26 agosto 2011

Il caso di Giulia e del medico che s'è posto il dubbio sulla vita "efficiente"

Rimini. Il medico diceva che Giulia aveva due possibilità, la migliore delle quali era lo stato vegetativo. La microcefalia e la polimicrogiria diagnosticate durante la gravidanza potevano più facilmente portare alla morte ma certamente – questo diceva la scienza – si trattava di condizioni incompatibili con una vita degna. Per risolvere il problema alla radice il dottore ha programmato un’operazione abortiva resa più rassicurante da quell’aggettivo, “terapeutico”, che sempre occhieggia dove c’è qualcosa d’indeterminato e indecidibile; bisognava intervenire in fretta per curare il male che Mariangela si portava dentro e per estirpare quello si trattava di accettare un mortifero effetto collaterale di cui tutti si sarebbero dimenticati in fretta. Del resto, anche se fosse sopravvissuta, Giulia non avrebbe mai potuto essere felice in quelle drammatiche condizioni. “E’ bastato uno sguardo con Riccardo per decidere di portare avanti la gravidanza – ha raccontato ieri Mariangela davanti al pubblico del Meeting di Rimini – anche se eravamo coscienti che non potevamo controllare quello che sarebbe successo”. Nel ragionamento sulla “certezza”, tema della kermesse di Cl, quella di Mariangela e Riccardo è apparentemente una storia spuria, fatta di incognite e angoli morti piuttosto che di ferree convinzioni che resistono ai marosi dell’esistenza. Ma il dipanarsi psicologico della trama viene interrotto da un’alterità con due occhi azzurri in cui ci si può specchiare. Giulia nasce, vive, cresce. Dopo il primo mese vengono fuori le difficoltà (il medico di certo non mentiva) e la bimba non si sviluppa come dovrebbe, rimane indietro, non si muove. Tornano dal medico che aveva suggerito la terapeutica cancellazione di quell’essere che non meritava di essere: “Vi posso consigliare un buono psicologo” è il migliore dei suggerimenti che è in grado di produrre. Come a dire: io ve l’avevo detto. Giulia però c’è, ed è sull’inoppugnabile dato di realtà – una realtà viva, anche se particolarmente bisognosa d’aiuto – che i genitori edificano quella vitale certezza che ha cambiato tutto. Mariangela e Riccardo lavorano al Parlamento europeo a Bruxelles; non senza difficoltà – hanno raccontato – si sono decisi a chiedere aiuto agli amici. La parrocchia, i colleghi, i genitori dei compagni di scuola delle altre due figlie, gli amici degli amici: il semplice fatto che Giulia esistesse ha mobilitato un popolo che sembrava aspettare l’irrompere della vita per rinascere a sua volta. Ora Giulia ha otto anni: non parla e non cammina, ma capisce due lingue e ha una memoria formidabile per i volti; gattona, si muove, piange, saluta, scia, prende il cibo dal frigo quando ha fame. Solo con un sotterfugio radicale ai danni della ragione si potrebbe affermare che non è vita. “Mariangela e Riccardo non sono degli eroi”, ha detto Fabio Cavallari, che ha raccontato la storia di Giulia nel suo libro “Vivi: storie di donne e uomini più forti della malattia” (Lindau), ma persone che hanno avuto il coraggio “normale” di considerare la nascita come un evento positivo. Poi hanno incontrato Bernard Dan, primario di neuropsichiatria ateo ma senza orgogli militanti, un sincero osservatore della realtà. Al Foglio dice che “ormai siamo abituati a considerare la vita soltanto sulla base dell’efficienza delle performance, ma questo è un grave errore dal punto di vista scientifico: l’umano eccede i limiti di ciò che il soggetto è in grado di fare o non fare”. Eppure il mondo cavalca a rotta di collo la mistica del figlio senza macchia (e dei genitori senza paura). “C’è un grande errore nella nostra società, anche a livello scientifico: quello di considerare l’efficacia come sovrano criterio di giudizio. Ma la realtà è molto più complessa”. E la complessità di questa realtà si chiama Giulia, ha otto anni e due “occhi di cielo” che, dice la mamma, “a molti parlano di Dio”. (di Mattia Ferraresi- tratto da "Il Foglio")

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