31 agosto 2010

La memora di Famiglia Cristiana funziona a corrente alternata


Tra le accuse più stravaganti che sono state rivolte a Silvio Berlusconi nel corso dell'arrembaggio mediatico agostano c'è quella, sostenuta dal settimanale Famiglia Cristiana, di aver «diviso i cattolici».
Se presa in senso letterale, l'affermazione è semplicemente ovvia. Entrato in politica dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell'Urss, Berlusconi ha proposto un sistema politico basato sul bipolarismo politico, che comportava la fine delle esclusioni per ex comunisti ed ex fascisti e la suddivisione dei consensi in base a programmi politici alternativi non basati su appartenenze ideologiche o religiose. L'unità politica dei cattolici nella Democrazia cristiana, peraltro era già stata superata da quando ne era venuta meno la ragione di fondo, la difesa della libertà religiosa messa in pericolo dall'espansione di regimi simili a quelli istituzionalmente atei dell'Europa orientale. Quel pericolo in realtà era già finito con la morte di Giuseppe Stalin, ma la Dc mantenne il suo primato per la capacità politica, non religiosa, di raccogliere il consenso interclassista a una prospettiva moderata, come accadeva al partito cristiano in Germania.

In realtà quello che non va a a Famiglia Cristiana è la scomparsa dal centro della vita politica di esponenti direttamente emanati dalle organizzazioni cattoliche, che già aveva portato la rivista a sostenere che nel governo di centrodestra i cattolici non erano rappresentati. In sostanza quello che la rivista paolina non ha mai digerito è stata la scelta operata dalla Cei di Camillo Ruini, dopo lo scioglimento della Dc, di non puntare a una rappresentanza cattolica minoritaria, ma di esercitare un'influenza particolarmente penetrante su ambedue gli schieramenti sui temi politici considerati eticamente sensibili, che sono tutt'altra cosa di una generica impostazione moralistica.

Naturalmente Famiglia Cristiana ha tutto il diritto di auspicare una diversa collocazione dei cattolici italiani in politica, ma non può trascurare l'effetto oggettivo del bipolarismo e le differenze reali che su tante questioni differenziano, com'è peraltro naturale, i cattolici come tutti gli altri cittadini italiani. Sui punti indicati dalla gerarchia come irrinunciabili, invece, che piaccia o no a don Sciortino, chi ha diviso i cattolici proclamando il diritto a differenziarsi dei cattolici «adulti» sono stati Romano Prodi e Rosi Bindi. A loro non è stato imputato di dividere i cattolici, nonostante l'evidenza dei fatti, perché appunto l'unità dei cattolici in politica, e soprattutto sulle questioni eticamente sensibili, è una costruzione e non un'imposizione.

(di Sergio Soave- tratto da "Italia Oggi")

Chi sbaglia paga. In camice o in toga

A margine del drammatico episodio avvenuto in sala parto a Messina, con due medici “impegnati” in una lite mentre una paziente era intenta a dare alla luce un figlio,
il Presidente della Commissione Parlamentare di Inchiesta sugli Errori sanitari, Leoluca Orlando, ha detto che “chi sbaglia deve pagare” esprimendo solidarietà alla madre del neonato per quello che ha definito un atto di vera e propria inciviltà.
Come non essere d'accordo, una volta tanto, con l'esponente dell'Italia dei Valori, ricordando però allo stesso Orlando che il medesimo principio vale (dovrebbe valere) anche per i Magistrati.
“Chi sbaglia paga” è infatti affermazione tanto perentoria quanto inequivocabile che, facendo il paio con “la legge è uguale per tutti” riassume uno dei capisaldi del principio di legalità.
E sarebbe bizzarro se il principio valesse per i medici e non per coloro che proprio della legge sono i tutori, i garanti, vale a dire i magistrati. Tanto più che, e non è mai superfluo rammentarlo, la legge, a differenza della sanità, “è amministrata nel nome del Popolo”.
(tratto dal sito "Giustizia Giusta")

29 agosto 2010

Elogio di Chesterton, il catto-comicista

In questi giorni è uscito nelle librerie uno capolavori di G.K. Chesterton, "La Sfera e la Croce". In questi ultimi mesi molte opere del grande autore inglese sono state ristampate da diversi editori, pensiamo alla Morganti che, oltre alla "Sfera e la Croce", ha proposto "Uomo Vivo" o alla Lindau che ha fatto uscire un mese fa "Eretici" e "Ortodossia". Un tesoro che non può mancare nelle vostre librerie. Vi proponiamo un articolo di Marcello Veneziani pubblicato oggi su "Il Giornale".
"...Cari ciellini che siete in gioioso conclave a Rimini, avete applaudito il vostro leader Giancarlo Cesana quando ha attaccato Umberto Eco, citando una sua frase tratta dal Nome della rosa quando dice di temere i profeti disposti a morire per la verità e a far morire gli altri. Secondo Eco, bisogna «far ridere della verità, fare ridere la verità». Al contrario voi credete nella verità, la prendete sul serio e amate i profeti disposti a morire per essa. Ma io vi invito a distinguere nella frase di Eco perché come, spesso accade, il bene e il male sono mescolati, forse subdolamente shakerati.Io amo il profeta disposto a sacrificarsi per la verità, ma temo il profeta disposto a sacrificare gli altri nel nome della sua verità. Ammiro chi si gioca la propria vita per testimoniare la verità, detesto chi gioca la vita degli altri per testimoniare la sua verità. E così detesto i nichilisti che deridono la verità e si prendono gioco di essa, ma amo coloro che vogliono far ridere la verità e renderla perfino giocosa. Uno scrittore cattolico diceva che la fede del futuro poggerà su una forma più sottile di umorismo. E lo stesso scrittore veniva citato da Papa Ratzinger per una sua frase di celeste lievità: «Gli angeli possono volare perché sanno prendersi con leggerezza». Sto parlando di Gilbert Keith Chesterton, cattolico e tradizionalista, che sposò la fede all’umorismo, la teologia alla comicità. Prendete lezione da lui che criticò il moralismo del suo tempo senza con questo difendere l’affarismo; e seppe distinguere tra la religione e il clericalismo. (....)Il bello di Chesterton è la sua leggerezza, la sua fede che passa dal paradosso, la sua confessione di felicità ridente sulla soglia della Chiesa. Pensate che quando morì, Pio XI lo definì defensor fidei, titolo a cui potevano un tempo aspirare solo i sovrani.(...)
A vederlo in maturità Chesterton sembra il nonno di Giuliano Ferrara, ma il suo peso ha la leggerezza della fede, non è un ateo devoto, ma un giullare di Dio, un catto-comicista. A volte è un po’ stucchevole nella pretesa di far ridere a ogni costo e di suscitare sconcerto e sorpresa, gioca troppo con il sentimento del contrario, che secondo Pirandello è la fonte dell’umorismo. Ma Chesterton ha capito una grandissima cosa: se vuoi parlare oggi di Dio, di religione, di fede e perfino di morale, devi saper passeggiare contromano, andare a rovescio tra i paradossi, rendere la bontà accattivante, ridere di ciò che è serio, capire che nell’epoca dell’ateismo e della scienza onnipotente il comico è l’unico modo per presentare non dico la verità, che non è di questo mondo, ma la passione di verità che è poi ciò che ci rende davvero umani. L’umorismo è quel che manca a certi cristianucci lugubri e moralisti, ma anche a certi cupi giacobini della fede (....)
Al nichilismo, Chesterton oppone la realtà, il buon senso della vita. Se credessimo veramente al nichilismo «gli assassini riceverebbero medaglie perché salvano gli uomini dalla vita; i vigili del fuoco verrebbero denunciati perché li sottraggono alla morte; useremmo i veleni come medicine e chiameremmo il dottore quando siamo in buona salute». Nel nome di Dio, Chesterton lega poi democrazia e tradizione, ritenendo che siano inseparabili: la tradizione è un plebiscito nei secoli, è «la democrazia prolungata nel tempo»; e la democrazia, a sua volta, regge sul sentire comune di un popolo. Si deve a Chesterton la più penetrante analisi della pazzia. Per lui il pazzo non è colui che ha perso la ragione, ma chi ha perso tutto tranne la ragione. La follia è la perdita del rapporto col mondo, non la perdita della mente che anzi ragiona con meticoloso determinismo, inseguendo perfette geometrie, ma a prescindere dalla realtà, dalla vita, dagli uomini. «I maniaci di solito sono grandi logici». Un grano di follia fa lievitare la fede, e fa combaciare l’amor di Dio con l’amore per la vita. Il paradosso in fondo è proprio quel grano di follia che fa lievitare la realtà, come il comico insegna l’esistenza di nessi impensati tra gli uomini e le cose. Anche pensando a lui a volte preferiamo il cazzeggio all’analisi, l’ironia alla seriosa esegesi, convinti che nell’epoca delle verità impazzite solo attraverso il paradosso, il comico, la caricatura, sia possibile avvicinarsi alla verità. Il riso abbonda sulla bocca dei sapienti

28 agosto 2010

I fatti oltre i pregiudizi


Bellissimo editoriale di Aldo Cazzullo, giornalista del "Corriere della Sera" pubblicato sul "Sussidiario.net".
La prima cosa che colpisce del Meeting sono i giovani. Questo perché chiunque lavori nell’industria culturale è alla disperata ricerca di giovani, e non li trova. Alla presentazione dei libri l’età media è di ottantasei anni; il che non è un male, anzi, preghiamo il Signore che ci conservi a lungo i nostri vecchietti lettori; ma di giovani se ne vedono sempre pochi.
I sondaggisti non riescono a capire per chi votino. Gli esperti di marketing si interrogano invano su cosa desiderino. Gli stessi sacerdoti e vescovi a volte faticano a parlare con loro. Invece al Meeting i giovani ci sono. A decine di migliaia. Gli adolescenti, i ventenni, i trentenni. La generazione X e la generazione Y.

Ci sono, e dimostrano che non è vero che i giovani sono disinteressati alla vita pubblica. Sono disinteressati al cicaleccio, alle contrapposizioni personali, alla lingua di legno dei convegni, dove si ripetono formule sulla formazione, la ricerca, l’innovazione per poi andare spensierati incontro a una realtà dove si studia, si ricerca, si innova poco.
Sono invece interessati, e molto, ai luoghi dove si discute su cose serie, ci si confronta, ci si dice francamente quel che si pensa. Sono anche disposti ad ascoltare cose difficili. “Tutti mi dicono che parlo difficile - ha sorriso il patriarca di Venezia Angelo Scola. Forse dipende dal fatto che tanti amano ascoltare solo quel che già sanno”. Ad ascoltare Scola c’erano diecimila persone, più altrettante davanti ai maxischermi.

Il Meeting di quest’anno si è concentrato molto sull’economia, com’era inevitabile nell’anno in cui si intravede la ripresa ma ancora non si è capito come uscire definitivamente dalla crisi e come evitare che si ripeta.
Sono venuti tutti i ministri importanti. Molto meno rappresentata la sinistra: l’unico leader di peso in programma, Enrico Letta, non è potuto venire. Cl rifiuta di essere inquadrata nelle categorie politiche, e fa bene. La mia impressione però è che, rispetto all’anno scorso, la discussione sia stata più unidirezionale.
Interessanti le parole-chiave ascoltate: non si parla solo di diritti ma anche di doveri; passare dal Welfare State alla Welfare Society; costruire un nuovo patto sociale, basato sulla sussidiarietà e sull’interazione tra pubblico e privato. Sarà altrettanto interessante vedere se il governo avrà la volontà e la forza di far seguire i fatti. Nel frattempo portiamoci dentro il ricordo incoraggiante di queste giornate.

Personalmente sono rimasto colpito, come lo scorso anno, dal numero e dalla qualità dei volontari. Non credo esista in Europa un’altra organizzazione che possa disporre di giovani qualificati - ingegneri e architetti che montano e smontano la fiera, laureati in lingue che traducono, ecc. - pronti a prendere le ferie e lavorare gratis per un successo collettivo, che diventa anche fonte di soddisfazione personale.
Nel nostro tempo segnato dall’individualismo, questo ci ricorda che la soddisfazione dei nostri legittimi desideri individuali passa attraverso i desideri altrui. Ognuno di noi è importantissimo; ma senza gli altri non riuscirà a combinare nulla.

(Aldo Cazzullo)

27 agosto 2010

La chiesa del giornalista collettivo odia tutti (tranne se stessa e Obama)


Rimini. C’è una potente chiesa dogmatica, con comandamenti e profeti, che fa a pezzi gli avversari. E’ la stampa della sinistra liberal, la dittatura di chi “la mattina si guarda allo specchio e vede un eroe della libertà di informazione, un’autorità del libero pensiero”, e invece è “il membro di una casta”. Non lo dice un berlusconiano arrabbiato con Rep. ma William McGurn, vicepresidente del gruppo editoriale News Corp., speechwriter di Rupert Murdoch, giornalista del Wall Street Journal e già speechwriter di George W. Bush alla Casa Bianca, in un incontro sull’informazione al Meeting di Rimini.

Il problema, dice al Foglio, è “la stampa che si piega ai dogmi della sinistra secolarizzata, che nasconde le notizie, che spara sulla religione (e in particolare sul cristianesimo) come pratica antimoderna e osanna il diritto all’aborto come ortodossia, mentre in America cresce l’attaccamento alla fede e ai movimenti pro life”. Il risultato è che i media tradizionali perdono pubblico a favore dei nuovi media che superano la censura di sinistra, e che i giornalisti scrivono soltanto per gli altri giornalisti, nel circolo vizioso della “cultura dei premi” in cui “il numero dei trofei alle pareti corrisponde al crollo dei lettori”.
Mentre la stampa americana compila agiografie obamiane, ad esempio, i pro life sono arrabbiatissimi e si sfogano sui blog. Perché la colpa di Obama, spiega Mc- Gurn, è stata “polarizzare l’opinione pubblica, esattamente il contrario di quanto promesso”. E anche in bioetica Obama fa promesse che non mantiene: aveva giurato che nella riforma sanitaria non un dollaro statale sarebbe stato destinato all’aborto, invece nei singoli stati, di fatto, avviene il contrario. “Siamo solo all’inizio – dice – se non si esplicita il divieto in una legge, i finanziamenti arriveranno”.
Per la prima volta lunedì un magistrato ha smorzato la rivoluzione scientifica del nuovo presidente con una sentenza che blocca i finanziamenti federali per la ricerca sulle staminali embrionali: “E’ toccato al giudice fare chiarezza, visto che la stampa continua a raccontare che le embrionali funzionano. Con Bush tutto era chiaro fin dall’inizio: non creeremo vita per distruggerla, non si creano embrioni per la ricerca”. Altro nodo del politically correct obamiano è la moschea progettata a due passi da Ground Zero: “Credo che l’imam abbia il diritto di costruire lì la sua moschea, ma essere un buon cittadino non significa soltanto seguire i propri diritti, quanto capire la sensibilità altrui. Come Giovanni Paolo II che ad Auschwitz si spostò a pregare giusto qualche metro più in là. E’ la stessa cosa che da buon vicino chiederei all’imam”. Eppure ancora non si smorza la cotta della stampa per Obama, mentre all’epoca Bush era battaglia permanente. “Noi abbiamo fatto una guerra, e il consenso dei media è cresciuto soltanto quando abbiamo iniziato a vincerla. Sull’Afghanistan il problema di Obama è che ha creato una retorica pacifista per affascinare la sinistra, ma poi nei fatti non è diverso da Bush. Per quanto sappia che gli americani si stancano dei conflitti lunghi, di certo non vuole perdere la guerra. Non cercare di vincerla sarebbe immorale. Ma è molto pericoloso quando la retorica e le azioni di un presidente non convergono.

(tratto da "Il Foglio" del 26/08/2010)

26 agosto 2010

Quella rivista non rappresenta i cattolici


È lecito che Famiglia Cristiana formuli certi giudizi, anche se questo appare del tutto tendenzioso. Quello che non è corretto è attribuirli al mondo cattolico...». Monsignor Rino Fisichella sta trascorrendo qualche giorno di vacanza in montagna prima dell’autunno «caldo» durante il quale dovrà mettere in piedi, dal nulla, il Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, neonato dicastero che Benedetto XVI ha voluto affidargli.
L’arcivescovo, dopo 15 anni, lascerà anche l’incarico di cappellano di Montecitorio, attività che lo ha trasformato nella guida spirituale di molti parlamentari di entrambi gli schieramenti, e in quest’intervista con il Giornale interviene su alcuni dei temi dell’estate politica, dal ruolo e dal disagio dei cattolici al federalismo.

Monsignore, Famiglia Cristiana in queste ore ha accusato Berlusconi di aver spaccato il mondo cattolico. Che cosa ne pensa?
«Penso che un giornale possa formulare giudizi, anche se questo su Berlusconi appare del tutto tendenzioso, dato che in altri momenti storici - ad esempio quando Moro e Fanfani fecero il centrosinistra - ci fu una divisione dei cattolici. Non mi sembra che il problema sia Berlusconi, il problema sono i programmi. In ogni caso non è corretto né giusto far credere che questo giudizio sia stato formulato dal mondo cattolico. I cattolici sono una galassia e si sbaglia pensando di interpretarne il pensiero basandosi su un’editoriale di Famiglia Cristiana o anche su un’analisi formulata da una sottocommissione preparatoria della Settimana Sociale. I vescovi stessi sono chiamati ad esprimersi sull’istanza etica di un programma elettorale, un po’ meno sui singoli interventi che non sono di nostra competenza. Ad esempio non si è detto nulla sul pacchetto sicurezza in quanto tale ma si è parlato, molto, soltanto del decreto riguardante le espulsioni. Poi però magari si tace sul fatto che l’immigrato viene trattato come merce di scambio».

Le ultime settimane sono state un’escalation di divisioni, faide, insulti... «Stiamo ancora attraversando una fase di cambiamento che dura ormai da troppo tempo e che finisce per logorare il Paese. L’impossibilità di fare delle reali riforme finisce per allontanare i cittadini dalla politica e dalle istituzioni. Manca una visione d’insieme. Quando alle uscite polemiche e alla gara a chi la spara più grossa: non credo che questo abbia realmente a che fare con la politica, la quale invece si basa sulle scelte a favore del bene comune e della vita e non sulle battaglie verbali o sulla pura gestione del potere».

Più d’uno, in questi giorni, ha parlato dei «disagio dei cattolici». In che cosa consiste?«Beh, abbiamo vissuto nel passato anche recente stagioni così diverse e così drammatiche da non doverci spaventare per il momento di oggettiva confusione e debolezza che attraversa l’Italia. Più che parlare di disagio, credo sia necessario rafforzare la convinzione nei cattolici ad assumersi responsabilità politiche che non possono essere demandate ad altri».

Non crede che i cattolici siano in questo momento un po’ emarginati dalla scena politica?«Non credo siano emarginati, non credo siano ininfluenti. Al contrario, ritengo l’impegno dei cattolici determinante per il progresso del Paese. Bisogna essere miopi per non accorgersi che ci sono tanti uomini e donne che magari non si vedono spesso in Tv, ma che s’impegnano per il bene comune e sono coerenti con la loro fede».

Il direttore Feltri si è detto sicuro che arriverà il «soccorso cattolico» di Casini al governo. Condivide?«Non intendo entrare nel merito delle strategie politiche. Posso però dire che evidentemente, là dove c’è l’esigenza di dare delle risposte significative al Paese in un momento di crisi, la presenza dei cattolici non è mai venuta meno. Non è discriminando le posizioni dei cattolici né tantomeno ricorrendo all’insulto che si può pensare di fare il bene dell’Italia».

Nei giorni scorsi il cardinale Bagnasco ha spiegato che il federalismo non dovrà disgregare. Il suo giudizio?«Mi sembra che la riforma sia al vaglio del Parlamento, ci sarà un confronto e un dibattito. Bisogna mantenere fermo il principio dell’unità, dell’identità che si è rafforzata in questi ultimi 150 anni e che non può essere umiliata. Bisogna fare in modo che il federalismo favorisca lo sviluppo di quelle zone del Paese più carenti di strutture. Anche qui, non voglio e non posso entrare in questioni tecniche. Mi limito però a ricordare che i cattolici non sono affatto nuovi a queste sensibilità, a meno di dimenticare figure come Rosmini, Gioberti e lo stesso Tocqueville, il quale, parlando della democrazia americana, elogiava il contributo dato dai cattolici all’unità del Paese nella diversificazione degli Stati. La sussidiarietà, la valorizzazione della società e delle sue istanze, fanno parte della dottrina sociale della Chiesa».

Dopo l’uscita di Fini dal Pdl in molti ormai parlano di elezioni. Come vede il ricorso alle urne in questo momento?«Domanda legittima, ma la risposta deve essere data nelle sedi competenti e soprattutto da chi riveste il ruolo istituzionale per poterla dare. Io mi limito ad auspicare, da cittadino, che si recuperi il senso di responsabilità e che si cerchi finalmente di dare quelle risposte che il Paese attende».

Se l’arcivescovo dovesse indicare due di priorità?
«Vista l’emergenza educativa che vive l’Italia, mi auguro che davvero si mettano in atto strumenti che garantiscano la libertà di educazione. Un altra emergenza riguarda la famiglia e la necessità di introdurre il quoziente familiare».
(tratto da "Il Giornale del 25/08/2010)

25 agosto 2010

L'aborto in busta paga

Torna alla ribalta Marie Stopes International, l’organizzazione abortista britannica che si ispira alla celebre razzista ammiratrice del Führer. Dopo la controversa pubblicità televisiva pro aborto, e lo scandaloso appoggio alla politica cinese del figlio unico (il famigerato jihua shengyu), gli eugenisti londinesi di Conway Street hanno stupito il mondo con un’ultima trovata. L’organizzazione ha deciso, infatti, di concedere ai propri dipendenti – 430 unità che operano nei nove centri del Regno Unito –, un benefits package, ovvero una serie di servizi agevolati, come parte accessoria della prestazione lavorativa. Una sorta di premio produzione in natura.
Si tratta di abbonamenti scontati a palestre e centri benessere, di viaggi a tariffe ridotte, della possibilità di partecipare a programmi dietetici a prezzi agevolati, e simili amenità. Fin qui nulla di male. Il punto è, però, che nel pacchetto di quei servizi rientra anche l’aborto gratuito.
Sì, ai dipendenti di Marie Stopes International, ai propri partner e ai relativi figli, viene offerta come benefit, la possibilità di accedere gratis al core business dell’organizzazione: aborto, sterilizzazione maschile e femminile, e family planning.
Colpisce la motivazione di simile generosità nei confronti dei dipendenti, che vengono espressamente premiati da Marie Stopes International proprio per la loro «dedication, passion and hard work». Dedizione, passione e duro lavoro nel procurare aborti. Il tono, davvero macabro, più che ricordare il freddo umorismo inglese, fa venire in mente il Galgenhumor, l’ilarità patibolare germanica. La dedizione e la passione dei dipendenti nel dare la morte, viene premiata con la morte, ovvero con l’accesso gratuito per gli stessi dipendenti e familiari all’eliminazione dei figli indesiderati.
Mors mortem invocat, verrebbe da dire. L’aspetto drammatico – che ha in realtà ha poco di umoristico – coinvolge il tentativo di banalizzare una tragedia umana com’è quella dell’interruzione di una gravidanza. In questo processo ideologico di trivialization, si è ora arrivati a porre sullo stesso piano l’abbonamento agevolato a una palestra con lo sconto sull’eliminazione di un essere umano.
Ed è persino passata l’idea che l’aborto possa far parte di un servizio accessorio alla retribuzione di un lavoratore dipendente. Qui, in realtà, siamo oltre l’ideologia. Si tratta di mero cinismo affaristico, di puro business, di avida speculazione sulle difficoltà, i bisogni e i desideri degli esseri umani.
Marie Stopes International pratica circa 65mila aborti l’anno, più o meno il 30% di tutti gli aborti realizzati nell’Inghilterra e nel Galles, con un vorticoso giro d’affari che porta nelle casse dell’organizzazione circa 100 milioni di sterline l’anno, un terzo delle quali proviene da fondi pubblici, a titolo di rimborso per 'servizi sanitari in campo sessuale e riproduttivo'. Anche qui, come spesso accade, dietro tanti bei proclami che inneggiano alla salute della donna, alla sua libertà sessuale, all’emancipazione femminile, all’inarrestabile progresso scientifico, si celano, in realtà, interessi economici multimilionari.
Ma è una società malata quella in cui si accetta il principio che per l’avidità di pochi possano essere eliminati esseri innocenti e indifesi. La storia ha insegnato che l’avidità porta inevitabilmente al sopruso, e che tutte le scelte contrarie al diritto naturale non tardano a presentare, prima o poi, un conto salato.
(di Gianfranco Amato da "Avvenire" del 24/08/2010")

24 agosto 2010

La Compagnia di Don Giussani al Meeting

Vi proponiamo un testo inedito del 1980 pubblicato in occasione dell'edizione di quest'anno del Meeting.

Io vorrei che facessimo emergere i fattori determinanti il volto adulto di questo fenomeno che ha dato origine alla più grossa manifestazione che abbiamo fatto in trent'anni: il Meeting di Rimini. Più grande, non appena quantitativamente, ma anche dal punto di vista della incidenza sulla opinione pubblica.

a. Da una parte, gente appassionata alla vita del movimento. Cosa vuol dire appassionata alla vita? Un adulto non può non essere appassionato a una vita, altrimenti o è un vecchio, oppure è un bambino. L’adulto è serio nella vita: la serietà nella vita è la passione per il significato.L’adulto è una persona per cui il movimento è veicolo, o luogo di incontro, con il significato del proprio esistere, della propria persona.

b. In secondo luogo, amici tra di loro per delle circostanze che l’hanno permesso. Allora, una passione per la vita che renda capaci di amicizia. E l’amicizia è affrontare «insieme» i bisogni.Ora, qual è l’accento particolare che fa capire la maturità di queste persone? È che, vivendo in una determinata situazione (la Rimini estiva), hanno notato l’assoluta, totale mancanza di presenza dei cristiani. Quanti anni è che Rimini è centro balneare di quel tipo? È bellissimo e tragico che della gente si sia domandata a un certo punto, improvvisamente o finalmente: «Non esiste presenza cristiana qua dentro».

c. Terza questione: allora, l’ideale della vita che hanno dentro, reso organico dalla amicizia e perciò reso coraggioso dall’amicizia, si impegna, cambia. Non esiste vera percezione ideale se non diventa energia di cambiamento, cioè affezione, energia di mobilitazione del tempo, e dello spazio, della realtà, in funzione dell’ideale. Quindi, si sono mossi per realizzare questa presenza.Questa è la storia dell’adulto. Serio nella vita, che riconosce l’ideale, e perciò eminentemente sociale come temperamento, come fisionomia. Questo è l’ideale che unisce: è la risposta al bisogno del vivere che unisce la gente, che crea la società. L’amicizia: compagnia guidata al destino, come io la definisco sempre con i ragazzi. Percezione di una situazione come assenza del proprio ideale, e quindi impegno, perché questo sia, perché la presenza dell’ideale avvenga.Così l’avvenimento nuovo inizia, la generazione dell’adulto comincia, l’adulto genera. Hanno creato un luogo dove si incontrava un soggetto. La presenza è questo: un luogo. La generazione dell’adulto, che rende presente la propria vita fuori di sé, è un luogo dove si incontra un soggetto. Un soggetto, una persona, una umanità, che aveva qualcosa da dire; una umanità con un messaggio. Questo è il vero figlio! Un padre non è padre perché permette alla donna di buttare fuori un feto. È veramente padre se crea una persona che si può incontrare come luogo di un messaggio, quando crea una persona che ha un messaggio dentro.

Dopo queste cose si può fare tutto: si può pulir la chiesa, scopar la chiesa, spolverare le panche, si può servire, coprire tutti i ranghi della dottrina, si può organizzare i chierichetti, si può organizzare la S. Vincenzo e tutto il resto: dopo. Perché se non è espressione di questo, allora siamo finiti, anche se facciamo tante cose! Se facciamo tante cose, produciamo tutt'al più una resistenza, facciamo un vallo di resistenza all'onda in piena, una resistenza che viene inevitabilmente travolta.

23 agosto 2010

Obama impari l'Islam da Bush


Non può esserci una guerra efficace contro i terroristi se è una guerra con l’islam. Bush lo aveva capito. Ed è strano vedere Obama meno chiaro del suo predecessore”.
A notarlo adesso è anche la columnist liberal del New York Times Maureen Dowd, intervenendo sulla moschea a Ground Zero. Perché sull’islam nutriva più moral clarity il presidente che ha portato due guerre nel mondo musulmano del presidente che ha tenuto il discorso del Cairo. Prima Obama ha sposato il progetto di Ground Zero; poi è tornato indietro, limitandosi a difenderne la libertà di costruzione. Ha generato sospetti, paure, passi falsi. Dopo l’11 settembre, Bush entrò in una moschea per elogiare la “religione di pace” dell’islam. Nel suo viaggio nel cuore del medio oriente, fra le malignità dell’arabismo, del dispotismo, del settarismo e dell’antimodernismo, Bush riuscì a far capire che quella al terrorismo è una “guerra giusta” contro “the evil”, il male, non una crociata antislamica. Riconobbe la necessità di separare il jihad dall’islam ordinario, la visione islamica tradizionale di un governo impostata sul patto sociale, come da lezione di Bernard Lewis. Sebbene parlasse spesso in termini aulici del Corano, il presidente repubblicano non ha mai ceduto alla tentazione di blandire l’islamismo. Ha sempre pensato che fosse necessario inserirsi negli affari interni delle terre islamiche, mentre Obama sta coltivando una rassegnata accettazione delle autocrazie straniere. Bush sapeva che, sebbene si nascondesse dietro a una forma primitiva di islam, chi aveva abbattuto le Twin Towers faceva parte di un movimento politico, militare e totalitario che non ha alcun rispetto per moschee, imam o fedeli. Obama invece sembra non credere alla possibilità di una riforma dell’islam separando le due sfere. Consegna la guida dell’occidente a un pessimismo inerte, impacciato. Dopo Ground Zero la guerra è stata tra chi vuole tagliare teste e chi vuole contarle, tra chi vuole la dittatura dell’imamato e chi coltiva la fede islamica in uno stato pluralista, tra chi esige di nascondere le donne sotto veli di feroce misoginia e chi vuole pari diritti per Marte e Venere, tra chi ama la morte più della vita e chi difende la vita rischiando la morte. L’occidente ha uno strategico interesse nel progresso dell’islam. Per questo lo swing politico e morale di Obama non aiuta né noi né loro.
(tratto da "Il Foglio" del 20/08/2010)

21 agosto 2010

XXXI edizione del Meeting di Rimini


Domani si apre la 31esima edizione del Meeting di Rimini, noi ci saremo e siamo certi che anche quest'anno torneremo da Rimini con tanti spunti interessanti da riprendere con gli amici nelle settimane successive. Vi proponiamo il comunicato del Meeting diramato oggi che anticipa i contenuti di questa edizione.

Che cos’è l’uomo, che cosa lo rende irriducibile a qualsiasi potere, a qualsiasi ideologia, a qualsiasi circostanza. Questo è il tema della XXXI edizione che si aprirà a Rimini domani fino a sabato 28 agosto. “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore” è il titolo del Meeting 2010; testimonianze, esperienze, uomini e donne da tutto il mondo per documentare quale sia la vera natura di ogni uomo. In una cultura che tende a cancellare “l’umanità dell’uomo”, il “mancamento e voto” espresso da Leopardi nello Zibaldone, il rischio è quello che si affermi una concezione puramente materialistica della vita. La provocazione contenuta nel titolo afferma invece il contrario. La natura dell’uomo è innanzitutto il suo cuore che si esprime come desiderio di cose grandi. E’ questa tensione il tratto inconfondibile dell’umano, la scintilla di ogni azione, dal lavoro alla famiglia, dalla ricerca scientifica alla politica, dall’arte all’affronto dei bisogni quotidiani.Il Meeting si apre con l’augurio di Benedetto XVI di “testimoniare nel nostro tempo che le “grandi cose” a cui anela il cuore umano si trovano in Dio”. “Ogni uomo - recita il messaggio a firma del Segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, inviando ai partecipanti del Meeting il saluto e la benedizione apostolica del Santo Padre - intuisce che proprio nella realizzazione dei desideri più profondi del suo cuore può trovare la possibilità di realizzarsi, di compiersi, di diventare veramente se stesso.”.Il Santo Padre ricorda anche il quinto anniversario della morte di don Giussani; proprio al fondatore al Meeting è dedicato un omaggio attraverso le sue parole, le immagini della sua vita e un breve video che documentano la sua struggente passione per la vita: “io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione”. Un primo approfondimento sul tema sarà l’incontro con Stefano Alberto, Docente di Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano.Ad aprire il Meeting sarà il presidente d’Irlanda Mary McAleese; e da qui inizia un percorso attraverso gli appuntamenti con il primate d’Ungheria Erdö e il metropolita Filaret, con il patriarca di Venezia Scola, con la tavola rotonda con il ministro Frattini e rappresentati di paesi quali Senegal, Pakistan, Turchia, Nigeria, la presenza del presidente della Commissione Europea Barroso e la chiusura con il filosofo francese Hadjadj.E inoltre un programma ricco come ogni anno: 135 incontri, 8 mostre, 19 spettacoli e 346 personaggi. Nel corso della settimana arriveranno a Rimini ospiti come i giuristi Weiler e Kretzmer, scienziati come Edward Nelson, uomini di chiesa e altre religioni come il vescovo di Ratisbona Muller, l’arcivescovo di Dublino e primate di Irlanda Martin, il cardinale Tauran, l’imam della moschea di Bordeaux Oubrou, l’ambasciatore americano presso la Santa Sede Miguel Diaz e il rappresentante dell’amministrazione americana DuBois, l’amministratore delegato di Fiat Marchionne, uomini di spettacolo come Stefano Pesce e Giancarlo Gianni. Di economia, della crisi, delle sue cause e di una nuova concezione del lavoro dell’uomo, a questo è dedicata anche una mostra, si discuterà con: Corrado Passera, Emma Marcegaglia, Cesare Geronzi, Raffaele Bonanni, Paolo Scaroni e il ministro dell’economia Tremonti. E infine di una politica legata ai temi, a partire dal desiderio dell’uomo con, tra gli altri, i ministri Sacconi, Alfano, Maroni e personaggi quali Giuliano Amato, Luciano Violante ed Enrico Letta. La sfida per tutti, per i visitatori, gli ospiti e gli oltre 3000 volontari, 20 i paesi del mondo presenti, è una: difendere l’umano, riaffermare le sue aspirazioni più profonde, il suo desiderio di infinito, simboleggiato dal Caligola di Camus, spettacolo inaugurale di quest’anno, per scoprire se il destino dell’uomo sia quello di Caligola, un desiderio che rimane insoddisfatto e impazzisce oppure la possibilità che esista nella vita, nel lavoro, nella famiglia e in tutto ciò che la compone qualcosa che risponda a questo desiderio.

20 agosto 2010

Espellerre i rom che delinquono non è razzismo, è rispetto delle leggi


La decisione di Nicolas Sarkozy di espellere trecento Rom che hanno commesso reati o in posizione irregolare, verso la Bulgaria e la Romania, patrie d’origine, non è scattata a freddo.
E’ stata decisa in una riunione all’Eliseo del 29 luglio, dopo il grave episodio di Saint Aignan, una cittadina nella regione della Loira in la gendarmerie aveva sparato contro un’auto che aveva forzato un posto di blocco, uccidendo il giovane alla guida, un Rom di cittadinanza francese, della “gens du voyage”, secondo la definizione ufficiale di Parigi. Per vendicarlo, la sera successiva, a freddo, decine di Rom del campo del giovane, hanno assalito con inaudita violenza la caserma della gendarmerie, provocando incidenti gravissimi. Questo, dopo che in varie regioni della Francia si erano succeduti negli ultimi mesi molti episodi di violenza. Il 30 luglio Sarkozy, dunque non ha improvvisato una stretta di vite xenofoba e a freddo contro i Rom, come appare dai media, ma ha risposto ad una situazione di turbolenza sociale acuta, al cui epicentro sono i Rom. Le espulsioni decise infatti, riguardano tutte e solo Rom in posizione irregolare, espulsi non in quanto Rom, ma perché hanno violato le leggi francesi, come ha chiaramente spiegato del ministro dell’Interno Brice Hortefeux dopo la riunione dell’Eliseo: “Espelleremo immediatamente in Bulgaria o in Romania i Rom che hanno arrecato disturbo alla quiete pubblica o commesso reati”. Anche i 300 campi Rom che Sarkozy a deciso di chiudere (ad oggi ne ha chiusi 50), sono tutti irregolari. Non solo, Sarkozy ha anche annunciato che intende modificare anche ritirare la cittadinanza a quei giovani immigrati, che abbiano compiuto reati. Un chiaro segnale di “tolleranza zero” a 360 gradi, non mirata ai soli Rom, in un paese in cui le banlieues sono spesso in mano a bande di giovani immigrati che si muovono con la logica del branco, spesso scontrandosi tra di loro.
Naturalmente, le prime espulsioni dei giorni scorsi, hanno suscitato le proteste non solo delle comunità Rom (a proposito, si è scoperto che il portavoce dei Rom austriaci si chiama Sarkozi, eccellente scherzo della storia), ma anche di Bucarest e Sofia e naturalmente della immancabile Ue. La Francia ha così strappato all’Italia il primato delle accuse di razzismo quanto a gestione dei Rom, in un contesto in cui regna il massimo dell’ipocrisia politically correct. Innanzitutto perché è oggi evidente che è stata sciagurata la decisione della Ue di estendere ai rumeni e bulgari il diritto di libera circolazione. Meccanismo che non può creare che caos quando sono così alti i differenziali di controllo della criminalità tra Romania e Bulgaria e i paesi fondatori dell’Ue e così imponente è la massa dei Rom che ha così potuto muoversi liberamente verso ovest. E poi perché il problema dei Rom è di difficilissima gestione per una questione che non attiene affatto a pseudo tensioni xenofobe, ma alla loro cultura. I Rom infatti rifiutano l’integrazione (ripetiamo: rifiutano l’integrazione, intendono restare tra di loro e non mescolarsi con le popolazioni ospiti, sotto ogni profilo, non solo abitativo); praticamente tutti rifiutano di avere un lavoro fisso e hanno anche una fortissima resistenza nel fare andare a scuola i propri figli. Gestire in modo equilibrato queste loro pretese, che li trascinano –per loro libera scelta- nella marginalità sociale, è problema che non si può risolvere con belle parole e men che meno tollerando una cultura dell’illegalità che troppo spesso attecchisce nei loro campi.
(di Carlo Panella- tratto da il blog di Carlo Panella)

19 agosto 2010

Il padre e il sacerdote


Desidero proporvi uno degli articoli più interessanti apparsi sul quotidiano "Il Foglio" in queste ultime settimane. L'articolo è di Francesco Agnoli che si cimenta in uno stretto paragone tra le figure del padre e del sacerdote. Mai come in questo momento è necessario riscoprire la bellezza dell'essere padri e questo articolo ne spiega chiaramente le ragioni.

"...Vi è un’analogia tra la figura del padre e quella del sacerdote (come tra madre e suora). Il padre di famiglia, sposandosi, rinuncia ad essere totalmente suo.
Diviene della moglie, che si è scelto (almeno in parte), e dei figli, anch’essi solitamente voluti, cercati, ma creature che non saranno del tutto sue, perché libere ed uniche. Il sacerdote fa qualcosa di simile, ma in misura maggiore: sceglie di rinunciare totalmente a se stesso.
Non sceglierà i suoi superiori, né i suoi fedeli, né la sua dimora: tutto è lasciato alla Provvidenza, in una fiducia e in un abbandono totali. Il padre di famiglia porta su di sè alcuni pesi, alcune responsabilità. Sposandosi si lascia sempre qualcosa. Perché la vita familiare non va d'accordo con un "po'di tempo solo per me", con le "mie cose" e i "miei impegni", con la carriera ad ogni costo, con i viaggi e tante altre cosette che si possono fare quando si è scapoli…
Un padre deve donarsi alla sua famiglia ed alle sue esigenze. Una bellissima canzone per bimbi, “Mi scappa la pipì, papà”, potrebbe essere il suo manifesto: ricorda che il suo è un servizio, ai bisogni continui e imprevedibili dei figli. Il matrimonio cristiano è quindi anche sacrificio, per qualcosa di più grande; è obbedienza: alle circostanze, a quello che il coniuge o la realtà pongono ogni giorno sul cammino. Il padre di famiglia non può dire “io”, ma “noi”, e le sue decisioni sono, spesso, la semplice presa di coscienza di un dovere da compiere. Che, compiuto, gratifica e dà senso e gioia.
Analogamente il sacerdote lascia anch’egli qualcosa, per qualcosa di più grande: per "lasciarsi fare" da Dio, dalla Chiesa, dagli altri. La sua obbedienza deve essere assoluta, perché appartenere a Dio vuole dire non essere più di se stessi, in nulla, ma tutti di Cristo e del prossimo. Il sacerdote non ha una sua famiglia, una moglie con cui mangiare parlare, dormire; né dei figli, che lo salutino e bacino ogni sera, quando torna dal lavoro. Non ha neppure una casa, costruita come la vuole lui. Oggi è in una parrocchia, domani in un'altra. Oggi in una città, domani verrà spostato. Punti fermi, di quelli che hanno tutti, cui aggrapparsi, non ve ne sono. Egli è celibe, cioè votato al cielo, benché viva sulla terra. “E’ separato da tutto e unito a tutti”, come diceva Evagrio Pontico.
La sua verginità assomiglia alla castità del padre di famiglia, ma è molto di più. La verginità sacerdotale è come quella di Cristo: disposta a lasciare padre e madre, a rinunciare a moglie e figli, per avere figli spirituali, cui dare tutto, senza attendersi nulla, nella gratuità più completa. Una volta anziani, i sacerdoti finiscono spesso nella solitudine più nera: hanno servito tutti, ma non hanno qualcuno che li tenga con sé, un figlio che "restituisca" loro ciò che ha ricevuto. Ricordo quando andavo, da ragazzo, a trovarne alcuni in ospizio: quella loro solitudine mi spaventava, eppure vedevo in molti quella stessa forza che doveva averli accompagnati quando erano alla guida, cioè al servizio, delle loro comunità. Quando le loro vacanze erano quelle dei loro parrocchiani; i loro impegni erano quelli degli altri; quando ogni loro decisione veniva presa in base alle decisioni e alle esigenze degli altri.
La castità del padre di famiglia, come quella della madre, ovviamente, è la roccia su cui si costruisce una solida unità familiare: padre e madre non vogliono nulla, o quasi, per se stessi, ma tutto è, in loro, per amore, al servizio delle vite che hanno generato. Servire insieme è già una gioia e un perché... Ma quando un padre cessa di essere "servo", magari per un lavoro o un'altra donna; quando la sua castità è violata, allora si rompe tutto. Non ha più lo sguardo puro su coloro che gli sono stati affidati, ma solo su di sé e sui propri istinti, sui propri capricciosi desideri. Il matrimonio, e la fedeltà che vi è implicata, diviene per lui un limite, che non sopporta più. Persa la castità, l’uomo perde il controllo di sé, e finisce per dissiparsi, nell’illusione di ritrovarsi.
Analogamente il sacerdote è chiamato ad una verginità totale: altrimenti non potrebbe diventare padre spirituale, né materiale, di figli che non sono carnalmente suoi. Come avrebbero potuto, tanti sacerdoti della storia, creare ospedali, orfanotrofi, partire per le missioni in paesi lontani, sino alla morte, se non avessero abbracciato il celibato, se avessero avuto una famiglia loro, che gli avrebbe impedito di essere di tutti? Ma la verginità non è facile. E’ un vuoto vertiginoso che, per portare molto frutto, deve essere riempito: di Cristo, di preghiera, di santità. Allora risucchia e attrae, verso il Bene. Il sacerdote che è veramente vergine, nel corpo e nello spirito, è veramente padre: guarda ai suoi figli “adottivi” con una gratuità soprannaturale. Non in quanto suoi, ma in quanto anime immortali amate da Dio. Tutto proteso verso il loro bene.
Ecco perché i sacerdoti santi trasformano il mondo, così come i padri fedeli lo rendono migliore e più umano. Ma quando un sacerdote non colma più quel vuoto con Dio, finisce per riempirlo di stoppa: onori, carrierismo, clericalismo, superbia della mente (quanti teologi non vergini!), peccati carnali...In questo caso il sacerdote, tradendo Cristo, non lascia orfani due o tre figli, come un padre di famiglia fedifrago, ma molti di più, e spesso uccide in tanti il germe della fede che avrebbe dovuto coltivare...".

Dossier speciale sulla fine della Primavera di Praga


Agosto 1968. I carri armati delle nazioni «amiche» del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia soffocando l’illusoria «primavera di Praga». Il sogno di costruire un «socialismo dal volto umano» si scontrava con la realtà del socialismo che ha sempre un'anima disumana.

17 agosto 2010

Ricordo di un uomo alla ricerca della verità


Poche ora fa si è spento il Presidente Francesco Cossiga, un uomo che ha vissuto gli ultimi cinquant'anni di politica italiana e che si è contraddistinto per il suo carattere verace e per una dialettica politica che lasciava spazio a poche interpretazioni. Ci auguriamo che Carpenedolo, sia a livello politico che attraverso la voce delle diverse associazioni presenti sul territorio, renda degno omaggio al Presidente Cossiga.
Noi lo vogliamo ricordare con questo articolo dell'onorevole Renato Farina, deputato al Parlamento Italiano.

"....Il viso ha ritrovato pace. Da tanto tempo il suo sorriso così bello si raggrinziva, era perennemente turbato. Le sue battute e le sue contumelie da morir dal ridere, le sue esplorazioni terrificanti della storia italiana e dei suoi segreti, non davano requie a lui stesso. Aveva un solo punto dove si riposava: annegando nell’abbraccio trinitario di amici cristiani. Un tempo papa Karol Wojtyla (è l’uomo di Stato che lo ha incontrato ufficialmente più spesso: ventitré volte, ma qualcuna l’hanno cancellata per non esagerare) e don Luigi Giussani. Oggi Benedetto XVI. Gli era amico da cardinale, ma un Papa – diceva Cossiga – può avere amici solo altri cardinali, e si sentiva in questa confessione un po’ di amarezza. Ma soprattutto di desiderio.

Aveva le stampelle, non stava in piedi, Cossiga, il 24 marzo del 2007 quando il Papa volle incontrare in San Pietro i ciellini. Andai a prenderlo di mattino presto in casa, e stava male, faceva freddo e non sarebbe dovuto uscire, pioveva a dirotto. Invece volle esserci e come un ragazzino si buttò in ginocchio davanti al Papa per prendere la sua benedizione. Aveva una sete tremenda di grazia. Era un mendicante bambino, lui che è stato uno degli uomini che sulla terra ha raccolto più cariche e titoli, più amicizie e onori. Era uno degli uomini al mondo meglio dotato di relazioni e più conosciuto e stimato a destra e a sinistra, in America e in Cina. Ma non era niente tutto questo sfavillio dinanzi al destino, senza Cristo vivo. Senza che Cristo gli potesse perdonare la morte di Moro, del quale lui mi disse ancora poco tempo fa con un sorriso che non dissimulava un bel niente tranne il dolore più grande del mondo e del sopramondo: “L’ho condannato a morte!”.
Sto condividendo qui il ricordo più forte e bello che ho del presidente Cossiga. Il suo essere l’essenza concreta dell’uomo europeo. Un uomo che è stato duemila anni fa greco e poi ebreo e cristiano. È stato travolto dalla modernità, si è aggrappato al cattolicesimo liberale di Rosmini e Newman. Ha sentito il peso di un moralismo insopportabile, infine il suo dovere di statista. La solitudine. Il monachesimo finale nella memoria amica di don Gius, Giovanni Paolo e Benedetto.
Un aspetto poco conosciuto è quello del suo affetto e della sua santa invidia per don Giussani. Desiderava avere la sua fede, gli obbedì nella scelta decisiva della sua esistenza; matto com’era avrebbe voluto acciambellarsi ai suoi piedi come il Gatto Mammone che si figurava essere per respirare lo stesso tepore della Santa Trinità ardente nel cuore di don Gius. (Uno così non si può non amare, anzi non si poteva non amare, bisogna usare il tempo passato adesso che è morto, ma non mi rassegno, non è giusto, ci dev’essere un’altra giustizia che fa risorgere dai morti).
Non mi intrattengo sul politico e sulla sua idea di politica. Lo faranno molto meglio altri. Mi interessa trasmettere la sua tenera e fanciullesca fede, lui che è stato uno degli uomini di Stato più colti del mondo. Era complicato nella testa, anche nella teologia aveva idee profonde e molto ingarbugliate esposte con perfezione dottrinale. Ma era evidente che non si vive di dottrina, ma di amicizia cristiana, la quale scioglie il cuore nell’Amore. Ecco l’amicizia che lui ha avuto la generosità di accordarmi ha avuto questo segno: in tutto, anche gustando del caffè o del gelato, del vino o un passo di poesia, o c’entra il cuore della realtà, il suo significato, oppure tutto è vanità. E per me, ma anche per lui – ha chiesto di iscriversi alla Fraternità di Comunione e Liberazione - don Giussani, la sua persona vivente anche dopo il suo trapasso, era il segno efficace di Dio nel mondo, di una felicità possibile anche ora, nonostante la nostra miseria, anzi esaltata ancora di più nella sua gratuità dalla nostra meschinità traditora.

Cossiga mi raccontò che fu Aldo Moro a indirizzarlo da don Giussani. Mi disse: «Ho conservato da qualche parte l’angolo di giornale dove segnò i numeri di telefono di Giussani e Formigoni, dicendomi, anzi ordinandomi di chiamarli e di incontrarli. Nel 1976 si era assunto in prima persona l’onere di condurre, pur essendo presidente del Consiglio, la campagna elettorale che minacciava di essere quella del sorpasso. Diceva che gli unici a capire il senso autentico di quello che poteva accadere erano loro, Giussani e Formigoni: e mi mandò da loro».
Quando Moro fu assassinato, Cossiga si ritirò da tutto. Voleva chiudere con la vita pubblica. Andò da don Giussani e gli chiese consiglio. Don Giussani, sempre discretissimo, quella volta lo aiutò a decidere per il rientro in politica, era la sua vocazione…
Ricordo ancora quando nell’ottobre del 2005 a Desio si inaugurava la piazza don Giussani, il paese natale. Nessuno credeva che sarebbe arrivato. Invece venne, e tenne un discorso bellissimo sotto la pioggia sferzante, con una bronchite che lo strozzava. Era così, Francesco Cossiga. Amava il Meeting. Indossò da presidente della Repubblica la maglietta dei militanti, spiritoso e serissimo: ci credeva....".

Conosciamo il nostro patrono: Bartolomeo

(nella foto la basilica di San Bartolomeo all'Isola a Roma)
Si avvicina la Festa di San Bartolomeo, Patrono di Carpenedolo. Il 24 Agosto è infatti il giorno in cui si festeggia Bartolomeo (in greco Βαρθολομαιος ... – ...), uno dei dodici apostoli che seguirono Gesù. L'apostolo viene chiamato con questo nome nei sinottici, mentre nel vangelo di Giovanni è indicato con il nome di Natanaele. Era originario di Cana in Galilea, ma non vi sono indicazioni sulle date di nascita e di morte. Morì nella seconda metà del I secolo probabilmente in Siria. Fu il secondo Catholicos di tutti gli Armeni.
Tutto quello che si conosce di questo Apostolo proviene dai vangeli. Secondo il Vangelo di Giovanni egli era amico di Filippo: fu, infatti, questi a parlargli entusiasticamente del Messia quando gli disse: abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazareth. La risposta di Bartolomeo fu molto scettica: da Nazareth può mai venire qualcosa di buono? Ma Filippo insistette: vieni e vedrai. Bartolomeo incontrò Cristo e quanto gli disse fu sufficiente a fargli cambiare idea. Gesù: Ecco davvero un Israelita in cui non c'è falsità. Bartolomeo turbato gli chiese come facesse a conoscerlo e Gesù di rimando: prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico. L'essere raggiunto da Cristo nei suoi pensieri più intimi, suscitò in lui un'immediata dichiarazione di fede: Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele! Gesù, allora, gli rispose Perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico credi? Vedrai cose maggiori di questa.
Il suo nome compare poi nell'elenco dei dodici inviati da Cristo a predicare e, ancora, negli Atti degli Apostoli, dove viene elencato assieme agli altri apostoli dopo la risurrezione di Cristo. Da questo momento più nulla, solo la tradizione che racconta della sua vita missionaria in varie regioni del Medio Oriente, secondo alcuni, forse, si spinse fino in India. Anche la morte è affidata al racconto che lo vuole ucciso, scuoiato della pelle, secondo alcune fonti da parte del re dei Medi nella regione della Siria, mentre altre fonti parlano dell'Armenia.
A causa del supplizio a cui sarebbe stato condannato, lo si vede spesso raffigurato mentre viene scuoiato o con un coltello in mano. Michelangelo nel Giudizio Universale della Cappella Sistina lo rappresenta con la propria pelle in mano. Sulla maschera di volto che appare su questa pelle l'artista ha voluto porvi il proprio autoritratto. La più famosa opera su San Bartolomeo è una scultura, opera di Marco d'Agrate, un allievo di Leonardo, esposta all'interno del Duomo di Milano, in cui è appunto rappresentato scorticato con la Bibbia in mano; l'opera è caratterizzata dalla minuta precisione anatomica con cui viene reso il corpo umano privo della pelle, che è scolpita drappeggiata attorno al corpo, con la pelle della testa penzolante sulla schiena del martire.
Il martirio di San Bartolomeo è un tema ripreso da una serie di pittori minori allievi del Caravaggio tra il del '600 e '700.
Nella chiesa parrocchiale di Carpenedolo è presente un'opera del Maffei che ritrae il martirio di San Bartolomeo.

16 agosto 2010

Gesù secondo la tv di Hezbollah: non muore in croce e non risorge

Gesù si salva dalla croce e quando muore va dritto in Paradiso senza risorgere. Invece è Giuda che finisce crocifisso. «Il Cristo» secondo l’Iran è una fiction che Hezbollah, gli amici degli ayatollah, volevano mandare in onda in Libano durante il Ramadan, il mese del digiuno islamico.
La ventina di puntate presentavano Gesù secondo il Corano, che non lo considera figlio di Dio, ma un tormentato profeta giudeo, che attende l’avvento di Maometto. Mercoledì è andata in onda la prima puntata, ma i cristiani del Paese hanno protestato con forza. Nel Libano multiconfessionale una fiction del genere può avere l’effetto di una bomba. Non a caso la Direzione generale della sicurezza di Beirut aveva chiesto per prima che «il Cristo» fosse sospeso.
La fiction doveva andare in onda su Al Manar, la tv di Hezbollah, il partito armato degli sciiti libanesi. In contemporanea, sarebbe stata trasmessa dell’Nbn, emittente televisiva legata al movimento sciita Amal. Due bastioni mediatici dell’alleanza con Siria e Iran.
«È il più grande insulto a Gesù Cristo e alla sua Chiesa», ha tuonato il vescovo Beshara Raii, della chiesa maronita di Jbeil, in un’intervista al sito Naharnet. Il religioso si è fatto portavoce del malcontento che serpeggia nella comunità cristiana libanese. La fiction si basa sulla ricostruzione della vita di Gesù tratta dal Vangelo di Barnaba, che è un apocrifo e non riconosciuto dalla Chiesa. Raii ha ricevuto le 17 puntate in anteprima essendo responsabile della Commissione episcopale sui media in Libano. «È negata la divinità di Cristo, che non risorge e al suo posto, sulla croce, ci va Giuda. È una distorsione dell’ideologia cristiana», ha protestato il vescovo.
Gli sciiti del tubo catodico sembravano tener duro. «Non colpisce affatto i cristiani - ha detto Qassem Sweid, direttore generale di Nbn - Ci siamo accertati che sia stata prodotta in conformità al Corano e non c’è ragione che possa indurci a sospenderne la messa in onda».
In un Paese che ha vissuto una sanguinosa guerra civile, dove la religione continua a mescolarsi con la politica, basta una scintilla per far saltare tutto in aria. La fiction «mina le fondamenta di tutte le religioni e alimenta contrasti», sostiene il vescovo. E i contrasti nel Paese dei cedri si risolvono spesso a raffiche di kalashnikov.
Alla fine gli amici degli ayatollah hanno dovuto capitolare. Ieri, il ministro dell’Informazione, Tarek Mitri, ha convocato una conferenza stampa annunciando che la messa in onda de «Il Cristo» era stata cancellata. Altri parlano solo di sospensione.
La fiction è tratta da un film da 5 milioni di dollari finito di girare nel 2007 dal regista iraniano Nader Talebzadeh. Un sostenitore del presidente Mahmoud Ahmadinejad, scettico sull’11 settembre. Il Cristo iraniano sembra più un hippy invasato che Gesù. L’attore che lo interpreta si chiama Ahmad Soleimani-Nia. Prima di darsi al cinema ha fatto il soldato degli ayatollah e poi il saldatore per l’Ente atomico iraniano.
Il titolo originale è «Gesù, lo spirito di Dio». Il film ha ottenuto pure un premio in Italia, nel 2007, al festival del cinema sulle religioni. Proiettato alla rassegna di Filadelfia ha invece scatenato le proteste cristiane in California. Il regista considera la pellicola «una risposta islamica alla Passione di Cristo di Mel Gibson».
(di Fausto Biloslavo- tratto da "Il Giornale" del 14/08/2010)

13 agosto 2010

Caterina e il diario di un padre nella tempesta

È recentemente uscito, edito da Rizzoli, il nuovo libro di Antonio Socci, dal titolo “Caterina. Diario di un padre nella tempesta”. Ve lo proponiamo come libro per l'estate.
L'autore spiega sul suo sito le motivazioni che l'hanno mosso a scriverlo in un momento di sofferenza e preoccupazione per la salute e la vita di sua figlia, Caterina. Ve ne proponiamo uno stralcio.

"Tante persone – scrivendo al mio blog – hanno continuato, nel corso dei mesi, a chiedermi come sta Caterina e come si evolve la sua situazione. Alcuni mi parlano delle proprie afflizioni, delle prove che devono vivere e mi domandano come riuscire a non restarne schiacciati.
Ho scritto questo libro per loro e per ringraziare i moltissimi che hanno pregato e pregano per Caterina. Ma oso (sfacciatamente) mendicare ancora preghiere ardenti perché restiamo nella tempesta o – almeno – siamo ancora in cammino. Un cammino lunghissimo, drammatico e pieno di pericoli e incognite.
Questo libro vuole essere anche un atto di fede in Gesù che ci esorta a pregare come se avessimo già ottenuto ciò che chiediamo. E quindi un atto di ringraziamento.

Insieme vuole essere il mio ringraziamento a Dio per averci dato Caterina. Lo ringrazio di averla creata e fatta cristiana. Lo ringrazio di averla fatta così buona e bella, anche nell’anima.
Lo ringrazio dello splendido popolo cristiano in cui è cresciuta e che l’ha sostenuta nella terribile prova presente. A questo popolo chiedo, con gratitudine, ancora preghiere per la nostra principessa…"

Clicca qui per leggere l'articolo intero di Antonio Socci

P.S. Sarebbe un sogno invitarlo a Carpenedolo, sarebbe veramente un'occasione per tutti i cittadini del nostro paese e per le associazioni presenti sul territorio per conoscere da vicino un testimone di fede di grande spessore.

12 agosto 2010

I gulag di Fidel Castro


Il Foglio quotidiano in un articolo del 20 luglio scorso riporta all'attenzione dei suoi lettori la protesta-denuncia che stanno facendo dieci dissidenti cubani, liberati dalle carceri cubane dopo la mediazione della chiesa cattolica, per andare in esilio in Spagna, ma i dieci non vogliono abbandonare l'isola e soprattutto tutti gli altri detenuti politici a marcire nelle carceri di Fidel Castro. “Sarà libertà o moriremo”, esclama il dissidente Julian Moné Borrero, membro del Movimento cattolico Giovanni Paolo II”.

Per loro la diaspora è una sconfitta e vogliono che il regime comunista di Castro liberi i detenuti politici senza condizioni. Nelle carceri cubane le condizioni sono disumane. Racconta Ricardo Gonzales, “Sovraffollamento, perdite dalle fogne, celle dove i prigionieri devono defecare in un buco nello stesso luogo dove dormono. Si convive con ratti, scarafaggi, scorpioni e, detto chiaramente, con gli escrementi”. Sono stati rinchiusi per mesi con la luce accesa tutto il giorno, mentre Lester Gonzalez è stato confinato in un cubicolo di due metri senza luce. “Dal lunedi al venerdi mi portavano fuori solo un momento al giorno perché vedessi la luce”, ha detto il dissidente. Le situazioni disumane nelle carceri, hanno denunciato Pablo Pacheco e Normando Hernando, generano apatia tra i carcerati che “si feriscono da soli o si tolgono la vita”. (Gli irriducibili del gulag cubano, Il Foglio, 20.7.2010).

Il massimo prigioniero politico è il dottore Oscar Biscet, che attraverso la sua Fondazione Lawton si è battuto pubblicamente contro l'aborto e la pena di morte, dopo mesi di isolamento non ha più un dente. Molti di questi dissidenti sono stati bollati come “agenti della Cia”, Un’accusa che li accomuna alla prima leva di dissidenti, come il poeta Heberto Padilla, il leader operaio David Salvador o il capo studentesco Porfirio Ramirez, fucilato da Castro. Il Foglio di Giuliano Ferrara racconta diverse storie come quella di Ivàn Hernàndez Carrillo che è finito in carcere perché ha“dissacrato un’immagine di Fidel Castro”. Ha poi messo su una libreria indipendente, dove si trovano i testi banditi dal regime. Mentre la“colpa” dell’irriducibile Fidel Suarez Cruz è stata quella di aver pescato nel posto sbagliato. Un gesto di disobbedienza civile che gli è costato venticinque anni di carcere. Non se ne andrà in Spagna il poeta Iglesias Ramirez, che finì sotto l’attenzione della polizia perché amava ascoltare i Rolling Stones. Pedro Luis Boitel, era uno studenteche nel 1972 morì in cella per lo sciopero della fame dopo aver combattuto prima contro la dittatura di Batista e poi contro quella di Castro. Nel movimento intitolato a Boitel oggi milita un altro irriducibile, Osvaldo Gonzàlez Montesinos, che si è visto incrementare la pena dopo che ha fatto uscire dal carcere una lettera di denuncia: “I nostri governanti sono determinati a mantenere Cuba in una lugubre oscurità”. Leggendo l'articolo del Foglio il mio pensiero va subito ad Armando Valladares, forse il più noto dissidente cubano, che dopo ventidue anni di dura prigione nel 1982, viene liberato dopo una lunga campagna internazionale a suo favore e su intervento personale del presidente francese Francoise Mitterand, mandato in esilio in Spagna, nel 1985 ha scritto un bel libro, Contro ogni speranza. Dal fondo delle carceri di Castro, in Italia edito da Sugarco. (Ora ripubblicato da Spirali, nel 2007).

Alleanza Cattolica in una sera di maggio del 1987, ha presentato il libro a Milano, quella sera io c'ero e mi ricordo che Valladares alla fine della conferenza con pazienza e cura ha autografato con dedica le tante copie del suo libro (io ne possiedo una che tengo gelosamente), ora a distanza di oltre vent'anni mi accorgo che a Cuba, nonostante le denunce choc di Valladares, non è cambiato nulla, si raccontano sempre le stesse cose. Anzi si continua a presentare Cuba, come ha fatto Licia Colò questa sera su Rai 3nel programma “Alle falde del Kilimangiaro”, come il paradiso esotico per il turismo nostrano. Nelle 400 pagine delle sue memorie di prigionia Valladares descrive minuziosamente il bestiale trattamento riservato ai nemici del regime comunista cubano. Contro ogni speranza, racconta l'inferno in cui egli ha vissuto e la storia di come un uomo sia riuscito a sopravvivere alle peggiori sevizie senza mai perdere la speranza, per quanto infondata potesse apparirgli. I detenuti che rifiutavano la “riabilitazione politica” erano costretti a vivere nel caldo più soffocante e nel freddo più intenso senza abiti (un particolare mi ha colpito, quando Valladares ha dovuto vedere sua mamma completamente nudo, proprio per farlo sentire un verme) venivano percorsi e presi a calci regolarmente dalle guardie; gettati nelle celle di punizione dove non filtrava mai un raggio di luce e dove non era possibile abbandonarsi al sonno perchè le guardie lo impedivano lanciando secchi di urina e feci sui detenuti o stuzzicandoli con lunghe aste (ma erano anche i topi a tenere svegli: una notte, in una scena che richiama alla mente 1984 di Orwell, Valladares narra che si svegliò allorchè un topo cercò di dilaniargli le dita). Nel carcere di Boniato, i detenuti sono ridotti al livello di cavie per 'esperimenti' biologici che reggono il paragone con quelli eseguiti dai nazisti.

11 agosto 2010

La conversione di Giovanni Lindo Ferretti


Mi colpisce sempre rileggere queste parole dell'ex cantante dei CCCP, CSI e PGR Giovanni Lindo Ferretti. Sono il racconto di un percorso di conversione che non può non lasciare affascinati. Consiglio a tutti voi la lettura della sua autobiografia "Reduce" che sviluppa i contenuti del discorso che vi propongo in questo post.

“….Da giovane frequentavo le piazze. Ogni sabato pomeriggio, per qualche anno, sono sceso in piazza a manifestare: occasioni internazionali, nazionali, locali, non mancavano. C’era sempre una bastarda repressione da contrastare, una nobile causa da sostenere. Certo non sono stato né il primo né l’ultimo che, nell’assoluta convinzione di essere libero, padrone della propria esistenza e votato alla miglior causa si è ritrovato poi a constatare l’infinita distanza, spesso la netta contrapposizione, tra la realtà e le parole usate per comprenderla e raccontarla. Tra la complessità del vivere e la sua riduzione a sequela rancorosa e lineare, tra il mistero della vita e la lista delle rivendicazioni. Convinto di luccicare di verità e di libertà mi sono ritrovato a proteggere l’oppressione e servire la menzogna. E’ stata la guerra che ha distrutto la Jugoslavia a travolgermi: la realtà e l’ideologia che avrebbe dovuto decodificarla erano inconciliabili. Anzi, l’ideologia che sostenevo era un peggiorativo dell’esistente. Un po’ come chi semina vento, raccoglie tempesta e si rammarica per il maltempo. A Mostar, ridente cittadina europea a vocazione turistica, travolta dall’odio e dal sangue, la realtà si presentava in forma beffarda. La linea del fuoco, cannoneggiata bombardata cecchinata, era il “viale della pace e della fratellanza tra i popoli”: il dogma dell’internazionalismo socialista e la bandiera del pacifismo. Sono stato costretto a guardare la realtà con i miei occhi, ad ascoltare con le mie orecchie, a toccare con mano. Mi sono ricordato che, da qualche parte c’era un cuore e, per quanto maltrattata, avevo un’anima. Così ero stato allevato e ben educato: era il caso di ricominciare da lì. Trovarmi altri maestri, nuovi insegnanti, vecchi insegnamenti.

"…Me ne sono tornato a casa. Molte incombenze quotidiane, nessuna pretesa, nessuna rivendicazione. Fosse servito a qualcosa prendermi a schiaffi per la mia dabbenaggine l’avrei fatto. Ho preferito ringraziare per la vita che mi era stata donata. Non immaginavo un qualsiasi pubblico impegno per l’avvenire ma, per l’appunto, la vita oltre che dono, meraviglioso comunque, è un mistero che non siamo noi a determinare. Non così tanto come vorremmo. C’è altro oltre la nostra buona o pessima volontà. Ho cominciato a comprare il Foglio. La prima volta che l’ho visto, sullo scaffale di un’edicola, l’ho comprato, con un po’ di imbarazzo residuale, perché era bello. Come? – mi sono detto – in un tempo in cui i giornali sono sempre più gravati da titoli, fotografie, rubriche, allegati, colori, chi è che si permette tanta eleganza formale, tanta leggerezza?. Il Foglio è diventato il mio legame quotidiano con il contemporaneo e poi molto di più perché mi ha aperto alla conoscenza di mondi sconosciuti di cui percepivo la mancanza: il pensiero neo-conservatore americano, tanto per dirne uno. Grazie, di cuore, Giuliano Ferrara.

"…..Un giorno al bar mentre bevevo il caffè mi sono messo a sfogliare l’Espresso che “dalla A alla Z” snocciolava tutti i bei nomi della musica, dello spettacolo. Tutti a favore dell’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita. La cosa che mi ha innervosito oltre ogni limite era l’assunto indubitabile: la musica è il bene, il giusto e da che mondo è mondo il bene e il giusto sono di sinistra, sono progressisti. Mi sono sentito chiamato in causa, proprio io, ero pur sempre il cantante dei CCCP Fedeli alla Linea, dei CSI. Non ci ho mangiato, non ci ho dormito, finché non ho scritto una letterina e l’ho spedita al Foglio grazie al quale avevo scoperto che, anche in quel caso come nella mia vita, tra la realtà e le parole che la raccontano si può creare un corto circuito. Spacciare l’eugenetica per liberazione non mi pare bello. Spacciare i desideri per diritti non mi pare giusto. E se il mondo della musica lo fa, con quella nonchalance che rende evidente la propria superiorità morale e materiale, beh! allora toccava a me, nel mio piccolo, sostenere Giuliano Ferrara e il cardinale Ruini. Mai e poi mai avrei immaginato il risultato del referendum. Ho riso di cuore per giorni e giorni. Come? Tutta lì, in quella percentuale, l’Italia dei media, della cultura, dello spettacolo, del radioso futuro, dei diritti perfetti così come fan tutti, così come bisogna fare? Da allora ogni tanto scrivo al Foglio, ogni volta mi chiedo il perché, che senso ha, chi mi credo di essere? Non lo so, non so rispondermi, ma ci sono cose, problemi, accadimenti, che interrogano tutti, e ognuno secondo le proprie capacità e responsabilità, è chiamato a rispondere. Non si può far finta di niente. Non per le cose essenziali della vita, quelle davvero importanti.

10 agosto 2010

Ecco cosa si nasconde dietro i nuovi massacri dei cristiani

Pubblichiamo la lettera di Padre Bernando Cervellera, direttore di Asia News, sul massacro dei medici occidentali.
Caro direttore (padre Cervella scrive al direttore del Sussidiario),

la morte degli otto volontari cristiani uccisi venerdì a Badakhshan lascia sgomenti. È la prima volta che componenti di un’organizzazione non governativa (e cristiana) vengono presi di mira in modo così esplicito. Nel caso specifico, tutto è abbastanza fuori del comune. Anzitutto, l’organizzazione per cui gli otto volontari - sei americani, una britannica, una tedesca - lavoravano, lo Iam (l’International Assistance Mission), è impegnata nel Paese da 44 anni ed era riuscita a farsi stimare per la professionalità e la dedizione sotto il re, sotto il regime filo-sovietico, sotto i Talebani e anche ora, in questo periodo di guerra.Non era nemmeno la prima volta che il gruppo si muoveva. Fra essi, il loro capo spedizione, Tom Little, un optometrista di New York, era un vero esperto dell’Afghanistan, essendovi arrivato fin dagli anni ‘70.Stupisce anche che il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid abbia subito rivendicato l’esecuzione degli otto volontari e di due dei traduttori, senza aspettare uno o due giorni, come di solito avviene. In più la rivendicazione è avvenuta in modo altisonante, come per gloriarsi di fronte a tutto il mondo musulmano e chiamarlo a raccolta: “Ieri [il 6 agosto] - ha detto - una delle nostre pattuglie ha affrontato un gruppo di stranieri. Erano missionari cristiani e li abbiamo uccisi tutti”.
Fonti di AsiaNews nel Paese hanno fatto notare che questa volta i talebani non hanno mostrato i “capi di accusa”, le bibbie e magari le mappe segnate con la presenza di guerriglieri islamici. Forse perché non sono mai esistite.Nemmeno la polizia che ha recuperato i corpi ha trovato le famose bibbie in lingua Dari, la prova del “proselitismo” di questi volontari cristiani. Invece i poliziotti hanno notato che oggetti di proprietà degli uccisi sono stati rovistati e derubati, tanto da far supporre che gli autori dell’esecuzione islamica siano solo dei ladri, con vaghi legami coi talebani. Far apparire un furto e l’omicidio come una tappa del jihad può significare che i talebani vogliono mascherare la loro debolezza e il bisogno di nuovi alleati: le regione di Badakhshan, al confine con il Tajikistan, teatro dell’attentato, è una delle poche regioni afghane sottratte da sempre al loro controllo. Ma è anche possibile che la loro lotta sia ormai divenuta più spietata: essi non combattono più solo i militari stranieri, ma tutti gli occidentali tout court. Il punto è che i militari presenti in Afghanistan possono essere criticati per tanti aspetti: dopo anni di guerra non c’è sicurezza; domina la miseria; cresce la corruzione; non vi sono infrastrutture…Ma i volontari erano là per donare il loro servizio alla popolazione afghana, avendo curato milioni di persone dalla possibile cecità. Per questo, la violenza contro di loro è una violenza contro la stessa popolazione afghana. Questo assassinio rende evidente che i fondamentalisti non si curano affatto degli interessi e dei bisogni della gente che pure dicono di voler difendere.Egli ha pure aggiunto che si trattava “di spie dell’America”, che volevano raccogliere informazioni sugli insediamenti dei guerriglieri fondamentalisti. Zabihullah ha precisato che i volontari, tutti medici oculisti eccezionali, avevano con sé bibbie in lingua Dari e che “facevano proselitismo”.Ma per quanto altisonanti, le accuse non tengono. Dirk Frans, direttore esecutivo dello Iam, ha negato con forza le due accuse di proselitismo e di politica: “Lavoriamo in Afghanistan dal 1966. Loro sanno che siamo un ente cristiano, ma di sicuro non distribuiamo bibbie”. Egli ha anche spiegato che gli uccisi erano medici e che lo Iam si occupa solo di aiutare la popolazione.

Un senso alle vacanze

La vacanza, sosteneva Fëdor Dostoevskij, è un’idea borghese. “Il borghese per esempio”, si legge in Note invernali su impressioni estive, “oltre all’esigenza di accumulare denaro e a quella dell’eloquenza, ne ha altre due, due esigenze delle più legittime, consacrate dall’universale consuetudine e alle quali egli si applica con straordinaria, poco meno che patetica, serietà. La prima esigenza è: voir la mer, vedere il mare.

Perché mai deve vedere il mare? (…) Un’altra legittima e non meno forte esigenza del borghese, e del borghese parigino in particolare, è il se rouler dans l’herbe”. L’ironia del grande scrittore russo è molto a segno anche oggi circa 150 anni dopo la formulazione di quel giudizio. I nostri nonni o i nostri bis nonni, contadini, pre borghesi, non andavano in vacanza, non avevano mai visto il mare, non avevano bisogno di rotolarsi nell’erba. Avevano meno informazioni di noi e tuttavia erano più dentro l’universo e i suoi ritmi di gran parte di noi.
E non è che fossero meno felici. Come sostiene un altro grande russo in uno dei suoi pensieri improvvisi, Andrej Sinjiavskij: “Un tempo l‘uomo nella cerchia familiare era legato alla vita universale - storica e cosmica - in un modo assai più ampio e saldo di oggi. Pur avendo a disposizione giornali, musei, radio, comunicazioni aeree, noi avvertiamo appena questo fondo comune, non ne siamo molto compenetrati e ci pensiamo poco”.

E tuttavia la vacanza di oggi, dell’uomo del 2010, è comunque un’occasione. E’ vero, può essere un momento alienante di massa anche’esso, persino nella versione fighetta (negli anni Settanta-Ottanta c’era sempre la copertina dell’Espresso dal titolo: “Le vacanze intelligenti”). E però sarebbe frustrante oggi ragionare ancora e solamente sulla falsa libertà di quel tempo “libero” che la nostra convivenza ci assegna. Vedere il mare o rotolarsi nell’erba, poniamo in un prato di montagna, sono comunque cose belle in sé, dentro o fuori lo schema borghese della rispettabilità sociale. Che non vanno disprezzate.
Così come non va persa l’occasione di leggere i libri che non si sono letti durante l’anno, di sentire meglio la musica ascoltata prima distrattamente, di riflettere o pregare in santa pace e soprattutto di viaggiare. Perché viaggiare comunque è incontrare e vedere cose nuove e persone nuove. Il senso della vacanza può essere allora davvero questo: vivere la libertà vigilata che ci viene concessa in questo poco tempo come un’opportunità. Conosco ormai diverse persone che dedicano un pezzo della vacanza a fare qualcosa per sé e soprattutto per gli altri, che non c’entri con il lavoro di tutto l’anno. Essere volontari, in Italia o all’estero, magari in Africa, oppure più semplicemente al film festival di Giffoni o al Meeting di Rimini. E’ gente che torna al proprio lavoro ordinario o al proprio studio con una carica maggiore, un volto più riposato, uno spirito più rinfrancato.

Andare in vacanza così, fra l’altro, non ha bisogno di grandi investimenti. Dà l’impressione (o anche l’illusione) di aver liberato la vacanza da quell’odiosa atmosfera di “ora d’aria” collettiva. Di consumistica e odiosa scampagnata da gita aziendale. Un grande scrittore, David Foster Wallace, ha dedicato un meraviglioso libro al racconto di una crociera di turisti americani nei Caraibi (Una cosa divertente che non farò mai più) in cui l’ironia di Dostoevskij viene rivista e aggiornata.

Ecco un racconto che, da solo, una volta letto può riscattare ogni vacanza, darle un senso. Insomma come diceva un tormentone: “Basta poco, che ce vo’?”
(di Alessandro Banfi tratto da "Il Sussidiario")

Riapre il blog "Ragione e Libertà"

Carissimi lettori,
dopo un'attenta riflessione con alcuni amici abbiamo deciso di riaprire il blog "Ragione e Libertà" in modo da poter affrontare tutte le tematiche di nostro e vostro interesse in modo libero e senza schemi precostituiti. Non è un caso che la riapertura del blog avvenga in un momento così importante dal punto di vista culturale e sociale: è infatti necessario moltiplicare gli sforzi affinchè la testimonianza cristiana in ambito sociale, culturale e politico si faccia più forte. I tentativi di delimitare la presenza cristiana nella società sono innumerevoli, come molteplici sono gli attacchi che ogni giorno vengono rivolti alla Chiesa ed in primis al Santo Padre Benedetto XVI.
Riteniamo che l'unico modo per stare di fronte alla realtà in un momento come questo sia quello di mostrare la bellezza, la verità e la ragionevolezza di ciò che si è incontrato nella proprio vita: Gesù Cristo. Ogni altra posizione umana rischierebbe di ridurre l'avvenimento cristiano ad una semplice posizione culturale destinata a morire con il tempo.
Questo blog non è dunque uno strumento di battaglia culturale, ma un luogo dove poter "lavorare" sulla realtà per imparare a giudicarla.
Ci auguriamo che questo nostro tentativo possa essere essere d'aiuto a noi e ad altri amici.
Paolo Spaziani
Maria Cristina Berra