of Medicine, la più importante rivista di pratica medica del mondo, segnala i pericoli del sistema abortivo “mifepristone più misoprostol”. L’aborto a domicilio offerto in pillole, molto discreto e privatizzato, continua a uccidere poco discretamente le donne che vi fanno ricorso, senza che sia stato neanche chiarito il motivo del legame con la letale sindrome da Clostridium sordellii.
(tratto da "Il Foglio" del 2/10/2010)

05 ottobre 2010

La vita non è solo un numero


Il premio Nobel per la Medicina assegna­to al papà dei 4,3 milioni di bambini nati in provetta non deve farci esultare né gridare troppo allo scandalo. Visto che molte persone per un verso o per l'altro più autorevoli del sot­­toscritto sono già intervenute, vorrei suggeri­re soltanto tre pensieri semplici a riguardo. Il primo è che questo premio sancisce la tri­ste realtà di una vita umana ridotta a numero. La colpa in questo caso non è dell'Accademia di Svezia, ma le cose stanno così. Milioni di bambini nati in provetta, miliardi di embrioni uccisi, altri miliardi di bambini abortiti, e sull'orizzonte ecco la clonazione. L'idea che passa è che la vita umana non conti granché: la si può fare e disfare a nostro piacimento. Forse aveva ragione Hannah Arendt quando sosteneva che, nei regimi moderni, la presenza dell'uomo è inutile.
Il secondo pensiero è che la vita intesa non come biologia, ma nella sua concreta imprevedibilità - è più grande perfino di questa tristezza. Io ci credo. Come l'erba riesce a bucare il cemento, così sono certo che la vita si prenderà la sua rivincita su tutto questo conteggiare e calcolare, che è l'essenza di certe scoperte come quella del bimbo in provetta. Così chissà, magari il mondo sarà salvato, un giorno, d a un uomo nato in provetta, o magari un uomo nato in provetta diventerà Papa. Bisogna fidarsi della realtà, anche quando la situazione è brutta.
Terzo pensiero. Vescovi e cardinali si mettano il cuore in pace a proposito del premio Nobel, che è un premio esplicitamente anticattolico. Il caso della mancata assegnazione del premio al compianto Nicola Cabibbo per una scoperta che aveva fatto lui lo dice a chiare lettere. Lo dice a chiare lettere l'assegnazione del Nobel per la Letteratura a Dario Fo anziché a Mario Luzi e - secondo me - anche quella a Salvatore Quasimodo a preferenza di Giuseppe Ungaretti.
Non si tratta di un premio semplicemente laico (anche un cattolico è laico) ma di un premio laicista, che interpreta un preciso progetto sull'uomo e sulla società esplicitamente contrario all'idea cristiana. Perciò, anziché lamentarsi, sarebbe il caso di istituire un premio più ricco, più serio, più qualificato del Nobel (sono certo che non ci vuole molto) in cui l'antropologia cristiana sia inclusa anziché messa al bando. A chi fa le cose si risponde facendon e altre, senza contrapposizioni e senza polemizzare standosene con le m ani in mano. Se si lavora seriamente, alla fine uno dei due persuaderà l'altro.
(di Luca Doninelli- tratto da "Il Giornale" del 05/10/2010)

In Lombardia 250 euro al mese alle donne per evitare l'aborto


«Se non fosse stato per il fondo Nasko della Regione Lombardia avremmo chiuso», esplode emozionata Paola Bonzi, direttrice da ventisei anni del primo Centro di aiuto alla vita (Cav) nella Clinica Mangiagalli di Milano. Sta parlando del primo aiuto che «le istituzioni italiane abbiano mai dato per evitare che la donna abortisca anche per motivi economici».
Da oggi le donne riceveranno dalla Regione un assegno di 250 euro mensili per un massimo di diciotto mesi. Ma c'è chi dice che qualcuno potrebbe approfittarsene. «Di donne in questi ventisei anni ne ho viste a migliaia e non c'è ne una che abbia chiesto per scherzo. E poi la Regione non darà l'assegno a tutte, ma solo a quelle segnalate al Pirellone dai consultori. Saranno quelle che rinunceranno davvero all'aborto».
Non bisogna pensare però che i soldi risolvano da soli tutti i problemi. L'Aibi (Associazione italiana amici dei bambini) ha proposto ieri di seguire il modello Stati Uniti, di permettere cioè alle coppie che vogliono adottare un bambino di sostenere economicamente le donne incinte. Proprio come succede nel flim Juno. Carlo Giovanardi, Commissario per le adozioni internazionali, si è opposto perché la proposta va contro la normativa nazionale. L'Anfaa (Associazione famiglie adottive e affidatarie) teme anche l'alimentarsi di compravendite, visto che negli Usa si spendono dai 20 ai 28 mila dollari in nove mesi.
Paola Bonzi è perplessa, perché se è vero che da una parte senza il fondo Nasko il Cav avrebbe chiuso, dall'altro i soldi da soli non bastano ad aiutare il crescente numero di donne in difficoltà. «Senza un sostegno umano – chiosa Bonzi–, un'adeguata educazione alla maternità e una speranza, le donne non capirebbero il valore dell'essere madri. Solo perché trovano un rapporto e un'amicizia su cui poggiare, oltre agli aiuti economici, le donne ricominciano a sperare».
Ecco perché non basta l'assegno ed ecco perché il Cav serve ancora e rimarrà aperto. Anzi. Verranno intensificati i colloqui con le donne, «si potrà pensare ad aumentare i posti letto e allargare le case famiglia dove la donna esce dalla sua solitudine. Che è il primo fattore per cui si abortisce».

(di Benedetta Frigerio- tratto da "Tempi")

P.S. Del Fondo Nasko se ne è parlato nello scorso consiglio comunale di Carpenedolo grazie ad una interpellanza presentata dai consiglieri del PDL Spaziani e Carleschi.

03 ottobre 2010

Che cosa ci dice l'aggressione a Belpietro


E’ persino inutile esprimere l’indignazione per l’aggressione subita dal direttore di Libero Maurizio Belpietro. La professionalità degli uomini di scorta ha evitato una tragedia, e di questo bisogna essere grati, ma naturalmente questo non cancella la gravità dell’accaduto. Il fatto che dirigere un giornale combattivo, esprimere opinioni nette e quindi ovviamente controverse, metta in pericolo la vita e la sicurezza è davvero una intollerabile limitazione della libertà di espressione. Non vale la pena di fare la conta di quanti giornalisti di questa o di quell’altra coloritura politica debbano vivere sotto scorta, fosse anche uno solo sarebbe troppo. Questa situazione, va detto, dura da anni, il che testimonia una realtà diffcile da accettare: in un paese democratico e civile dire quel che si pensa è pericoloso.
Perché? Non è facile rispondere senza rifugiarsi nelle giuste ma ovvie recriminazioni sui sentimenti di odio e di totale disprezzo che accompagnano e inquinano la necessaria dialettica politica. E’ un clima col quale siamo costretti a convivere da quarant’anni, perché, al di là della solidarietà espressa con sincerità da tutti i responsabili di fronte a fatti di violenza politica, manca un’azione comune per estrometterla davvero e definitivamente dal confronto. Se si incita alla caccia all’uomo, come ha fatto per esempio Antonio Di Pietro contro Marcello Dell’Utri, ci si sottrae al dovere di garantire a tutti il diritto di espressione, con conseguenze indirette ma inequivocabili.
(tratto da il quotidiano "Il Foglio")

01 ottobre 2010

Tornano i cattivi maestri


Peccato. Sembrava che, dopo tanti anni, la parola, anche in Italia, si fossa liberata dalla prigione ideologica e linguistica che l’aveva costretta.
Che si potesse ricostruire un periodo storico o analizzare un problema d’attualità senza i meccanici collegamenti mentali del pregiudizio e della semplificazione.
Che il cambio delle generazioni riuscisse a spazzar via, da una parte, il livore accusatorio di una memoria ferita e, dall’altra, l’ossessione giustificazionista di una memoria che ancora rimorde. Invece, colpisce ritrovare nelle parole, ancora di oggi, i vecchi stilemi che una volta potevano fare molta paura e che, ora, e speriamo di non illuderci, sembrano soprattutto suonare stonati e suscitare un moto di noia, ma anche un po’ di tristezza.
Ci riferiamo a piccoli e non tanto piccoli segni che sono ritornati a comparire sui nostri giornali, sulle tv dei serali tornei verbali, nelle giungle anarchiche degli sfoghi adolescenziali su Internet. Gli esempi sono numerosi e frequenti, ma partiamo solo dall’ultimo in ordine di tempo, forse il meno importante, il meno colpevole e, persino, il più trascurabile. Ma, proprio per questo, significativo della persistenza, nella medietà di certa comunicazione giovanile, di tic mentali di cui speravamo esserci definitivamente liberati. Si tratta dell’intervista, sulla «Stampa» di ieri, a Rubina Affronte, la ragazza che ha lanciato un fumogeno contro Raffaele Bonanni, durante la festa nazionale del Pd, a Torino. La giovane, che ha solo 24 anni, giustifica la negazione del diritto di parola nei confronti del sindacalista segretario della Cisl con queste motivazioni: «Era importante non farlo parlare. Non era impedire di parlare a una persona. Ma a chi, con quelle parole, mette in pericolo i diritti fondamentali di milioni di lavoratori».
Fa soprattutto un po’ di tristezza, lo ripetiamo, ritrovare su quella bocca, sulla bocca di una ragazza di 24 anni, la sintesi, magari confusa e certamente ingenua, dei tre fondamentali e perversi schemi mentali che, in anni speriamo lontani, provocarono tanti lutti e tante sciagure nel nostro Paese. Il primo riguarda la trasformazione di una persona in un simbolo; di un uomo, spogliato dalla sua concretezza fisica ed elevato a un tale livello di astrazione che lo priva della sua identità, per ridurla alla generica categoria di un nemico senza volto. Così, questa mutazione impedisce di avversare le sue idee con altre idee, come si fa nella vita reale, e induce alla contraddizione di violare un diritto concreto, quello della parola o della stessa vita di una persona, in nome di un diritto astratto che si presume conculcato a una generalità di altre persone. Con la possibilità di negare la responsabilità del gesto, perché sublimato nel cielo dell’incolpevole irrealtà.
Proprio qui scatta la seconda trappola di quel vecchio schema mentale: quella di pretendere, con arrogante autodafé, di rappresentare una intera categoria sociale senza averne avuto alcun mandato, né alcun motivo per presupporne il diritto. Si tratta di un vero esproprio, per nulla autorizzato, della volontà altrui, di cui, invece, ci si fa vanto di intuirne la necessità, persino quella che non si manifesta nella coscienza della categoria di cui si presume di anticiparne i desideri. C’è, infine, il terzo peccato mortale di quella antica e perversa logica: il semplicismo di chi collega fatti singoli, separati nello spazio e nel tempo, distinti nella concretezza della situazione storica, in una generica e comoda macchinazione unitaria, sapientemente eterodiretta da menti perverse, onniscenti e onnipotenti. L’esagerazione della potenza avversaria, singola eccezione in quella babele di volontà disperse, contraddittorie e multiformi che si agitano sul palcoscenico del nostro mondo globalizzato, serve a esaltare, in una patetica regressione infantile, la virtù salvifica di un solo gesto, quello del piccolo Davide, capace di vincere il gigante Golia.
Al di là del modesto esempio citato, queste catene linguistiche che non riusciamo a spezzare definitivamente imprigionano ancora le menti di molti giovani e meno giovani che si vorrebbero pensare ormai libere di giudicare le persone, nella loro responsabilità individuale e concreta e i fatti, nella loro specificità. Menti capaci di distinguere la realtà dei nostri giorni da quella degli Anni 70 e 80. Una distinzione quanto mai necessaria, proprio perché la memoria di quegli anni fa ancora male.

(di Luigi La Spina- tratto da "La Stampa" del 30 Settembre 2010)