28 settembre 2011

Gesù fa ancora scandalo. E la Bbc cancella avanti e dopo Cristo




La notizia è destinata a fare il giro del mondo e ad alimentare la compagnia di giro dei commentatori occidentali e non solo occidentali: i tutori dell'etica della Bbc hanno proposto di abolire le tradizionali e classiche espressioni «Avanti Cristo» (A. C.) e «Dopo Cristo» (D. C.), sostituendole con la dizione più «neutrale» «Common Era» o «Era Volgare». Un Vescovo anglicano di origini pachistane si è molto agitato e il sindaco di Londra ha definito l'iniziativa «puerile, assurda e senza spina dorsale». Bene, siamo alle solite: la dialettica culturale con le consuete propaggini ideologiche. Le quali, però, non toccano in alcun modo le radici della questione, che sono sostanzialmente due. La prima riguarda lo scandalo di Cristo. «Oportet ut scandala eveniant», recita il Vangelo. È necessario che avvengano scandali e il primo scandalo è proprio la persona di Gesù Cristo. Perché è il Dio crocifisso, dice sant'Agostino, che va a morire sulla croce come un brigante e soffre per salvare tutti, inclusi coloro che oggi vogliono eliminarlo perfino dalla nomenclatura storico-culturale. Skàndalon, in greco, vuol dire pietra d'inciampo. E i notabili «etici» della Bbc, insieme ai benpensanti cristiani - e l'accostamento non sembri equivoco - inciampano sulla stessa pietra: Cristo. Benedetto XVI richiama da tempo l'eclissi di Dio nella civiltà occidentale. Una civiltà priva di fondamento prima di tutto ontologici e solo in secondo luogo etici. Un mondo che non riconosce altro che il narcisismo di ritorno di cui ha scritto magistralmente il filosofo americano Lasch. Una realtà geo-culturale fondata sull'assenza di Cristo. Eppure così retoricamente invischiata con i cascami nominalistici dell'«Avanti Cristo» e del «Dopo Cristo»: è l'essenza di Cristo, dopo il dominio dell'assenza di Cristo. La decisione della Bbc toglie il velo ad un'ipocrisia rendendo, così, oggettiva la querelle decisiva della nostra civiltà: Cristo. Appunto: gli scandali sono necessari. Ma vi è un altro punto da sottolineare: la realtà della Tradizione come nucleo vivente di una storia comune. È ancora ciò la Tradizione cristiana? Oppure la nostra figura di modernità, che una filosofa geniale come Chantal Delsol ha definito «modernità tardiva», non riesce neanche più a sopportare la presenza di Cristo? Il concetto di Tradizione è denso ed avvincente nelle sue declinazioni religiose ed antropologiche. Infatti, esso denota innanzitutto il tràdere, il comunicare di padre in figlio la verità accolta come un dono e, nel contempo, conquistata. Il cristianesimo, in questo modo, si fa cristianità, ovvero cultura e civiltà reale, materiale e matericamente inscritta nel corpo, magari malato, di un popolo, di molti popoli. In questo senso, si può stigmatizzare la scelta culturale (ideologica?) della Bbc e perfino combattere contro una certa militanza anti-cristiana così diffusa nel mondo anglosassone. Ma il Papa, nella sua visita nel Regno Unito, ha usato un altro metodo: è partito dal valore della civiltà anglosassone, in tutta la sua estensione storica e laica, per domandare all'Inghilterra contemporanea: chi sei, oggi? Cosa rimane di tutto ciò? È un interrogativo bruciante che non può essere censurato e che scelte come quelle della Bbc fanno paradossalmente riemergere. (di Raffaele Iannuzzi-tratto da "Il Tempo")

25 settembre 2011

Figlio con una cicatrice? Meglio abortire. Lo Spectator si ribella

Il settimanale inglese The Spectator ha dedicato la sua ultima copertina al dibattito che si è concluso in questi giorni sulla legge che regola l'aborto nel Regno Unito, dove è stato bocciato un emendamento che avrebbe arginato le interruzioni di gravidanza. L'articolo del settimanale, firmato da Mary Wakefield, colpisce perché pone il livello della discussione su un piano totalmente differente da quello che ha spaccato anche il mondo pro life anglosassone durante il corso della discussione in aula. La disputa sulla legge si è aperta nuovamente a inizio settembre, dopo che Nadine Dorries e Frank Field hanno portato in Parlamento un emendamento che cercava di separare i consultori dalle cliniche che effettuano gli aborti. Infatti, è difficile che cliniche abortive offrano consigli e aiuti alla donna in favore della vita, come richiesto dalla legge. Parte del mondo contrario all'aborto, però, temeva che toccando la norma, la situazione degenerasse: «Sappiamo che la politica è l'arte del possibile» ha scritto dopo il voto Josephine Quintavalle, una fra le colonne dell'universo pro life inglese. Perciò «non abbiamo votato l'emendamento, perché mira a togliere i fondi alle cliniche abortive sulla base del fatto che potrebbero influenzare la decisione della donna. Così, si rischia che i consultori pro life siano attaccati con le stesse motivazioni». Quintavalle sostiene che bisognerebbe invece lottare «perché la legge sia rispettata dalle cliniche, in modo che facciano una consulenza seria e che parlino alla donna dei rischi dell'aborto (...) e delle alternative esistenti». Ci si chiede se sia possibile, quando è la stessa Quintavalle a sottolineare che «chi lavora in quelle cliniche non è solo economicamente, ma anche ideologicamente motivato» a far scegliere la strada dell'aborto alle donne. Lo Spectator, invece, salta a piè pari la discussione sulle tattiche o i compromessi da adottare in merito e titola: “Who cares about abortion?”, mettendo nero su bianco l'ecografia di un bambino spezzata in due. Il problema, scrive la giornalista Wakefield, non è il diritto della donna, che può sempre dire «come si è sentito in aula: “Chi è il padrone del mio utero? Non voglio che sia il primo ministro"», che inizialmente aveva sostenuto l'emendamento. Il punto è invece il bambino: «Ha una vita autonoma – scrive la Wakefield – non è parte del tuo utero. Bisogna quindi chiedersi se non abbia gli stessi diritti di quelli che pensano che si possa buttare via: chi è il suo padrone?». Nessuno in questi giorni si è mai interrogato sull'essere del bambino. Anzi, da tempo la discussione, da una parte e dall'altra, è sempre più incentrata sulla madre. Perché ormai nel dibattito è sottinteso un presupposto intoccabile, che sta anche alla base della legge: il diritto della donna viene prima di quello del nascituro. Oggi, scrive la Wakefield, «ci ritroviamo con una gravidanza su cinque che termina con l'aborto, con 189. 574 feti uccisi in un anno – di cui sette con il labbro leporino e otto, che ormai avevano passato la 24 settimana, con piede equino». Così, sottolinea la giornalista, «si è arrivati a un punto estremo», in cui i pro choice non hanno più remore ad argomentare «che l'aborto non è un male a volte necessario, come dicevano prima, bensì una cosa giusta e bella». L'aborto, sottolinea lo Spectator, in questi mesi, «per la prima volta è stato celebrato in Parlamento come un successo. (...) “Come si fa a dire che gli aborti sono troppi?”, si sentiva dire, “chi lo sostiene è un bigotto, un misogino”». Wakefield descrive amareggiata come il diritto di decidere della vita di un altro, ritenuta meno valida, sia degenerato nella sua opzione eugenetica ormai dichiaratamente espressa: «C'è dell'orribile tragicomico in una società in cui solo pochi mettono al mondo figli e in tanti li “buttano via”, anche solo per una piccola membrana piegata male. Perché, anche la si correggesse con un'operazione, al piccolo potrebbe sempre rimanere la cicatrice». (di Benedetta Frigerio- tratto dal settimanale "Tempi")

23 settembre 2011

Ma la Chiesa Cattolica non è fatta per le persone per bene

T. S. Eliot non si sarebbe stupito: “Il mondo gira e il mondo cambia / ma una cosa non cambia” quando si ha a che fare con “l’uomo di eccellenti intenzioni”: i profeti a corrente alterna (quelli che vorrebbero cacciare solo certi mercanti dal tempio) si trovano a disagio con una istituzione come la chiesa cattolica che, per dirla sempre con Eliot, “è gentile dove sarebbero duri, e dura dove essi / vorrebbero essere teneri” e che, fondata da Uno che difendeva le adultere dalle sassate e andava a cena coi mafiosi ed evasori fiscali, non scomunica i peccatori, ma eventualmente gli eretici, non quelli che agiscono male, ma l’orgoglio intellettuale di chi crede di non aver bisogno di perdono, e poter così “distribuire morte e giudizi”, rischio da cui ammoniva il Gandalf di J.R.R. Tolkien. Anche G.K. Chesterton per tutta la vita si sarebbe identificato col personaggio del ladro Flambeau, che solo Padre Brown ha davvero compreso e convinto a cambiar vita, senza peraltro chiedergli mai di consegnarsi alla polizia: “Non ho forse ascoltato i sermoni dei giusti e visto il freddo sguardo delle persone rispettabili? Non sono stato forse catechizzato con quello stile elevato e distaccato, non mi è stato forse chiesto come fosse possibile per qualcuno cadere così in basso? Credete che tutto ciò che mi hanno fatto non mi abbia causato altro che riso? Solo il mio amico qui mi disse esattamente perché rubavo, e da allora non l’ho più fatto.” Gli uomini rispettabili ne avrebbero di libri simili da censurare, perché la grande arte cristiana scotta come una patata bollente nelle mani gelide di chi vorrebbe una chiesa pronta a epurare i figlioli prodighi e benedire la decapitazione dell’immondo di turno. Difficile per loro andare d’accordo con un Dante che racconta un Manfredi dai “peccati orribili” che sorride per sempre al sicuro in Purgatorio; difficile andare d’accordo con Shakespeare, col suo Falstaff dai vizi debordanti e la disordinata allegria ma che muore da cristiano semplicemente gridando “Dio”; difficile andare d’accordo col vescovo dei “Miserabili” di Victor Hugo che, lungi dal consegnare il ladro Valjean ai gendarmi, ne raddoppia la refurtiva, e senza chiedergli di pagarci le tasse; difficile andare d’accordo con Manzoni, che fa ammonire Don Rodrigo da fra’ Cristoforo ma non fa passare neppure per la mente al cardinal Borromeo di comandare all’Innominato di consegnarsi alla “giustizia così facile” degli uomini; difficile andare d’accordo con Joseph Roth e il suo “santo bevitore”: non un ex alcolizzato che diventa santo, ma proprio un santo alcolizzato. Oscar Wilde, che avrebbe amaramente conosciuto quali abissi di violenza e ipocrisia siano in attesa quando si confondono i reati coi peccati, disse che la chiesa cattolica è il luogo dei santi e dei peccatori, mentre le persone perbene si potevano accontentare della chiesa anglicana. Purtroppo per Wilde le persone perbene di ieri e di oggi hanno la brutta tendenza ad accontentarsi della chiesa puritana della “Lettera scarlatta”, che imporrebbe ai reprobi l’isolamento e la marchiatura pubblica delle colpe. Ecco finalmente un libro che descrive una società capace di andare incontro all’accorato appello di Barbara Spinelli: peccato che Hawthorne l’avesse scritto per denunciare un mondo di orrore, delazioni, falsità, e che per la chiesa siano i puritani gli eretici da scomunicare.

(di Edoardo Rialti-tratto da "Il Foglio")

Il discorso di Benedetto XVI al Reichstag



Illustre Signor Presidente Federale!
Signor Presidente del Bundestag!
Signora Cancelliere Federale!
Signora Presidente del
Bundesrat!
Signore e Signori Deputati!



È per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il Signor Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per le gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.


Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino.[1] Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi. In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: “Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…”. In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile. Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. Cr. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano.[3] In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell'uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”. Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico.[4] Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso. Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto. Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica, nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo. Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana. Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi consola il fatto che, evidentemente, a 84 anni si sia ancora in grado di pensare qualcosa di ragionevole.) Aveva detto prima che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza – aggiunge – la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte – dice – presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli nota a proposito.[5] Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus? A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico. Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Vi ringrazio per la vostra attenzione.