03 novembre 2011

Mancuso, il falso teologo

Il problema più grave che affligge la cultura cattolica in tutto l’Occidente è il disorientamento dottrinale provocato dal poco ascolto che i fedeli prestano al magistero ecclesiastico (quello solenne del Vaticano II e quello ordinario dei pontefici), mentre troppo ascolto viene prestato al confuso vociare dei teologi, quasi tutti legati a interessi ideologici di parte e tutti coinvolti nel conflitto tra progressisti e conservatori, pro e contro la “nuova teologia”.

Questa pretesa “nuova teologia” altro non è, in sostanza, che una riproposizione, da parte dei teologi cattolici, di quelle teorie sulla fede, sulla Trinità e sulla figura di Cristo che erano state elaborate nell’Ottocento dal luterano Hegel e poi nel Novecento dal cattolico Heidegger. Come spiego in un mio trattato che sarà presto in libreria (Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica scienza della fede da un’equivoca filosofia religiosa, Casa Editrice Leonardo da Vinci), la vera teologia è un sapere scientifico che mira alla sempre maggiore comprensione della fede della Chiesa. Come ogni sapere scientifico, la teologia ha le sue regole, e la prima di queste regole è la salvaguardia della materia di studio, che è fede di tutti. Il teologo parte dal presupposto che la fede della Chiesa – che egli condivide con tutti gli altri fedeli – corrisponde esattamente a quello che Dio ha rivelatosi nella storia della salvezza.
Se il teologo non accetta i dogmi della fede cattolica e si adopera piuttosto per ri-formularli, cambiarne il senso o addirittura negarli apertamente, allora egli abusa del suo titolo scientifico, la sua non è vera teologia. Chiunque può liberamente esporre le sue teorie su Dio e sulla religione, ma se uno non assume i dogmi come verità rivelata, non si deve presentare come un teologo ma come un filosofo: non si devono trarre in inganno i fedeli, che dai teologi si aspettano giustamente di essere confermati nella loro fede, non di esserne distolti. Nel mio libro faccio molti esempi di “falsa teologia”, e faccio anche dei nomi, come Teilhard de Chardin, Karl Rahner, Hans Küng e Klaus Hemmerle; alla fine, tra gli italiani, cito un discepolo di Hemmerle, Piero Coda, che si rifà alla filosofia religiosa di Hegel per re-interpretare la dottrina cattolica sulla Trinità e sull’Incarnazione con le categorie concettuali della dialettica idealistica. Il metodo di reinterpretazione del dogma insegnato da Coda è stato ripreso da molti suoi scolari, tra i quali Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea all’Università San Raffaele di Milano. Mancuso parla e scrive di teologia, e i suoi libri hanno avuto in Italia una vasta e chiaramente interessata eco nei mass media di orientamento laicistico: evidentemente, alla cultura anti-cattolica non può che far piacere che un autore che si proclama cattolico e teologo demolisca uno per uno tutti i dogmi della fede cattolica (era già successo anni or sono con i libri di Hans Küng). In uno dei suoi primi saggi Mancuso pretende di dare un senso al dramma del dolore umano innocente ricorrendo alla categoria dell’assurdo: «La creazione porta con sé la necessità che Dio soffra; di più: che Dio venga sacrificato. Dentro qui, dentro questa rivelazione assurda, sta l’assurdità dei bambini che nascono handicappati. Il rapporto di Dio col mondo fa prendere a Dio la forma dell’agnello, fa sorgere la figura dell’Agnello destinato al sacrificio. Dio, che è amore, scegliendo di porre il mondo e di porlo libero, diventa agnello sacrificale. E’ un’assurdità che l’onnipotenza divina debba soffrire, essere sgozzata, e questo proprio nell’atto che più di ogni altro rivela la sua onnipotenza. Ma questa assurdità è l’unico spazio concettuale per pensare l’assurdità dei bimbi nati malformati» (Vito Mancuso, Il doloro innocente. L’handicap, la natura e Dio, Mondadori, Milano 2002, pp. 156-157). Di fronte al mistero del male, il teologo che all’inizio cercava ostinatamente uno “spazio concettuale” che valga a riportare in un quadro logico di necessità gli eventi della storia, alla fine non trova di meglio che rinunciare a ogni razionalità; il mistero diventa così l’assurdo, e dall’assurdo del dato rivelato si passa a definire come assurdità, come “aporia” e come “contraddizione” tutta la realtà naturale, ragione per cui la metafisica e la logica classica vanno eliminate dalla teologia. Non occorre rimarcare che la grande novità prospettata da questo discorso teologico è di… tornare a Hegel! Quasi due secoli di critica della dialettica hegeliana da parte della teologia cattolica, e anche della stessa filosofia religiosa luterana (si pensi a Kierkegaard), sono tranquillamente ignorati. Qualche anno dopo, nel 2007, Mancuso pubblica L’anima e il suo destino e Rifondazione della fede, che vuole essere una sua personale interpretazione dell’escatologia cattolica, con particolare riguardo per i dogmi del peccato originale e della Redenzione. All’inizio del saggio l’autore dichiara che il suo intento non è di «distruggere la tradizione» dogmatica ma di «rifondarla», e a questo scopo egli propone un compromesso dottrinale che serva a tenere insieme «la bontà della creazione e la necessità della redenzione». Subito dopo, però, non esita ad affermare che il dogma del peccato originale, così come viene presentato dalla dottrina cristiana, va messo da parte, perché è «un’offesa alla creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all’innocenza e alla bontà della natura, alla sua origine divina»; peggio ancora, è «un autentico mostro speculativo e spirituale, il cancro che Agostino ha lasciato in eredità all’Occidente». Qui, come altrove e sempre, l’autore presenta il dogma come un’opinione teologica qualsiasi, senza avvertire la necessità di metterlo in rapporto con la dottrina del Magistero e con la Scrittura, ed è questo modo di affrontare gli argomenti della fede cristiana che non consente di considerare Mancuso un teologo (il giudizio, poi, sulla consistenza della sua filosofia religiosa è un discorso a parte). La proposta di Mancuso, impegnato come tanti altri filosofi religiosi a re-interpretare il dogma, è che per “peccato originale” occorre intendere semplicemente «la condizione umana, che vive di una libertà necessitata, imperfetta, corrotta, e che per questo ha bisogno di essere disciplinata, educata, salvata, perché se non viene disciplinata questa nostra libertà può avere un’oscura forza distruttiva e farci precipitare nei vortici del nulla» Mancuso non sembra accorgersi che l’abolizione del dogma del peccato originale, così come egli la propone, è la riproposizione di una vecchia tesi razionalistica, che sul piano teologico è stata già più volte condannata, e sul piano filosofico è stata dimostrata debitrice di una arbitraria scelta naturalistica all’interno del pensiero cristiano (vedi ad esempio Augusto Del Noce). Fatto sta che, in conseguenza di queste premesse, Mancuso arriva alla completa dissoluzione della soteriologia cristiana: negato il peccato originale e la sua azione devastante nella condizione umana, la salvezza della quale parla il Vangelo si risolve in un pagano esercizio di vita morale, senza più alcun bisogno di un soccorso dall’alto, ossia della grazia divina, frutto della Redenzione. In effetti, senza accorgersi che la sua teoria ripropone, senza sostanziali novità speculative, la vecchia eresia pelagiana, Mancuso afferma che la cristiana «salvezza dell’anima» va intesa come una vera e propria “auto-redenzione” da parte dell’uomo “illuminato”: «La salvezza dell’anima – scrive Mancuso - dipende dalla riproduzione a livello interiore della logica ordinatrice che è il principio divino del mondo; [essa] non dipende dall’adesione della mente a un evento storico esteriore, sia esso pure la morte di croce di Cristo, né tanto meno dipende da una misteriosa grazia che discende dal cielo». La risurrezione di Cristo risulterebbe così del tutto superflua: essa, per Mancuso, «non ha alcuna conseguenza soteriologica, né soggettivamente, nel senso che salverebbe chi vi aderisce nella fede visto che la salvezza dipende unicamente dalla vita buona e giusta; né oggettivamente, nel senso che a partire da essa qualcosa nel rapporto tra Dio e il genere umano verrebbe a mutare». Vanificata così la soteriologia, ne consegue la negazione della possibilità di una condanna eterna, e così anche il dogma dell’Inferno viene contraddetto: esso sarebbe «un concetto [... ] teologicamente indegno, logicamente inconsistente, moralmente deprecabile». Si notino i termini: se parlare, a proposito dell’Inferno, di «un concetto logicamente inconsistente, moralmente deprecabile» appartiene al linguaggio della filosofia, di quella filosofia che esprime la sua opinione (legittima, in linea di principio, anche se priva di giustificazione razionale) anche su temi religiosi, parlare di «un concetto teologicamente indegno» rivela invece la pretesa inaccettabile di presentare la sua tesi come “teologica”, ossia come legittima interpretazione della fede della Chiesa, il che è letteralmente una mistificazione. Il motivo conduttore dell’ultimo libro di Mancuso, Io e Dio (Garzanti, Milano 2011) è il sogno di un cristianesimo senza dogmi e di una teologia «liberante, non opprimente», le cui categorie non sono più il divieto, il peccato e la pena, ma la libertà, la responsabilità e la felicità. Così ai fedeli non verrebbe più inculcato il terrore dell’inferno: la teologia diventerebbe una serie di “consigli per gli acquisti” utili a vivere «la vita buona». Per realizzare questo sogno Mancuso arriva a negare addirittura l’idea di un Dio come “persona”: un Dio che comanda, che giudica, che condanna, un Dio cioè che esercita un potere esterno e assoluto. L’episodio biblico del sacrificio di Isacco (Dio ordina ad Abramo di offrigli il figlio come vittima sacrificale; Abramo obbedisce ma Dio all’ultimo lo ferma) è presentato dalla Chiesa come un esempio di fede perfetta, ma Mancuso ne prova disgusto, sia per l’immagine d’un Dio spietato che l’esempio di disumanità di un padre disposto a sacrificare il figlio. Da questa arbitraria interpretazione della Scrittura Mancuso passa poi alla solita deprecazione (già abbondantemente svolta in Italia da Gianni Vattimo) del potere temporale della Chiesa, anzi anche del potere spirituale della Chiesa stessa, che eserciterebbe, in nome di Dio, una ingiusta violenza sulle coscienze. Ecco allora la ripresa dei vecchi temi della morale autonoma (Kant), dell’identificazione della coscienza soggettiva con Dio (Hegel): «Il mio assoluto, il mio Dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me. […] Credendo in Dio, io non credo all’esistenza di un ente separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione dell’essere più profonda di ciò che appare in superficie […], capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora energia vitale più preziosa, perché quando l’attingiamo ne ricaviamo luce, forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l’esistenza di Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi, ma essenziale al cuore, esista, e sia la casa della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, della definitiva realtà». Un intellettuale laicista commenta il libro di Mancuso (Gustavo Zagrebelsky, «Mancuso: il primato della coscienza contro la chiesa dell’obbedienza», in la Repubblica, 9 settembre 2011, p. 12) e finge di essere interessato a come possa essere accettato dalla Chiesa: «Le sue tesi si sviluppano dall’interno del messaggio cristiano, della “buona novella”. Vito Mancuso, che tenacemente si professa cattolico, cerca il confronto, un confronto non facile. Lui si considera “dentro”; ma l’ortodossia lo colloca “fuori”. […] La teologia di Mancuso sarebbe una riedizione dell’orgoglio di chi si considera “illuminato” da una grazia particolare che lo solleva dalla bruta materia e lo introduce al mondo dello spirito e alla conoscenza delle verità ultime, nascoste agli uomini semplici. La Chiesa ha sempre combattuto la gnosi come eresia, peccato d’orgoglio luciferino». Poi, con disinvolta ipocrisia, il laicista Zagrebelsky fa l’avvocato difensore: «Nelle pagine di Mancuso non mancano argomenti per replicare. Dappertutto s’insiste sull’intrico di materia e spirito e sulla loro appartenenza a quella realtà (che aspira a diventare) buona, cioè vera, giusta e bella, che chiamiamo creazione o azione che va creando. Se mai, il dubbio che potrebbe porsi è se, in quest’unione, non vi sia una venatura panteista: Dio come natura. Punto, probabilmente, da approfondire». Altro che «venatura»! Quello di Mancuso è genuino panteismo (anche se teoreticamente inconsistente). Ma, mi domando: perché il recensore (o meglio, il propagandista) del libro di Mancuso storce il naso se sente odore di panteismo? Per lui che è agnostico e contrario a qualsiasi dogma religioso, che differenza fa un’eresia cristiana in più o in meno? La teologia di Mancuso consentirebbe di tracciare nuovi e sorprendenti confini, non più basati sull’obbedienza e sulla disciplina. Così, si scoprirebbe forse che molti, che si dicono dentro, sono fuori; e molti, che si dicono fuori, sono dentro. “Dentro” vuol dire: in una comune tensione verso quel logos del mondo che è la giustizia, appannaggio di nessuno e compito dei molti “di onesto sentire”». Insomma, la pseudo-teologia di Mancuso piace ai miscredenti perché porta acqua al mulino della polemica contro la Chiesa e ripropone (proprio come aveva fatto in precedenza Hans Küng con la sua Welthetik) i progetto massonico di una religione universale “laica” senza gerarchia e senza dogmi, quella religione che alla fine del Settecento era stata teorizzata dal massone Gotthold Ephraim Lessing con Nathan der Weise. Ein Dramatisches Gedicht (1779), opera alla quale Mancuso ricorre più volte. E allora si capisce il senso della conclusione cui arriva il commento sulla Stampa: «Nella “vita buona” di Mancuso, il primato è della coscienza; nella “vita buona” della Chiesa il primato è dell’ubbidienza. Libertà contro autorità: una dialettica vecchia come il mondo. Scambiare la libertà di coscienza con la gnosi è un artificio retorico. Vale per persistere nell’accantonare i molti problematici aspetti della vita della Chiesa impostati su dogmi e gerarchia. Non solo: rende difficile il rapporto con i credenti di altre fedi, religiose e non. Riporta in auge il prepotente principio extra Ecclesiam nulla salus».
(di Antonio Livi- tratto dalla "Bussola Quotidiana")

02 novembre 2011

La Chiesa, l'aborto e Ferrara

Lo avevamo già detto la scorsa settimana, ma è giusto ripetersi: bisogna dare merito a Giuliano Ferrara di tenere viva l’attenzione sul dramma dell’aborto con una decisione e una energia sconosciute a gran parte del mondo cattolico. E così facendo mostra anche tutta la menzogna di quella propaganda che vorrebbe ridurre la questione dell’aborto a uno scontro laici contro cattolici. Non è necessario essere cattolici per comprendere tutta la barbarie di questa eliminazione sistematica dei soggetti più deboli e vulnerabili della società. Basta l’uso della ragione.

Se ci ripetiamo è perché negli ultimi giorni Ferrara dalle colonne de Il Foglio è tornato due volte sull’argomento, la seconda delle quali – ieri – rispondendo al nostro editoriale del 21 ottobre firmato da Mario Palmaro. Sabato 22 ottobre, invece, aveva rispettosamente spiegato in prima pagina perché ritiene che la Chiesa sia oggi l’ostacolo più grosso a una vera battaglia culturale contro l’aborto. “La comprensione del peccato” insita “nell’amore”, dice in sostanza il direttore del Foglio, in qualche modo rende molli i cattolici che penserebbero più a “redimere” l’umanità che pecca – puntando su tempi lunghi - che non a intervenire drasticamente per bloccare questa vergogna “nel tempo legislativo e politico”. Poi, a Palmaro che gli ricordava l’errore di considerare come un dato acquisito e indiscutibile la legge 194 (se una cosa è male non può essere ammessa dalla legge), Ferrara risponde che una battaglia legislativa è di retroguardia, che “la sanzione giuridica del reato di aborto non funziona in un mondo relativista”. E quindi lancia la sua proposta: “superare la legge, darla per scontata, e opporre un amore sì, ma un amore paolino, un amore duro, ardente, di fede e di cultura, alla sordità morale che impedisce politiche pubbliche doverose contro l’aborto in ogni sua forma (compresa la manipolazione eugenetica dell’embrione umano)”.

Noi condividiamo appieno la parte fondamentale della proposta, quella dell’«amore paolino», della battaglia culturale per opporci alla sordità morale della nostra società. E non potrebbe essere altrimenti: nel nostro piccolo è quello che La Bussola Quotidiana fa già da quando è nata, meno di 11 mesi fa, non a caso nella ricorrenza dell’8 Dicembre, l’Immacolata Concezione: quale figura umana può più degnamente rappresentare questa battaglia culturale invocata da Ferrara? E l’Immacolata ci ricorda anche che l’opposizione all’aborto non nasce da una convinzione ideologica, ma da un sì alla vita, da un sì alla verità di sé che fa proprie tutte le ragioni e tutte le inquietudini e incertezze degli uomini e delle donne di ogni tempo.

Noi ci sentiamo già appieno in questa battaglia ricordando anche le profetiche parole di Giovanni Paolo II che all’incontro mondiale con le famiglie, a Rio de Janeiro nel 1997, disse chiaramente che la battaglia del Terzo millennio sarebbe stata attorno all’uomo, perché Satana, non potendo colpire Dio direttamente, si accanisce contro il vertice della Creazione, quella creatura fatta a Sua immagine e somiglianza. L’aborto, la sua banalizzazione, il tentativo di diffonderlo in tutto il mondo, addirittura la follia di volerlo inserire tra i diritti umani fondamentali, è il segno più evidente di quanto Giovanni Paolo II avesse ragione.

Quindi, caro Ferrara, su questo noi ci siamo, anche perché ci siamo sempre stati e il curriculum di tante firme de La Bussola Quotidiana non lascia spazio a dubbi. Ma siamo convinti che di questa battaglia culturale faccia anche parte riaffermare la profonda ingiustizia di quella legge che nel nostro paese ha introdotto l’aborto.

Non facciamo oggi una battaglia per cambiare quella legge, né indugiamo su questo, ma solo perché siamo consapevoli che non ci sono le condizioni culturali e politiche per poterlo fare. E su questo siamo perfettamente d’accordo. Ma un conto è dire che allo stato attuale la legge non si può cambiare, che non vale la pena discuterne, un conto è dire che la 194 va bene così. Se il giudizio sull’aborto è così chiaro - “un omicidio seriale” – non può non comprendere anche una valutazione sulle leggi che lo consentono. Come del resto è una proposta giuridica quella di riformare in senso anti-abortista l’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, un altro cavallo di battaglia di Ferrara.

Ma oltre che sul piano della logica è bene spiegare questo punto anche da un punto di vista storico ecclesiale. In fondo Ferrara ha ragione nel lamentare una certa ritrosia del mondo cattolico a impegnarsi sul tema dell’aborto: del resto la stessa campagna per il referendum del 1981 dovette fare i conti con una latitanza piuttosto diffusa tra i pastori della Chiesa italiana. E tutt’oggi è molto più facile trovare un vescovo che si scaldi e lanci anatemi contro la gestione privata degli acquedotti che non uno che faccia altrettanto contro la piaga dell’aborto.

Difficile però sostenere che il problema stia nella concezione di amore. Esso sta piuttosto nella mancanza di amore: alla vita e alla verità anzitutto. Lo dimostra il fatto che i documenti del Magistero, gli interventi dei Papi, sono sull’aborto molto più duri e netti delle posizioni che poi vengono assunte da singoli vescovi, sacerdoti, laici impegnati nel sociale e nella politica. Non è certo un segreto che i ripetuti interventi di Giovanni Paolo II su questo tema, in Italia e all’estero, fossero sopportati con un certo qual fastidio e per quanto possibile silenziati da molti opinion leader cattolici, laici o ecclesiastici che fossero. Basterebbe confrontare quanto è scritto nella Evangelium Vitae o nella nota del 2002 della Congregazione della Dottrina della Fede sull’impegno in politica, con il contenuto dei giornali cattolici “ufficiali” per rendersi conto che c’è una distanza abissale nel giudizio e nelle conseguenze. E i “princìpi non negoziabili” codificati da Benedetto XVI, che il Papa – e ora anche il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco – pone come fondamento di ogni politica per il bene comune sono visti come pietra d’inciampo da tante sigle e personalità cattoliche. Noi stessi lo abbiamo denunciato più volte da queste colonne: i primi a non credere veramente al valore dei “princìpi non negoziabili” (famiglia, vita, libertà di educazione) sono la gran parte dei vescovi.

Dopo l’approvazione della legge sull’aborto nel 1978 e la sconfitta nel referendum del 1981, in tanti è prevalso il desiderio di evitare l’argomento, considerato troppo lacerante per la società italiana. Si è pensato di contribuire a ricucire le ferite provocate da quell’aspro confronto, tacitando l’argomento: si è cioè anteposta l’opportunità “politica” alla verità e all’amore (sul piano politico era già avvenuto in precedenza se si considera che la legge 194 fu firmata da ministri democristiani di provata fede cattolica). Inoltre, i tanti cattolici che da laici e rimettendoci in proprio – bisogna riconoscerlo – si sono sempre spesi in prima linea sul fronte della vita (Centri di aiuto alla vita, Progetto Gemma, sepoltura dei feti) hanno faticato a trovare simpatia e sostegno in coloro che nella Chiesa contavano. E sulla legge 194 per oltre venti anni è calata una cortina di silenzio.

In altre parole, l’introduzione di questa legge ha avuto anche l’effetto di infiacchire la Chiesa italiana sul piano della battaglia culturale. E l’oblìo in cui è caduta la Legge 194 è una delle cause che ha permesso, in tempi recenti, ad autorevoli esponenti cattolici e pro-life di riparlarne in termini positivi, come se il problema in questi anni fosse stato solo nella mancata applicazione di alcune parti della legge stessa, più favorevoli all’accoglienza della vita. Ripetiamo per evitare fraintendimenti: ben venga tutto quello che si può fare per migliorare la situazione, per ridurre il più possibile gli aborti procurati, anche l’uso di una legge ingiusta come la 194. E sempre tenendo conto che abbiamo a che fare con dei drammi umani. Ma questo non fa diventare buono ciò che è intrinsecamente cattivo. Non possiamo confondere la strategia politica e culturale con il giudizio di valore.

Una vera battaglia culturale, “opporre un amore paolino alla sordità morale che impedisce politiche pubbliche doverose contro l’aborto in ogni sua forma”, implica che tutto sia compreso nella verità, che nulla sia censurato. Su questo noi ci siamo.

(di Riccardo Cascioli- tratto dalla "Bussola Quotidiana")

22 ottobre 2011

Ora basta con l'aborto

E adesso che facciamo? La massima corte di giustizia europea ha stabilito che l’embrione umano, perfino prima di essere compiutamente un embrione fecondato, non può essere manipolato e brevettato da ricercatori e scienziati. E un feto di un certo numero di settimane? Quello sì, quello può essere abortito. Lo dice la nostra cultura giuridica. La situazione morale che ne deriva è incandescente, e pone problemi serissimi a tutti. Il ricercatore è in una situazione etica diversa da quella della donna che ospita un figlio indesiderato. Nel primo caso si tratta di metodologia scientifica, dei rischi di fare tutto quel che è possibile fare in provetta. Nel caso della donna si tratta di una scelta diretta di vita. Sarebbe giusto ormai riconoscere che si tratta di una scelta tra due vite: la sua libertà procreativa cosiddetta, e la vita umana fecondata e in crescita, nutrita e accudita dal suo corpo, destinata ad annientamento. Una sentenza stabilisce che nel primo caso c’è una dignità umana che sarebbe offesa da procedure di selezione e distruzione. Nel caso della donna mille sentenze tutelerebbero, ai sensi delle leggi abortiste, il diritto a fare quanto e più di quello che, in nome della dignità della vita umana, è precluso al ricercatore. Incandescente. Confermiamo un nostro vecchio orientamento. L’aborto è un omicidio, il massimo omicidio possibile perché preclusivo di tutto il futuro della persona. Nello scontro fra assoluti etici che questo comporta, non è possibile riparare a un peccato morale, tra i più antichi e sofferti del mondo, con punizioni e ipotesi di reato penale a carico delle donne che abortiscono e di chi collabora al fatto abortivo. Ma questo dramma deve imporci una conseguente, ferma, severa, responsabile politica antiabortista, a partire dalla guerra culturale contro lo sterminio per selezione e annientamento dei non nati. Oltre un miliardo in trent’anni. E la conta continua. Era il tema della moratoria antiaborto del 2008 e della lista presentata alle recenti elezioni politiche italiane. Ridefinire la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo firmata a San Francisco nel 1948, all’articolo 3. Specificare bene che i confini della vita umana oggi conosciuta, dopo le ricerche e la mappazione del Dna, sono diversi da quelli conosciuti nel 1948. Far discendere da questa ridefinizione le norme giuste per rendere importanti e cogenti i controlli sulle motivazioni dell’aborto, prima dell’operazione distruttiva da scongiurare ai limiti del possibile. Investire soldi pubblici nella promozione sussidiaria e privata di ogni tipo di assistenza antiaborto. Attrezzare cimiteri per i non nati, che devono avere un nome, e finirla con la pratica della loro eliminazione sotto la categoria dei “rifiuti ospedalieri speciali” cosiddetti. Estendere la pratica delle adozioni, la moderna ruota dei conventi. E molto altro. Insomma lottare contro la sordità morale nei confronti dell’aborto e delle pratiche di selezione eugenetica che portano occidente e oriente a fare della libertà della donna, della libertà di nascere come frutto dell’amore, della libertà di esistere anche se non si sia figli maschi, un infernale e nichilistico macello sociale. (di Giuliano Ferrara)

06 ottobre 2011

Amanda Knox, i media e il pregiudizio anti-cattolico


Non poteva mancare. Nell’orgia mediatica che si è consumata intorno al processo per l’uccisione di Meredith Kercher, non poteva mancare qualcuno che tirasse in ballo la Chiesa. “La natura delle accuse contro Amanda Knox erano quasi esclusivamente di natura sessuale. L’Italia cattolica condanna lo stile di vita e un clichè adoperato ad hoc, non il fatto – mai dimostrato – che abbia ucciso”. Così afferma in un’intervista al Corriere della Sera (notare anche il giornalista compiacente) lo scrittore-avvocato americano Scott Turow, che aggiunge: “L’aver dipinto sin dal primo istante la Knox come una giovane americana viziosa, promiscua e drogata, giunta in Italia dalla capitale degli hippy Seattle solo per divertirsi, ha consolidato uno stereotipo con grande presa sulla vostra opinione pubblica". Ecco il problema: Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati condannati in primo grado soltanto perché siamo un paese cattolico, che non ama le ragazze licenziose e che magari fanno uso anche di droga. Cosa che se fosse vera vedremmo Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti – nel processo attualmente in corso – condannati anche per le stragi di Bologna, Ustica e Piazza Fontana. Stando al teorema di Turow perciò, quella folla che, fuori dal Tribunale di Perugia, a sentenza nota ha cominciato a fischiare e urlare “Vergogna, Vergogna!”, era senz’altro un gruppo di esagitati dell’Azione Cattolica e del Movimento Chierichetti. Ma non è solo Turow; il quotidiano inglese The Daily Telegraph è ancora più preciso: il responsabile di questo flop giudiziario è il cattolico pubblico ministero Giuliano Mignini, che a causa della sua fede è anche fissato con il satanismo e le messe nere. Insomma, Mignini avrebbe legato la ricorrenza di Halloween – l’omicidio avvenne l’1 novembre – con presunti riti satanici a base di sesso che avrebbero portato alla morte di Meredith. Ovviamente, questa sarebbe pura fantasia scatenata nella testa del pubblico ministero dal suo essere cattolico. In altre parole, secondo questi illuminati signori del mondo anglosassone, l’Italia è il paese della superstizione e della caccia alle streghe a causa della sua tradizione cattolica. Evidentemente non hanno letto la cronaca dei giornali italiani negli ultimi anni. Parlare di pregiudizio anti-cattolico in questo caso è perfino riduttivo. Sia ben chiaro, noi non abbiamo elementi né a favore della colpevolezza né dell’innocenza, così come la stragrande maggioranza di coloro che – italiani e non – hanno scritto di questo processo. Guardiamo soltanto a ciò che è avvenuto intorno al processo, e non possiamo fare a meno di notare che al pregiudizio anticattolico si sposa anche una punta di razzismo da parte soprattutto dei media e dei politici statunitensi. Per loro Amanda Knox è innocente a prescindere: è americana, non può essere colpevole di alcunché avvenuto in terra straniera. Gli italiani non sono degni di giudicare un cittadino americano, come si osa portare alla sbarra chi è “superiore” per nascita? Non è purtroppo la prima volta che accade: è successo per la strage del Cermis, è successo per la morte dell’agente segreto Nicola Calipari in Iraq. Ma in questi casi, si poteva pensare, il problema era che sul banco degli imputati c’erano dei militari. Nel caso di Perugia però - un fattaccio di cronaca nera senza alcun collegamento, neanche lontano, con la politica - abbiamo visto scendere in campo per fare pressione sulla giuria addirittura il segretario di Stato Hillary Clinton. Un fatto di cronaca nera che diventa affare di stato: unica prova dell’innocenza, la cittadinanza americana. E giù a ricordarci che nel “perfetto” sistema giudiziario americano Amanda Knox sarebbe stata assolta subito perché non ci sono prove sufficienti della sua colpevolezza: «Il nostro sistema giudiziario – dice ancora Turow – parte sempre dal presupposto di innocenza. Sta all’accusa dimostrare la colpevolezza di un imputato, attraverso prove “al di là di ogni ragionevole dubbio”». Che il nostro sistema giudiziario non sia un bell’esempio ne siamo ben coscienti (e lo conferma purtroppo anche il processo di Perugia con due sentenze che danno verdetti opposti), ma che normalmente si condanni sulla base di pregiudizi etnici e senza prove convincenti fa un po’ ridere. Soprattutto se questa lezioncina ci viene dagli Stati Uniti dove, guarda caso, tra gli oltre 400 cittadini italiani detenuti nelle locali carceri, ci sono due casi molto controversi. Anzitutto quello di Carlo Parlanti, accusato nel 2004 e poi condannato nel 2006 per stupro, violenza e sequestro di persona dall’ex compagna. La donna durante il processo ha offerto più versioni discordanti, le indagini non sono mai state fatte e, durante il processo, Parlanti non ha avuto neanche l’ausilio di un interprete. E in pochi giorni, si è trovato la condanna sulle spalle. Il secondo caso è quello di Enrico (Chico) Forti, produttore di filmati per la tv, condannato nel 2000 all’ergastolo in Florida per l’omicidio di un immobiliarista al termine di un processo indiziario da cui non è emersa alcuna prova concreta a suo carico. A generare dubbi sulla sentenza è anche il fatto che Forti era entrato in pesante contrasto con la polizia, in relazione alle nebulose vicende che avevano portato alla morte dello stilista italiano Versace e, successivamente, del suo presunto assassino. Forti, anche in servizi televisivi, definì la polizia “corrotta”, insinuando che essa avrebbe confuso le acque per salvaguardare i veri colpevoli. Da quel momento iniziano i guai e la sentenza lo condanna all’ergastolo “per aver personalmente e/o con altra persona o persone allo Stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamene, la morte di Dale Pike”. Accuse vaghe, come quelle della pubblica accusa nella requisitoria finale: “Lo Stato non ha bisogno di provare che Forti è il killer per provare che proprio lui sia stato il colpevole dell’omicidio…”. Questo sarebbe l’esempio di prove “al di là di ogni ragionevole dubbio”, secondo la giustizia americana. O almeno se l’imputato è italiano. Ma il nostro ministro degli Esteri, benché sensibilizzato sul tema, nemmeno si sogna di fare qualche domanda alla signora Clinton.


(di Riccardo Cascioli- tratto da "La Bussola Quotidiana")

04 ottobre 2011

Vendola e i cattolici. Il bastone e la carota

Nello scorso week-end Nichi Vendola, governatore della Regione Puglia e, se la sinistra facesse le primarie, tra i più probabili candidati di quello schieramento alla presidenza del Consiglio, ha partecipato alla convention a Roma dei circoli Nuova Italia che fanno capo al sindaco di Roma Gianni Alemanno. Ero presente, invitato a parlare di politica estera. Ho trovato molto interessanti gli applausi reiterati a Vendola, ogni volta che il politico pugliese si è lanciato in battute contro la «casta» e i «ricchi» da parte di un pubblico di destra che evidentemente condivide il clima di esasperazione che ormai domina nel Paese. Mi ha colpito, però, un passaggio del discorso di Vendola, esplicitamente rivolto ai cattolici e ai vescovi. Vendola, come tutti sanno, è dichiaratamente omosessuale e favorevole al riconoscimento giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso, così com'è favorevole alla sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione per malati che si trovino nella situazione di Eluana Englaro. Orbene, Vendola ha rievocato una grande sconfitta del suo schieramento, il Family Day, chiedendosi retoricamente dove sono oggi quei militanti,quelle associazioni cattoliche e quelle famiglie. Probabilmente, ha detto, stanno maledicendo il governo Berlusconi di cui con quella manifestazione hanno favorito la nascita per avere tagliato i fondi alle loro associazioni e al loro volontariato, nonché - attraverso l'ultima manovra - alle stesse famiglie. «Chiedetevi - ha detto Vendola - che cosa preferiscono davvero oggi quei movimenti e quelle famiglie. Preferiscono ritrovarsi senza fondi e senza aiuti, ma con la magra soddisfazione di sapere che modelli di famiglia e di diritti diversi dal loro in Italia non sono riconosciuti, oppure preferirebbero un altro governo, che da una parte dia spazio ai nuovi diritti ma dall'altra faccia arrivare alle famiglie e al volontariato i fondi di cui hanno bisogno?“. Premesso che «nuovi diritti» è un nome in codice per il riconoscimento delle unioni omosessuali e della possibilità di sospendere l'alimentazione e l'idratazione dei malati alla Eluana, la domanda di Vendola ha una versione bastone e una versione carota.
La versione bastone suona così: cari cattolici, cari vescovi, quando saremo al governo noi state attenti a non opporvi all'eutanasia e al matrimonio omosessuale perché potremmo colpirvi dove fa più male, togliendovi le esenzioni fiscali e strangolando economicamente le vostre associazioni e le vostre scuole. In tanti Paesi il laicismo ha fatto così.
Bisogna riconoscere che - benché la versione bastone in questi casi sia sempre implicitamente sullo sfondo - Vendola per ora ha usato la versione carota, proponendo un baratto. Con un prossimo governo del dopo-Berlusconi, magari proprio un governo Vendola, voi - vescovi e cattolici - impegnatevi a non disturbare il manovratore sul tema «nuovi diritti». In cambio ci dimenticheremo dei proclami bellicosi sull'ICI da far pagare alla Chiesa e daremo anche qualche soldino al volontariato e alle famiglie.
La proposta indecente di Vendola richiede due diverse risposte. La prima richiama ancora una volta alla questione dei principi non negoziabili. Per quanto siamo affezionati al quoziente familiare, la vita e la famiglia vengono prima. Il Papa lo ricorda tutti i giorni, e sarebbe bene che a scanso di equivoci lo ricordassero pubblicamente anche i vescovi italiani direttamente chiamati in causa dal governatore della Puglia. La seconda risposta l'ha data il Papa in Germania. La Chiesa Cattolica protesta contro le ingiustizie di chi le ruba beni materiali legittimamente acquisiti, ma teme di più chi le vuole rubare l'anima. E non accetta baratti che «annacquino» la verità. Nella storia, per quanto malintenzionato e ingiusto fosse chi la spogliava dei beni materiali, queste spoliazioni - ha detto il Papa a Friburgo - «significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spogliava, per così dire, della sua ricchezza terrena e tornava ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena. Con ciò, la Chiesa condivideva il destino della tribù di Levi che, secondo l’affermazione dell’Antico Testamento, era la sola tribù in Israele che non possedeva un patrimonio terreno, ma, come parte di eredità, aveva preso in sorte esclusivamente Dio stesso, la sua parola e i suoi segni. Con tale tribù, la Chiesa condivideva in quei momenti storici l’esigenza di una povertà che si apriva verso il mondo, per distaccarsi dai suoi legami materiali, e così anche il suo agire missionario tornava ad essere credibile». Il Papa certamente non pensava a Vendola. Ma qui si trovano anche i principi per rispondere alla sua proposta tecnicamente irricevibile. La Chiesa non fa compromessi. Come ha detto ancora il Papa a Erfurt, ai protestanti, «la fede dei cristiani non si basa su una ponderazione dei nostri vantaggi e svantaggi. Una fede autocostruita è priva di valore. La fede non è una cosa che noi escogitiamo o concordiamo. È il fondamento su cui viviamo». Vade retro, Vendola. (di Massimo Introvigne- tratto dalla "Bussola Quotidiana")

E Olmi scambia il cristianesimo per la Caritas



Il cristianesimo ridotto a religione sociale. A mistica della solidarietà e dell’accoglienza. È una tendenza via via crescente in televisione, al cinema, nei giornali. Ne abbiamo avuto un ultimo esempio anche l’altra sera a Che tempo che fa di Fabio Fazio, ospite principale Ermanno Olmi, in passato il cineasta italiano di più elevato spessore religioso. Tocca dire in passato, peraltro con rammarico, dopo aver visto Il villaggio di cartone, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia e nei cinema da venerdì prossimo. Anche l’altra sera Olmi ha confermato la tesi in odore di eresia della sua pellicola nella quale, alla prima scena, un gigantesco braccio meccanico spoglia una chiesa del suo crocifisso mentre qualcun altro toglie dalle pareti le immagini devozionali. Quell’edificio non è più luogo di culto ma, è la metafora del film, proprio ora che il battistero è diventato un abbeveratoio e le candele servono per riscaldare infreddoliti ospiti, paradossalmente corrisponde meglio alla sua natura. Tra i banchi, vicino all’altare e nella sacrestia viene accolto e nascosto un gruppo d’immigrati nordafricani e così il prete (Michael Lonsdale) riscopre la sua vera vocazione: «Ho fatto il prete per fare del bene, ma per fare il bene non serve la fede. Il bene è più della fede», riflette il sacerdote, alter ego dello stesso Olmi. «Non siete d’accordo?», ha chiesto Olmi al pubblico di Fazio. Figurarsi. Insomma, per l’ex cineasta di più elevato spirito religioso, la fede è diventata un intralcio a compiere il bene e il crocifisso un impedimento ad accogliere gli immigrati. Missione peraltro sacrosanta, come ha argomentato in un recente intervento sull’Espresso («Amerai lo straniero come te stesso») anche il cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura nonché, insieme con Claudio Magris, consulente di Olmi per Il villaggio di cartone. Sarebbe bastato lasciare al suo posto il crocefisso anziché deporlo alla prima scena. E avremmo potuto discutere a lungo sulla mancanza di carità tra i cristiani verso gli stranieri. Invece, sia alla Mostra di Venezia che da Fazio Olmi ha sottolineato che «è troppo facile inginocchiarsi davanti a un simbolo di cartone. Cristo è morto in croce duemila anni fa. Ora bisogna inginocchiarsi davanti a chi soffre, agli immigrati, ai giovani senza lavoro, a chi è vittima della droga». Applausi della platea. Così la riduzione sociale del cristianesimo rischia di passare in prima serata con le benedizioni più prestigiose e autorevoli. E anche nei sacrari della cultura come il Piccolo Teatro Strehler dove ieri sera, post anteprima, Olmi è stato applaudito da Ferruccio De Bortoli, Giulio Giorello e don Gino Rigoldi. Eppure, il regista aveva intestato il pressbook del suo film con una frase di Indro Montanelli che avrebbe dovuto illuminarlo: «L’unica grande rivoluzione avvenuta nel nostro mondo occidentale è quella di Cristo il quale dette all’uomo la consapevolezza del bene e del male, e quindi il senso del peccato e del rimorso. In confronto a questa, tutte le altre rivoluzioni - compresa quella francese e quella russa - fanno ridere». Invece il verbo della religione sociale ha prodotto e rischia di produrre una conversione al contrario anche in certi ambienti cristiani. Prima verrebbero le buone azioni, la solidarietà e la virtù, come se la Chiesa fosse una gigantesca Caritas. Poi la fede. Ma a questo punto la venuta di Gesù Cristo sarebbe superflua. Al contrario, nel Dialogo dell’Anticristo il grande filosofo russo Vladimir Solov’ev fa dire allo starets Giovanni rivolto all’imperatore che lo interroga su ciò a cui tengono i cristiani: «Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso e tutto ciò che proviene da lui». Carità compresa. (di Maurizio Caverzan- tratto da "Il Giornale")

03 ottobre 2011

Quella parole del Papa frettolosamente archiviate




Domenica 25 settembre, giornata conclusiva del suo terzo viaggio in Germania, Benedetto XVI, incontrando i «cattolici impegnati nella Chiesa e nella società» alla Konzerthaus di Friburgo, ha pronunciato un discorso per certi versi più dirompente e «storico» rispetto a quello tenuto tre giorni prima davanti al Bundestag di Berlino.


Ecco alcuni passaggi del discorso di Papa Ratzinger, che partiva dalla constatazione della diminuzione della pratica religiosa e dalla domanda su quale fosse il cambiamento e il rinnovamento necessario per la Chiesa, che «deve sempre di nuovo verificare la sua fedeltà» alla missione affidatale: essere testimone, fare discepoli tutti i popoli, proclamare il Vangelo a ogni creatura. Per compiere la sua missione, la Chiesa «dovrà anche continuamente prendere le distanze dal suo ambiente, dovrà, per così dire, essere "demondanizzata"». La Chiesa «Non possiede niente da sé stessa di fronte a Colui che l’ha fondata, in modo da poter dire: l’abbiamo fatto molto bene! Il suo senso consiste nell’essere strumento della redenzione, nel lasciarsi pervadere dalla parola di Dio e nell’introdurre il mondo nell’unione d’amore con Dio. La Chiesa s’immerge nell’attenzione condiscendente del Redentore verso gli uomini. Quando è davvero se stessa, essa è sempre in movimento, deve continuamente mettersi al servizio della missione, che ha ricevuto dal Signore. E per questo deve sempre di nuovo aprirsi alle preoccupazioni del mondo, del quale, appunto, essa stessa fa parte, dedicarsi senza riserve tali preoccupazioni, per continuare e rendere presente lo scambio sacro che ha preso inizio con l’incarnazione». «Nello sviluppo storico della Chiesa si manifesta, però, anche una tendenza contraria: quella cioè di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo. Non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo». «Per corrispondere al suo vero compito, la Chiesa deve sempre di nuovo fare lo sforzo di distaccarsi da questa sua secolarizzazione e diventare nuovamente aperta verso Dio». Benedetto XVI ha quindi accennato agli effetti positivi che hanno avuto nel corso delle storia certe «secolarizzazioni» e certe perdite di potere per la Chiesa: «Le secolarizzazioni infatti – fossero esse l’espropriazione di beni della Chiesa o la cancellazione di privilegi o cose simili – significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spoglia, per così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena. Con ciò condivide il destino della tribù di Levi che, secondo l’affermazione dell’Antico Testamento, era la sola tribù in Israele che non possedeva un patrimonio terreno, ma, come parte di eredità, aveva preso in sorte esclusivamente Dio stesso, la sua parola e i suoi segni. Con tale tribù, la Chiesa condivideva in quei momenti storici l’esigenza di una povertà che si apriva verso il mondo, per distaccarsi dai suoi legami materiali, e così anche il suo agire missionario tornava ad essere credibile». «Gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa "demondanizzata" emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo. Può nuovamente vivere con più scioltezza la sua chiamata al ministero dell’adorazione di Dio e al servizio del prossimo. Il compito missionario, che è legato all’adorazione cristiana e dovrebbe determinare la struttura della Chiesa, si rende visibile in modo più chiaro». «Non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell’oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell’oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine». «Vi è una ragione in più per ritenere che sia nuovamente l’ora di trovare il vero distacco del mondo, di togliere coraggiosamente ciò che vi è di mondano nella Chiesa. Questo, naturalmente, non vuol dire ritirarsi dal mondo, anzi, il contrario. Una Chiesa alleggerita degli elementi mondani è capace di comunicare agli uomini – ai sofferenti come a coloro che li aiutano – proprio anche nell’ambito sociale-caritativo, la particolare forza vitale della fede cristiana». Una Chiesa alleggerita da elementi mondani, sobria, spoglia della sua ricchezza terrena e grazie a ciò più «trasparente» ed essenziale nella testimonianza, nel comunicare ciò che ha ricevuto. Queste parole di Benedetto XVI sono state archiviate troppo presto, troppo frettolosamente. Erano rivolte alla Chiesa tedesca, fortemente strutturata, ma il loro valore va ben al di là dei confini della Germania. È una «conversione» chiesta alla Chiesa in tutto il mondo. Sono parole che meriterebbero di essere meditate, assimilate e messe in pratica ovunque la Chiesa si trovi. A cominciare dal Vaticano. (di Andrea Tornielli- tratto da "Vatican Insider)

Guerra a colpi di poster. Il Nord Est si ribella alla bestemmia

Il terzo comandamento lo dice forte e chiaro: «Non pronunciare il nome di Dio invano». E qualcuno, proprio laddove gli epiteti rivolti all’Aldilà sono il pane quotidiano, il monito l’ha preso sul serio. Prefiggendosi un obiettivo nobile quanto irto di ostacoli: eliminare le bestemmie dal linguaggio quotidiano. Siamo nel Triveneto, dove per tradizione a Dio e alla Madonna ci si rivolge non solo per pregare. In tre paesi, nelle province di Padova, Venezia e Pordenone, la guerra alla bestemmia è ufficialmente cominciata. E ha assunto le forme più originali. A San Donà di Piave (Venezia) nel campo di calcio del Mussetta 2010 - che milita nel campionato di terza categoria - è apparsa una gigantografia, alta ben due metri, di Santa Maria Assunta. L’immagine è stata affissa sulla rete a bordo campo, nello stadio Lillo Burigotto, come monito per tutti i presenti: la Beata Vergine va rispettata sempre, anche quando gli avversari fanno gol. L’idea è dei dirigenti della piccola società, che hanno cominciato la loro originale battaglia per sensibilizzare pubblico e calciatori a «una partita corretta e senza bestemmie». Poco distante, a Montegrotto (Padova), il sindaco Massimo Bordin il campo di calcio ha deciso addirittura di chiuderlo per sempre. Troppe le bestemmie che, anno dopo anno, sono arrivate alle orecchie del parroco e dei fedeli riuniti nella vicina chiesa di Mezzavia. Così il primo cittadino, di fronte all’ennesima lamentela, ha «scomunicato» il piccolo stadio. Al suo posto sorgerà la nuova piazza del paese - con tanto di fontana o monumento - mentre i calciatori dovranno traslocare nel nuovo campo comunale in costruzione vicino al Palasport. A Erto (Pordenone) - in piena valle del Vajont - lo sport non c’entra invece nulla. Questa volta a far discutere sono decine di volantini che, in una sola notte, hanno tappezzato i muri della cittadina. Recitano frasi come «Ragazzi: non bestemmiamo più. Da oggi glorifichiamo Dio», oppure «Io sono il Signore, colui che ti guarisce». E ancora: «Ragazzi: non bestemmiamo più. La bestemmia ci allontana da Dio e ci avvicina a Satana. Dio piange, Satana si diverte e ride». I cartelli sono stati appesi ovunque: sui muri di palazzi e monumenti, sulle porte delle case, sui balconi dei condomini. Il sindaco e i cittadini però non c’entrano nulla, questa volta. Da queste parti la bestemmia è nel dna. L’obiettivo ecumenico è di un passante, che di fronte all’ennesimo epiteto rivolto a Gesù non ce l’ha fatta più. Prima è entrato in un bar e rivolgendosi ai giovani presenti ha detto: «Se il Vajont è venuto giù è colpa delle vostre bestemmie». Poi, armato di fogli e pennarello, ha tappezzato la città. «L’invito è anche positivo - commenta il sindaco, Luciano Pezzin - ma di sicuro i miei cittadini non smetteranno di bestemmiare per un paio di volantini». E, in effetti, i residenti di Erto hanno pensato più che altro a uno scherzo. «La reazione è stata di ilarità - continua Pezzin. La gente guardava i volantini e sorrideva. È impossibile immaginare che basteranno questi pezzi di carta per eliminare le bestemmie dal linguaggio comune. Qui da noi sono concepite come intercalare. È un’abitudine troppo radicata, soprattutto fra gli anziani». E così l’educatore di passaggio viene definito comunemente «un po’ fuori di testa», mentre i suoi volantini ancora resistono attaccati alle pareti. «Io non mi permetterò mai di toglierli - conclude il primo cittadino -, in se stesso l’invito è più che positivo. Ho però i miei dubbi che basterà a cambiare per sempre le abitudini di questi luoghi».


(di Daniele Uva- tratto da "Il Giornale")

28 settembre 2011

Gesù fa ancora scandalo. E la Bbc cancella avanti e dopo Cristo




La notizia è destinata a fare il giro del mondo e ad alimentare la compagnia di giro dei commentatori occidentali e non solo occidentali: i tutori dell'etica della Bbc hanno proposto di abolire le tradizionali e classiche espressioni «Avanti Cristo» (A. C.) e «Dopo Cristo» (D. C.), sostituendole con la dizione più «neutrale» «Common Era» o «Era Volgare». Un Vescovo anglicano di origini pachistane si è molto agitato e il sindaco di Londra ha definito l'iniziativa «puerile, assurda e senza spina dorsale». Bene, siamo alle solite: la dialettica culturale con le consuete propaggini ideologiche. Le quali, però, non toccano in alcun modo le radici della questione, che sono sostanzialmente due. La prima riguarda lo scandalo di Cristo. «Oportet ut scandala eveniant», recita il Vangelo. È necessario che avvengano scandali e il primo scandalo è proprio la persona di Gesù Cristo. Perché è il Dio crocifisso, dice sant'Agostino, che va a morire sulla croce come un brigante e soffre per salvare tutti, inclusi coloro che oggi vogliono eliminarlo perfino dalla nomenclatura storico-culturale. Skàndalon, in greco, vuol dire pietra d'inciampo. E i notabili «etici» della Bbc, insieme ai benpensanti cristiani - e l'accostamento non sembri equivoco - inciampano sulla stessa pietra: Cristo. Benedetto XVI richiama da tempo l'eclissi di Dio nella civiltà occidentale. Una civiltà priva di fondamento prima di tutto ontologici e solo in secondo luogo etici. Un mondo che non riconosce altro che il narcisismo di ritorno di cui ha scritto magistralmente il filosofo americano Lasch. Una realtà geo-culturale fondata sull'assenza di Cristo. Eppure così retoricamente invischiata con i cascami nominalistici dell'«Avanti Cristo» e del «Dopo Cristo»: è l'essenza di Cristo, dopo il dominio dell'assenza di Cristo. La decisione della Bbc toglie il velo ad un'ipocrisia rendendo, così, oggettiva la querelle decisiva della nostra civiltà: Cristo. Appunto: gli scandali sono necessari. Ma vi è un altro punto da sottolineare: la realtà della Tradizione come nucleo vivente di una storia comune. È ancora ciò la Tradizione cristiana? Oppure la nostra figura di modernità, che una filosofa geniale come Chantal Delsol ha definito «modernità tardiva», non riesce neanche più a sopportare la presenza di Cristo? Il concetto di Tradizione è denso ed avvincente nelle sue declinazioni religiose ed antropologiche. Infatti, esso denota innanzitutto il tràdere, il comunicare di padre in figlio la verità accolta come un dono e, nel contempo, conquistata. Il cristianesimo, in questo modo, si fa cristianità, ovvero cultura e civiltà reale, materiale e matericamente inscritta nel corpo, magari malato, di un popolo, di molti popoli. In questo senso, si può stigmatizzare la scelta culturale (ideologica?) della Bbc e perfino combattere contro una certa militanza anti-cristiana così diffusa nel mondo anglosassone. Ma il Papa, nella sua visita nel Regno Unito, ha usato un altro metodo: è partito dal valore della civiltà anglosassone, in tutta la sua estensione storica e laica, per domandare all'Inghilterra contemporanea: chi sei, oggi? Cosa rimane di tutto ciò? È un interrogativo bruciante che non può essere censurato e che scelte come quelle della Bbc fanno paradossalmente riemergere. (di Raffaele Iannuzzi-tratto da "Il Tempo")

25 settembre 2011

Figlio con una cicatrice? Meglio abortire. Lo Spectator si ribella

Il settimanale inglese The Spectator ha dedicato la sua ultima copertina al dibattito che si è concluso in questi giorni sulla legge che regola l'aborto nel Regno Unito, dove è stato bocciato un emendamento che avrebbe arginato le interruzioni di gravidanza. L'articolo del settimanale, firmato da Mary Wakefield, colpisce perché pone il livello della discussione su un piano totalmente differente da quello che ha spaccato anche il mondo pro life anglosassone durante il corso della discussione in aula. La disputa sulla legge si è aperta nuovamente a inizio settembre, dopo che Nadine Dorries e Frank Field hanno portato in Parlamento un emendamento che cercava di separare i consultori dalle cliniche che effettuano gli aborti. Infatti, è difficile che cliniche abortive offrano consigli e aiuti alla donna in favore della vita, come richiesto dalla legge. Parte del mondo contrario all'aborto, però, temeva che toccando la norma, la situazione degenerasse: «Sappiamo che la politica è l'arte del possibile» ha scritto dopo il voto Josephine Quintavalle, una fra le colonne dell'universo pro life inglese. Perciò «non abbiamo votato l'emendamento, perché mira a togliere i fondi alle cliniche abortive sulla base del fatto che potrebbero influenzare la decisione della donna. Così, si rischia che i consultori pro life siano attaccati con le stesse motivazioni». Quintavalle sostiene che bisognerebbe invece lottare «perché la legge sia rispettata dalle cliniche, in modo che facciano una consulenza seria e che parlino alla donna dei rischi dell'aborto (...) e delle alternative esistenti». Ci si chiede se sia possibile, quando è la stessa Quintavalle a sottolineare che «chi lavora in quelle cliniche non è solo economicamente, ma anche ideologicamente motivato» a far scegliere la strada dell'aborto alle donne. Lo Spectator, invece, salta a piè pari la discussione sulle tattiche o i compromessi da adottare in merito e titola: “Who cares about abortion?”, mettendo nero su bianco l'ecografia di un bambino spezzata in due. Il problema, scrive la giornalista Wakefield, non è il diritto della donna, che può sempre dire «come si è sentito in aula: “Chi è il padrone del mio utero? Non voglio che sia il primo ministro"», che inizialmente aveva sostenuto l'emendamento. Il punto è invece il bambino: «Ha una vita autonoma – scrive la Wakefield – non è parte del tuo utero. Bisogna quindi chiedersi se non abbia gli stessi diritti di quelli che pensano che si possa buttare via: chi è il suo padrone?». Nessuno in questi giorni si è mai interrogato sull'essere del bambino. Anzi, da tempo la discussione, da una parte e dall'altra, è sempre più incentrata sulla madre. Perché ormai nel dibattito è sottinteso un presupposto intoccabile, che sta anche alla base della legge: il diritto della donna viene prima di quello del nascituro. Oggi, scrive la Wakefield, «ci ritroviamo con una gravidanza su cinque che termina con l'aborto, con 189. 574 feti uccisi in un anno – di cui sette con il labbro leporino e otto, che ormai avevano passato la 24 settimana, con piede equino». Così, sottolinea la giornalista, «si è arrivati a un punto estremo», in cui i pro choice non hanno più remore ad argomentare «che l'aborto non è un male a volte necessario, come dicevano prima, bensì una cosa giusta e bella». L'aborto, sottolinea lo Spectator, in questi mesi, «per la prima volta è stato celebrato in Parlamento come un successo. (...) “Come si fa a dire che gli aborti sono troppi?”, si sentiva dire, “chi lo sostiene è un bigotto, un misogino”». Wakefield descrive amareggiata come il diritto di decidere della vita di un altro, ritenuta meno valida, sia degenerato nella sua opzione eugenetica ormai dichiaratamente espressa: «C'è dell'orribile tragicomico in una società in cui solo pochi mettono al mondo figli e in tanti li “buttano via”, anche solo per una piccola membrana piegata male. Perché, anche la si correggesse con un'operazione, al piccolo potrebbe sempre rimanere la cicatrice». (di Benedetta Frigerio- tratto dal settimanale "Tempi")

23 settembre 2011

Ma la Chiesa Cattolica non è fatta per le persone per bene

T. S. Eliot non si sarebbe stupito: “Il mondo gira e il mondo cambia / ma una cosa non cambia” quando si ha a che fare con “l’uomo di eccellenti intenzioni”: i profeti a corrente alterna (quelli che vorrebbero cacciare solo certi mercanti dal tempio) si trovano a disagio con una istituzione come la chiesa cattolica che, per dirla sempre con Eliot, “è gentile dove sarebbero duri, e dura dove essi / vorrebbero essere teneri” e che, fondata da Uno che difendeva le adultere dalle sassate e andava a cena coi mafiosi ed evasori fiscali, non scomunica i peccatori, ma eventualmente gli eretici, non quelli che agiscono male, ma l’orgoglio intellettuale di chi crede di non aver bisogno di perdono, e poter così “distribuire morte e giudizi”, rischio da cui ammoniva il Gandalf di J.R.R. Tolkien. Anche G.K. Chesterton per tutta la vita si sarebbe identificato col personaggio del ladro Flambeau, che solo Padre Brown ha davvero compreso e convinto a cambiar vita, senza peraltro chiedergli mai di consegnarsi alla polizia: “Non ho forse ascoltato i sermoni dei giusti e visto il freddo sguardo delle persone rispettabili? Non sono stato forse catechizzato con quello stile elevato e distaccato, non mi è stato forse chiesto come fosse possibile per qualcuno cadere così in basso? Credete che tutto ciò che mi hanno fatto non mi abbia causato altro che riso? Solo il mio amico qui mi disse esattamente perché rubavo, e da allora non l’ho più fatto.” Gli uomini rispettabili ne avrebbero di libri simili da censurare, perché la grande arte cristiana scotta come una patata bollente nelle mani gelide di chi vorrebbe una chiesa pronta a epurare i figlioli prodighi e benedire la decapitazione dell’immondo di turno. Difficile per loro andare d’accordo con un Dante che racconta un Manfredi dai “peccati orribili” che sorride per sempre al sicuro in Purgatorio; difficile andare d’accordo con Shakespeare, col suo Falstaff dai vizi debordanti e la disordinata allegria ma che muore da cristiano semplicemente gridando “Dio”; difficile andare d’accordo col vescovo dei “Miserabili” di Victor Hugo che, lungi dal consegnare il ladro Valjean ai gendarmi, ne raddoppia la refurtiva, e senza chiedergli di pagarci le tasse; difficile andare d’accordo con Manzoni, che fa ammonire Don Rodrigo da fra’ Cristoforo ma non fa passare neppure per la mente al cardinal Borromeo di comandare all’Innominato di consegnarsi alla “giustizia così facile” degli uomini; difficile andare d’accordo con Joseph Roth e il suo “santo bevitore”: non un ex alcolizzato che diventa santo, ma proprio un santo alcolizzato. Oscar Wilde, che avrebbe amaramente conosciuto quali abissi di violenza e ipocrisia siano in attesa quando si confondono i reati coi peccati, disse che la chiesa cattolica è il luogo dei santi e dei peccatori, mentre le persone perbene si potevano accontentare della chiesa anglicana. Purtroppo per Wilde le persone perbene di ieri e di oggi hanno la brutta tendenza ad accontentarsi della chiesa puritana della “Lettera scarlatta”, che imporrebbe ai reprobi l’isolamento e la marchiatura pubblica delle colpe. Ecco finalmente un libro che descrive una società capace di andare incontro all’accorato appello di Barbara Spinelli: peccato che Hawthorne l’avesse scritto per denunciare un mondo di orrore, delazioni, falsità, e che per la chiesa siano i puritani gli eretici da scomunicare.

(di Edoardo Rialti-tratto da "Il Foglio")

Il discorso di Benedetto XVI al Reichstag



Illustre Signor Presidente Federale!
Signor Presidente del Bundestag!
Signora Cancelliere Federale!
Signora Presidente del
Bundesrat!
Signore e Signori Deputati!



È per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il Signor Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per le gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.


Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino.[1] Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi. In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: “Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…”. In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile. Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. Cr. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano.[3] In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell'uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”. Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico.[4] Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso. Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto. Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica, nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo. Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana. Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi consola il fatto che, evidentemente, a 84 anni si sia ancora in grado di pensare qualcosa di ragionevole.) Aveva detto prima che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza – aggiunge – la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte – dice – presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli nota a proposito.[5] Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus? A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico. Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Vi ringrazio per la vostra attenzione.

29 agosto 2011

La vita salvata dalla GMG


La XXVI Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) è riuscita, tra i suoi tanti frutti, a salvare una vita umana, visto che alcuni pellegrini giunti a Madrid per l'evento sono riusciti a dissuadere una coppia dall'aborto. Il 19 agosto scorso, un gruppo di pellegrini pro-vita irlandesi si è messo a pregare davanti alla chiesa di San Martino di Tours, dove si trova un'importante clinica abortista, ha reso noto a ZENIT il Centro Internazionale per la Difesa della Vita Umana (CIDEVIDA). Una coppia è giunta sul posto con l'intenzione di abortire, e i giovani le sono andati incontro spiegando le ragioni per le quali non avrebbero dovuto farlo. Una volontaria di CIDEVIDA, organizzazione che aveva predisposto una mostra nel chiostro di questa centrale chiesa madrilena, si è aggiunta al gruppo e ha messo la coppia in contatto con la fondazione di sostegno, consulenza e aiuto alla donna incinta Red Madre. La rete si è impegnata a prestare sostegno per la nascita del figlio della coppia, che ha così deciso di non abortire. Per il segretario di CIDEVIDA, Juan José Panizo, “il 'regalo' di questa vita è una gioia per tutti”. “Grazie, Benedetto, per essere venuto”, ha dichiarato, lodando anche l'azione dei volontari dell'entità pro-vita e dei pellegrini irlandesi, che dopo quell'incontro sono tornati a pregare in ginocchio sullo stesso luogo. Un gruppo di persone preoccupate per le conseguenze della nuova legge spagnola sull'aborto ha avviato CIDEVIDA nel 2009 per informare sulla realtà dell'aborto e promuovere alternative per aiutare le donne con problemi in una gravidanza. Tra le altre attività, l'ente gestisce a Tordesillas, nella provincia di Valladolid, un'esposizione permanente sull'aborto, un centro di aiuto alle donne in gravidanza e di assistenza alla sindrome post-aborto e un centro documentale. (tratto dall'Agenzia di Informazioni ZENIT)

27 agosto 2011

Quelli che l'ICI e la Chiesa Cattolica

Quelli che non sanno che la Chiesa paga già l’Ici, per gli immobili dati in affitto e le strutture alberghiere. Quelli che lo sanno benissimo ma fingono di non saperlo. Quelli che vorrebbero far pagare l’Ici a chi ancora non la paga, ossia alle mense Caritas, agli oratori, alle sacrestie, ai monasteri… perché sono soltanto loro che ancora non pagano. Quelli che sul loro giornalone scrivono in 500mila copie che Chiaravalle, alle porte di Milano, è un resort cinque stelle a 300 euro a botta. Quelli che ci credono. Quelli che sanno bene che Chiaravalle è un normale monastero che per una celletta della foresteria e tre pasti frugali al dì chiede un’offerta di 30 euro, ma se uno non li ha, pazienza. Quelli che quando Avvenire smaschera la fandonia si guardano bene dal pubblicare una rettifica, così i loro lettori continuano a credere che Chiaravalle sia un resort, la Chiesa ci lucri e s’indignano. Quelli che sul loro giornalone da 500 mila copie denunciano con veemenza che la Chiesa italiana nasconde il rendiconto dell’8 per mille. Quelli che, e sono gli stessi, da 20 anni pubblicano il rendiconto in una loro pagina acquistata dalla Chiesa, incassano i soldi e, una volta smascherati, si guardano bene dal correggere la fandonia. Quelli che la Chiesa possiede il 30 per cento di tutti gli immobili in tutta Italia. Quelli che Luciano Moggi è il testimonial della Chiesa italiana. Quelli che revochiamo per cinque anni il Concordato. Quelli che sanno bene che 8 per mille, esenzione dall’Ici e dimezzamento dell’Ires non sono privilegi, ma lo scrivono ugualmente. Quelli che sanno bene che all’8 per mille concorrono altre sette confessioni religiose diverse e pure lo Stato, ma evitano di ricordarlo, come se concorresse soltanto la Chiesa cattolica, che riceve quanto i contribuenti italiani le attribuiscono, e se i contribuenti non firmassero più per lei non riceverebbe niente, quindi non ha alcuna garanzia. Quelli che sanno bene che l’esenzione Ici per gli immobili riguarda tutti, assolutamente tutti gli enti senza scopo di lucro, purché utilizzati per alcune attività di rilevanza sociale, non solo quelli religiosi. Quelli che sanno bene che la riduzione del 50 per cento sull’imposta sul reddito delle società (Ires) si applica agli enti religiosi in quanto questi sono equiparati agli enti aventi fine di beneficenza e di istruzione, e la riduzione non vale per le attività commerciali. Quelli che sanno tutto questo ma fanno il pesce in barile e lasciano che il popolo italiano se la beva. Quelli che su Facebook scrivono che il 97 per cento della quota 8 per mille dello Stato torna alla Chiesa cattolica. Quelli che più la spari grossa più sei credibile. Quelli che, non appena il cardinale Bagnasco denuncia la piaga dell’evasione fiscale, attaccano con virulenza la Chiesa cattolica. Quelli che quando scoppia la crisi e la gente mugugna e si agita, cercano un nemico, un mostro, il colpevole del disagio e lo additano alla rabbia popolare. Quelli che creano il 'mostro' verso cui indirizzare la rabbia popolare per poter governare il malcontento, come fanno tutte le dittature. Quelli che tante panzane messe in fila e ripetute ossessivamente diventano una verità. E infine quelli che, e siamo noi, troppe coincidenze non sono una coincidenza.

(di Umberto Folena- tratto da "Avvenire")

26 agosto 2011

Il caso di Giulia e del medico che s'è posto il dubbio sulla vita "efficiente"

Rimini. Il medico diceva che Giulia aveva due possibilità, la migliore delle quali era lo stato vegetativo. La microcefalia e la polimicrogiria diagnosticate durante la gravidanza potevano più facilmente portare alla morte ma certamente – questo diceva la scienza – si trattava di condizioni incompatibili con una vita degna. Per risolvere il problema alla radice il dottore ha programmato un’operazione abortiva resa più rassicurante da quell’aggettivo, “terapeutico”, che sempre occhieggia dove c’è qualcosa d’indeterminato e indecidibile; bisognava intervenire in fretta per curare il male che Mariangela si portava dentro e per estirpare quello si trattava di accettare un mortifero effetto collaterale di cui tutti si sarebbero dimenticati in fretta. Del resto, anche se fosse sopravvissuta, Giulia non avrebbe mai potuto essere felice in quelle drammatiche condizioni. “E’ bastato uno sguardo con Riccardo per decidere di portare avanti la gravidanza – ha raccontato ieri Mariangela davanti al pubblico del Meeting di Rimini – anche se eravamo coscienti che non potevamo controllare quello che sarebbe successo”. Nel ragionamento sulla “certezza”, tema della kermesse di Cl, quella di Mariangela e Riccardo è apparentemente una storia spuria, fatta di incognite e angoli morti piuttosto che di ferree convinzioni che resistono ai marosi dell’esistenza. Ma il dipanarsi psicologico della trama viene interrotto da un’alterità con due occhi azzurri in cui ci si può specchiare. Giulia nasce, vive, cresce. Dopo il primo mese vengono fuori le difficoltà (il medico di certo non mentiva) e la bimba non si sviluppa come dovrebbe, rimane indietro, non si muove. Tornano dal medico che aveva suggerito la terapeutica cancellazione di quell’essere che non meritava di essere: “Vi posso consigliare un buono psicologo” è il migliore dei suggerimenti che è in grado di produrre. Come a dire: io ve l’avevo detto. Giulia però c’è, ed è sull’inoppugnabile dato di realtà – una realtà viva, anche se particolarmente bisognosa d’aiuto – che i genitori edificano quella vitale certezza che ha cambiato tutto. Mariangela e Riccardo lavorano al Parlamento europeo a Bruxelles; non senza difficoltà – hanno raccontato – si sono decisi a chiedere aiuto agli amici. La parrocchia, i colleghi, i genitori dei compagni di scuola delle altre due figlie, gli amici degli amici: il semplice fatto che Giulia esistesse ha mobilitato un popolo che sembrava aspettare l’irrompere della vita per rinascere a sua volta. Ora Giulia ha otto anni: non parla e non cammina, ma capisce due lingue e ha una memoria formidabile per i volti; gattona, si muove, piange, saluta, scia, prende il cibo dal frigo quando ha fame. Solo con un sotterfugio radicale ai danni della ragione si potrebbe affermare che non è vita. “Mariangela e Riccardo non sono degli eroi”, ha detto Fabio Cavallari, che ha raccontato la storia di Giulia nel suo libro “Vivi: storie di donne e uomini più forti della malattia” (Lindau), ma persone che hanno avuto il coraggio “normale” di considerare la nascita come un evento positivo. Poi hanno incontrato Bernard Dan, primario di neuropsichiatria ateo ma senza orgogli militanti, un sincero osservatore della realtà. Al Foglio dice che “ormai siamo abituati a considerare la vita soltanto sulla base dell’efficienza delle performance, ma questo è un grave errore dal punto di vista scientifico: l’umano eccede i limiti di ciò che il soggetto è in grado di fare o non fare”. Eppure il mondo cavalca a rotta di collo la mistica del figlio senza macchia (e dei genitori senza paura). “C’è un grande errore nella nostra società, anche a livello scientifico: quello di considerare l’efficacia come sovrano criterio di giudizio. Ma la realtà è molto più complessa”. E la complessità di questa realtà si chiama Giulia, ha otto anni e due “occhi di cielo” che, dice la mamma, “a molti parlano di Dio”. (di Mattia Ferraresi- tratto da "Il Foglio")

24 agosto 2011

Il Meeting che fu Giovedì



Chesterton? Sempre volentieri. Ho appena finito di fare una cosa che a lui sarebbe piaciuta molto”.

Cosa?
“La salsa di pomodoro”.

E perché gli sarebbe piaciuta?
“Primo, perché era un buongustaio. Secondo, perché l’ho fatta in famiglia con nonni e figli, tre generazioni al lavoro insieme. Terzo, perché tramando, rivivendola, una tradizione. Sa come Chesterton chiamava la tradizione?”.

No.
“La democrazia dei morti”.


Questo lo stralunato inizio della conversazione con Ubaldo Casotto sullo scrittore inglese protagonista di due eventi al Meeting di Rimini di quest’anno: la rappresentazione della “Ballata del Cavallo Bianco” e un incontro con Edoardo Rialti, Alison Milbank e, appunto, l’ex vicedirettore del Foglio, fresco autore di un saggio sullo scrittore inglese (G. K. Chesterton, “L’enigma e la chiave”, Lindau).

Scusi, perché democrazia dei morti?
“Chesterton non riusciva a capire perché dovessimo accettare solo il parere del nostro vicino, anche se insensato, e non quello, spesso più saggio non foss’altro perché ha superato la prova del tempo, del nostro bisnonno. Chesterton applicava anche alla democrazia, al dibattito delle idee come alle discussioni quotidiane, la sua categoria filosofica fondamentale: la larghezza. Una democrazia che dà la parola anche a chi non può parlare più è una democrazia più larga, quindi più democratica; per dirla con un termine molto politicamente corretto, più inclusiva”.

Non è un po’ semplice?
“Tutt’altro, la larghezza è la condizione e il risultato della profondità e dell’acume. Quanto più profonda è la buca che scavi a tuo figlio in spiaggia, tanto più larga sarà la sua apertura, quanto più alto è il grattacielo che vuoi costruire, tanto più larga sarà la sua base. E poi, a dar ragione a Chesterton c’è Benedetto XVI”.

La cosa non sorprende, un Papa cattolico che loda uno scrittore cattolico.
“La sintonia va oltre la pura appartenenza, ci sono una diagnosi della malattia della modernità e una indicazione della terapia praticamente identiche. Chesterton dice di aver aderito al cristianesimo, dopo essere passato attraverso la tentazione del pessimismo più radicale e del nichilismo, perché era ‘una filosofia più larga delle altre’; Ratzinger invita e nel contempo sfida l’uomo moderno ad ‘allargare la ragione’. Per Chesterton il cristianesimo dilata la mente, perché l’accettazione del mistero illumina molte realtà di cui altrimenti non ci si saprebbe dare ragione, a partire da se stessi, e potenzia la libertà perché permette di abbracciare uomini e cose, anche realtà altrimenti ripugnanti, è il paradosso della carità”.

Questa la terapia, la diagnosi?
“La diagnosi denuncia la contraddizione insita nella presunzione del pensiero moderno, o almeno nella sua vulgata. Partito con l’ambizione di essere un ‘uomo di larghe vedute’, inalberando il vessillo della libertà di pensiero, l’intellettuale-tipo contemporaneo di Chesterton, e i suoi nipoti odierni, s’è ritrovato stretto nelle sue idee, ingabbiato nelle sue fissazioni, e quindi non libero perché schiavo dei suoi preconcetti. Che sono poi, in ultima istanza, riconducibili a due: l’irreligiosità e il rifiuto del mistero, l’irrealismo e il rifiuto del concetto di limite. Per Chesterton l’uomo razionale è inevitabilmente mistico e l’uomo realista adora il limite. L’alternativa è un’autoreferenzialità che porta alla pazzia”.

Forse esagera.
“Sì, ma c’è del metodo: umorismo e paradosso. Chesterton era persona molto seria, e quindi amava ridere e sorprendere, e non c’è niente di più serio e sorprendente del paradosso. Il paradosso è per lui strumento argomentativo assolutamente razionale, come l’immaginazione, per due motivi: perché è come uno schiaffo che sveglia l’intelligenza assopita nella doxa, nei luoghi comuni, e perché, in fondo, dice la verità”.

E questo cosa c’entra con la pazzia?
“Le ho detto che Chesterton era persona molto seria, perciò non sopportava coloro che si prendono molto sul serio, coloro che credono in se stessi. ‘Quell’uomo crede in se stesso’, non c’è frase oggi più ripetuta e più insensata. ‘Sapete dove vivono tutti coloro che credono in se stessi? – dice in ‘Ortodossia’ – In manicomio’. E si spiega: ‘Il pazzo non è chi ha perduto la ragione, ma chi ha perduto tutto fuor che la ragione’. Ridotta la ragione a pura capacità logica asservita a un’idea scelta come principio universale – sia questa la razza, la classe, la genetica o la convinzione di essere Napoleone – il pazzo in modo monomaniacale ricostruisce il mondo con logica ferrea così che tutto rientri nello schema, con le buone o con le cattive, l’imprevisto e l’irriducibile vengono eliminati, anche violentemente. Resta un problema, la realtà è ostinata, il pazzo cerca di farla entrare tutta nella sua testa ma alla fine ‘la testa scoppia’. Chesterton scriveva queste cose nei primi anni del Novecento, ma vi si può leggere tutto il successivo dramma del secolo breve, la parabola ideologica e storica dei totalitarismi, la loro presunzione razionalista e la dimostrazione della loro inconsistenza ultima di fronte alla natura dell’uomo e delle cose. Dica lei se non vi vede anche la trama di tutto il tentativo di riduzione genetica della persona umana operato dalla tecno-scienza e la segnalazione dell’unico punto culturale di resistenza: la realtà, anche la realtà-uomo, osservata razionalmente. La guarigione dalla pazzia per Chesterton, infatti, non è un ragionamento, ma uno sguardo. A discutere coi pazzi non se ne esce, bisogna aprire loro gli occhi. ‘Una pallottola è perfettamente tonda come il mondo, ma non è il mondo’. Bisogna, appunto, allargare la ragione fino al riconoscimento, ‘mistico’ dice Chesterton, dell’irriducibilità del mondo e dell’uomo alle nostre pur raffinate categorie, fino al ragionevole riconoscimento dell’esistenza del mistero: ‘L’uomo comune ha conservato la sua salute mentale perché è sempre stato mistico’”.

Ma il misticismo non è un’esperienza di superamento del finito, di innalzamento oltre la realtà materiale? Come può Chesterton esaltarlo e insieme predicare l’accettazione del limite?
“Chesterton, fra le altre cose, combatte contro l’imbastardimento del linguaggio. L’esperienza del mistero non è un viaggio nell’oltre simile al sogno: per Chesterton tra il saggio buddista e il santo cristiano la grande differenza iconografica è negli occhi: il primo li ha chiusi, il secondo li tiene ben aperti sul mondo, il primo sogna l’annientamento nel nulla, il secondo vede anche ‘il nulla da cui ogni cosa è sorta’. Quando parla di misticismo Chesterton è tremendamente materialista e intensamente poetico: il limite è il trait d’union tra infinito e finito, la possibilità di tendere al primo vivendo nel secondo. La sua espressione migliore è l’arte: la natura stessa del quadro, dice il critico Chesterton, è data dalla cornice che lo circonda; il suo vertice è la poesia: il poeta ama i limiti del suo verso, sono quelli che gli permettono di essere poeta.Senza limite non c’è arte né esperienza umana, l’amore o è singolare o non è, l’amore universale è una scusa per tradire la moglie o per non aiutare il proprio vicino, san Francesco non amò ‘l’umanità’ ma baciò il lebbroso che incontrò per strada. L’abolizione del limite uccide l’umano, come ben si vede nei tentativi biogenetici che all’utopia della costruzione dell’uomo senza malattie sacrificano vite che non riescono ad amare perché non si fermano a considerarle nella loro singolarità, nella loro irripetibilità misteriosa. Chesterton previde tutto questo, di cui vedeva l’iniziale aspirazione, e ha al riguardo una frase memorabile: ‘Quel ragazzo sarebbe potuto essere un grande’ è la frase che si usa per indicare una mancata promessa; invece, il primo che passa per strada è un grande perché ‘sarebbe potuto non essere’. Il tratto più eversivo rispetto allo scetticismo dominante il suo e il nostro tempo di questo omone inglese è il suo stupore per il mondo, per le cose, l’affermazione assoluta e originaria del primato dell’essere, il capovolgimento dell’assioma del relativismo dominante per cui non esiste una realtà ma solo le sue interpretazioni”.

Molto tomista come convinzione, non proprio una novità.
“Lei dovrebbe leggere il saggio di Chesterton su Tommaso d’Aquino, centocinquanta pagine che Etienne Gilson, il grande medievista francese del secolo scorso, gli invidiava, avrebbe voluto scriverle lui. Chesterton le dettava alla segreteria tra un articolo e l’altro: ‘Ci occupiamo un po’ del nostro Tommy?’. Ma era tomista ben prima di conoscere il d’Aquino. Mi lasci citare un passo dalla sua “Autobiorafia”.

Prego.
“Difesi, contro critici teatrali, il merito teatrale di un dramma più recente, che contiene molte cose buone, il dramma intitolato: ‘Dove non c’è nulla c’è Dio’. Ma io andavo barcollando e gemevo e mi travagliavo con una mia filosofia incipiente e incompiuta, che era quasi il contrario dell’affermazione che dove non c’è nulla c’è Dio. A me la verità si presentava piuttosto in quell’altra forma: dove c’è qualcosa c’è Dio. In filosofia nessuna delle due affermazioni è adeguata, ma sarei rimasto sbigottito se avessi saputo quanto il mio anything (qualcosa) fosse vicino all’Ens di San Tommaso d’Aquino”.

Appunto, una riedizione semplificata di una filosofia medievale.
“Chesterton andrebbe orgoglioso di questa definizione, lui a sé aveva riservato il posto dei mostri che popolano le facciate delle cattedrali gotiche: grottesco, ma certo della bontà della costruzione che lo ospita. Quanto al concetto di ‘riedizione’ – a parte ricordarle il motto giornalistico per cui niente è così inedito come ciò che è già stato scritto – è quello che meglio definisce, per ammissione dello stesso Chesterton, il suo percorso intellettuale. ‘Ortodossia’, il suo capolavoro, scritto ben prima della conversione, è un lungo viaggio della ragione alla ricerca del suo fondamento, ‘che alla fine trovai’ dice Chesterton, ‘solo che mi accorsi che non era mio’, ‘stavo seduto su due millenni di ortodossia’. In questo viaggio sta l’originalità di Chesterton, in questo reimpossessarsi delle ragioni di una fede, di una cultura e di una civiltà, che, dice Benedetto XVI, è il compito di ogni generazione nei confronti del cristianesimo per riscoprirlo come novità e come vita. Al riguardo, ne ‘L’uomo eterno’ c’è una frase che ogni chierico dovrebbe mandare a memoria: il cristianesimo ‘non è una filosofia perché, essendo una visione, non è un modello, ma un quadro; non è di quelle semplificazioni che risolvono ogni cosa in un’astratta spiegazione: che tutto è ricorrente, che tutto è relativo, che tutto è illusorio. Non è un meccanismo ma un racconto; ha le proporzioni che si riscontrano in un quadro o in un racconto; non ha le ripetizioni regolari di un modello o di un meccanismo; ma le rimpiazza con l’essere convincente come un quadro o come un racconto. In altre parole è esattamente, ecco la frase, come la vita. Perché infatti è vita’”.

Come si spiega il revival editoriale di Chesterton a ottant’anni dalla morte?
“Lo stanno ripubblicando tutto, ritraducendolo, fanno convegni internazionali… io negli anni Settanta lo cercavo nelle bancarelle di via Po a Torino e nelle biblioteche dei seminari, non lo si ristampava da trent’anni, un po’ ci si vergognava, forse, di questo convertito inglese troppo poco problematico. Ma chi dice così non ha letto le pagine di Borges e di Lewis su di lui, dove lo si paragona a Kafka e a Poe, né ha letto ‘L’uomo che fu Giovedì’, romanzo in bilico tra il sogno, l’incubo, l’immaginario, il tenebroso. Comunque, c’è una frase dello stesso Chesterton che spiega le sue fortune odierne: ‘Sono grato al cristianesimo perché mi ha permesso di non essere solo un figlio del mio tempo’. La vera schiavitù per un uomo è di essere solo un prodotto del momento storico in cui vive, e un uomo fatto e finito dalle circostanze che lo determinano non può essere interessante per nessuno. Chesterton ci piace, e piacerà in futuro, perché, come dice il teologo Stefano Alberto nella prefazione del mio volumetto, ‘è un uomo vivo che ci aiuta a restare vivi’. Nella bonaccia mortifera che ci circonda Chesterton è come un vento che purifica l’aria”.

A cosa si riferisce?
“A due vicende nelle quali, paradossalmente ma non tanto, il laicismo occidentale e il fondamentalismo islamico si incontrano: l’eutanasia e il cosiddetto martirio. Senta un po’ (e si ricordi che Chesterton sapeva distinguere il peccato dal peccatore, colpiva le idee ma era amico, spesso, dell’ideatore): ‘Nacque la discussione se l’uccidersi fosse una bella cosa… Per me il suicidio (e l’eutanasia come frutto di autodeterminazione ne è la forma più raffinata) non è soltanto un peccato, è il peccato; è il male supremo e assoluto, il rifiuto di prendere interesse all’esistenza, di prestare il giuramento di fedeltà alla vita. L’uomo che uccide un uomo, uccide un uomo; l’uomo che uccide se stesso, uccide tutti gli uomini: per quanto lo riguarda distrugge il mondo… il ladro i diamanti lo appagano; il suicida no… il ladro rende omaggio alle cose che ruba se non al loro proprietario; il suicida insulta tutte le cose per il fatto stesso di non rubarle. Rifiutando di vivere per amore di un fiore, oltraggia tutti i fiori. Non c’è al mondo la più piccola creatura cui egli non irrida con la sua morte’. E ancora: ‘Ho letto una solenne bestialità di qualche libero pensatore: il quale dice che il suicida è qualche cosa come un martire… Un suicida è evidentemente l’opposto di un martire. Il martire è un uomo che si appassiona a qualche cosa che è fuori di lui fino a dimenticare la sua esistenza personale, il suicida è un uomo che tanto poco si cura di tutto quello che c’è fuori di lui che ha bisogno di vedere la fine di ogni cosa. L’uno ha bisogno che qualche cosa cominci; l’altro che tutto finisca. Il martire confessa un estremo vincolo con la vita… muore perché qualche cosa viva. Il suicida… è puro distruttore: spiritualmente distrugge l’universo’. Lei non sente qui l’eco delle terribili parole di Osama bin Laden dopo l’attacco alle Torri gemelle: ‘Perché sappiano che noi amiamo la morte più di quanto loro amano la vita’? Io sì”. (di Mattia Ferraresi- tratto da "Il Foglio" del 23/08/2011)