13 febbraio 2012

La vera storia della Concordia


La vera storia

Il naufragio della Concordia è diventato subito qualcos’altro, invece è una strage di 32 anime

Non è soltanto a Dominca Cermontan, la ragazza moldava che era sulla Costa Concordia quella notte, che bisogna chiedere scusa. Dopo averla usata, messa in prima pagina per trasformare una strage in un fotoromanzo o per fare pressione su Francesco Schettino e convincerlo a raccontare tutto. E’ stato perfino scritto, ripreso, rilanciato, che lei avrebbe detto agli inquirenti: “Io amo Schettino”, come se un procuratore dovesse scandagliare l’animo di una ragazza sopravvissuta al naufragio, trasformarsi in una signorina cuorinfranti per capire se si trattava di un flirt, di un’amicizia o di una grande storia d’amore. E poi la cabina fantasma, il bikini nella cabina, il beauty case, la bionda nella plancia di comando, il vino nella caraffa. Tutto camuffato da inchiesta seria, mai svelando il rotocalco, come se cherchez la femme fosse un argomento indispensabile a spiegare il disastro, la distrazione, la strage. La ragazza moldava, contestando le frottole che sono state scritte, ha detto: “Affonda una nave, muoiono delle persone, ma tutta l’Italia parla di me e del mio amore per il capitano”. Di lei, del capitano, della codardia e dell’eroismo, del modello De Falco, del modello Schettino, e se era giusto aggiungere “cazzo” alla fine di “vada a bordo”, della metafora della politica italiana, degli arresti domiciliari di Schettino, del Titanic e di quanto è profondo il mare e quanto è piccolo l’uomo di fronte alla natura. E’ tutto diventato, subito, una storia diversa.


Ma la storia sono quelle trentadue persone, morte a centocinquanta metri dalla riva. Una bambina di sei anni, Dayana, che è scomparsa nell’acqua insieme al padre, e chissà quanta paura ha avuto, chissà se si tenevano per mano, e non li hanno ancora trovati. Maria D’Introno, trent’anni, sposata da poco, aveva paura del mare, l’hanno trovata al ponte quattro, non ha osato tuffarsi ed è stata risucchiata dalla nave. Thomas Alberto Costilla, 49 anni, era laureato in Antropologia ma faceva le pulizie sulle navi. Stava lavorando quando Schettino ha preso lo scoglio, l’hanno trovato in mare. Francis Servel, francese, settantun anni, che ha rinunciato al giubbotto salvagente per lasciarlo ad altri e non è mai arrivato a riva. Di molti non si conosce nulla, soltanto la nazionalità, di altri si sa che hanno salvato decine di persone prima di scomparire, che hanno insistito per cedere il posto ad altri sulle scialuppe, che hanno mandato un sms di rassicurazioni prima di morire. Il Tirreno, quotidiano di Livorno, ha pubblicato sul sito internet il memoriale delle vittime, e la possibilità di lasciare il proprio ricordo, testimonianza, saluto. E’ a loro, trentadue, che bisogna chiedere scusa, ed è questa la storia che si deve raccontare.

di Annalena Benini

12 febbraio 2012

Chi sono i cattolici pronti a tradire Obama

In America il voto cattolico non esiste, ma fino a un certo punto. I cattolici, che costituiscono il 27 per cento dell’elettorato, in passato hanno contribuito all’elezione del correligionario democratico Kennedy, del quacchero Nixon, si sono spesi per Clinton, hanno preferito il battista Al Gore al metodista Bush, salvo poi scegliere quest’ultimo quando la sfida era con John Kerry. Il cattolico John Kerry. Nel 2008 il 54 per cento dei fedeli di Roma ha votato per Barack Obama, e curiosamente è la stessa percentuale che due anni più tardi ha massacrato il suo partito alle consultazioni di midterm. Se dunque esiste in America un elettorato fluido, eterogeneo, pragmatico, non allineato e sensibile ai tratti personali dei candidati è quello cattolico. A ogni tornata elettorale gli strateghi si interrogano intorno all’impostazione politica dei rapporti con la chiesa e spesso finiscono per scoprire che l’alleanza con l’istituzione non garantisce il voto dei fedeli comuni e viceversa. Obama ha saputo dragare i voti nella comunità mentre la gerarchia era divisa fra il fronte dei vescovi che lo accusava di essere un liberal infanticida e le suore con l’adesivo del candidato democratico sulla porta del convento, infatuate dalle sue promesse di giustizia sociale. Alla Casa Bianca Obama ha messo in campo una strategia di appeasement del mondo cattolico che in parte ha funzionato, ma adesso il presidente rischia che a forza di tirare verso il paradigma della secolrizzazione, la corda si spezzi.

Quella che Obama ha lanciato per interposto dipartimento della Salute è conosciuta come “la guerra al cattolicesimo”e i suoi tratti sono noti: le linee guida della riforma sanitaria di Obama impongono che gli ospedali offrano gratuitamente servizi per la contraccezione e il controllo delle nascite, una pratica che viola la libertà religiosa dei cattolici (e di altre confessioni cristiane). Per far apparire meno draconiano il decreto, il segretario della Salute, Kathleen Sebelius – una cattolica a cui vari vescovi hanno intimato di non accostarsi alla comunione, date le sue posizioni pro choice – va in giro a rassicurare gli animi inquieti dicendo che verrà applicata, come promesso, la “esenzione religiosa”: significa che le chiese, le cliniche e gli ospedali d’impostazione religiosa non sono obbligati a fornire gratuitamente le prestazioni controverse né a includerle nelle assicurazioni che stipulano per i loro dipendenti. Lo ha spiegato in un articolo su Usa Today: “Abbiamo appositamente ricavato un’eccezione per le organizzazioni religiose che hanno principalmente dipendenti della propria appartenenza religiosa”. L’elettorato cattolico sarà anche fluido, eterogeneo e non allineato, ma non vive su un altro pianeta, dunque il trucco lo vede facilmente. Così come lo vede facilmente il mondo secolarizzato. Di fianco alla difesa di Sebelius, Usa Today ha pubblicato un editoriale di risposta in cui spiega un’ovvietà che l’Amministrazione finge di non sapere: “L’esenzione non copre le organizzazioni cattoliche che curano oppure assumono un ampio numero di pazienti e dipendenti non cattolici: cioè l’esatta situazione in cui si trovano molte università, ospedali e associazioni caritatevoli cattoliche”. Il problema è dunque la libertà religiosa garantita nel primo emendamento alla Costituzione, non la rivendicazione religiosa.

Dal capo della Conferenza episcopale americana, Timothy Dolan, in giù, la gerarchia cattolica si è mobilitata contro le linee guida della riforma sanitaria – finora 168 vescovi americani si sono espressi pubblicamente – e dall’universo più attento alla difesa della vita fino ai cattolici progressisti tipo il columnist liberal del Washington Post, E. J. Dionne, o il settimanale America, che il Vaticano ha redarguito più volte in passato, è partito il contrattacco. La minaccia di chiudere tutti gli ospedali cattolici d’America, con conseguenze enormi sul sistema sanitario, non è “off the table”. Non solo i cattolici però sono sul piede di guerra. Megan McArdle, laica analista economica dell’Atlantic, vede l’assurdità della disposizione obamiana attraverso la lente della pura efficienza: “Alcune delle migliori cure sono offerte da istituzioni religiose”. Il punto è che i servizi sono offerti a tutti i cittadini, secondo il principio della libertà religiosa, e non soltanto ai cattolici. Questo dato, ovvio a chiunque si sia mai aggirato per una città americana, sta portando la battaglia oltre i confini dell’ortodossia cattolica.

La reazione massiccia e vociante che si è scatenata nelle ultime settimane potrebbe avere pesati ricadute politiche per Obama, il quale ha utilizzato una tecnica classica nella speranza di sedare le proteste: rimandare il problema al 2013, dopo le elezioni. Soltanto nell’agosto dell’anno prossimo, ha stabilito l’Amministrazione, gli istituti religiosi dovranno aderire al protocollo del dipartimento. Sul Wall Street Journal, Gerald Seib spiega che “l’Amministrazione conta sul sostegno dei cattolici che non sono d’accordo con la dottrina della chiesa sulla contraccezione e vorrebbero la copertura gratuita di questi servizi. Potrebbe anche essere un calcolo corretto, ma è basato su un assunto incerto. Molti cattolici sono abituati a discutere le posizioni dei loro vescovi, ma non è certo che vogliano che lo stato faccia la stessa cosa”. L’intreccio fra la questione religiosa e il laicissimo primo emendamento rischia di far crollare la strategia equilibrista di Obama, che ora teme di perdere il sostegno dei cattolici che si era rivelato fondamentale nella grande vittoria del 2008. George Condon sul National Journal ha spiegato che anche i cattolici progressisti, quelli che ad esempio avevano sostenuto la presenza di Obama all’Università di Notre Dame nel contestatissimo discorso del 2009, stanno fuggendo dal Partito democratico. La tendenza è conformata anche dalle ricerche del Pew Research Center: nel 2008 il 37 per cento degli elettori cattolici iscritti a un partito si dichiarava vicino ai repubblicani, il 53 per cento ai democratici (numeri sostanzialmente confermati alle urne). Ora la forbice si è ristretta e i democratici hanno soltanto cinque punti di vantaggio e un trend negativo da gestire.

Peggy Noonan, columnist del Wall Street Journal, spiega che “la chiesa è divisa su molte cose. Ma i cattolici accetteranno che lo stato imponga alle loro chiese di tradire il loro credo?
Accetteranno che il presidente sfidi la leadership della chiesa e metta a rischio le sue istituzioni? No, non lo accetteranno. Si uniranno per contrastarlo”. Fluido, eterogeneo, non allineato, dunque, ma capace di mettere in secondo piano le differenze e serrare i ranghi in caso di attacco. La presenza cattolica è molto significativa in una dozzina di stati in bilico, quelli che il presidente dovrà aggiudicarsi a novembre per sperare di essere rieletto. In New Jersey il trenta per cento degli elettori è cattolico, in Wisconsin il 30, in Pennsylvania il 28 e in Ohio il 18 per cento. Contrariamente al luogo comune secondo cui i cattolici americani sono principalmente latinos, i dati del Pew Forum dicono che il 65 per cento dei fedeli è bianco appartiene alla parte bassa della middle class, quella fascia che sente più acutamente gli effetti della crisi. In teoria si tratta di un bacino che risponde alle caratteristiche degli elettori indipendenti che saranno importanti a novembre, ma l’attacco monumentale di Obama rischia di far ricompattare il fronte. La Casa Bianca vuole testare l’attaccamento dell’eterogenea popolazione cattolica alle istituzioni che fanno capo alla loro fede, ma sta scoprendo suo malgrado che si tratta di un azzardo che lo potrebbe danneggiare non poco in chiave elettorale. Soprattutto ora che i secolaristi non accecati dall’ideologia marciano a fianco dei vescovi sventolando la Costituzione.

Di Mattia Ferraresi, da " il Foglio"

11 febbraio 2012

Nessuno ucciderà il Papa ma in Vaticano c'è chi gli rovina la vita

Nessuno ucciderà il Papa, ma in Vaticano c’è chi gli rovina la vita

L’ultimo “complotto” svelato dal Fatto, già depositario di altri leak di una segreteria di stato ridotta a groviera

Il cardinale colombiano Darío Castrillón Hoyos “non parla coi giornalisti” dice il suo segretario personale. A parlare, infatti, è l’appunto “confidenziale” che l’ex prefetto del Clero ha inviato il 30 dicembre scorso al Papa e che ieri il Fatto quotidiano ha pubblicato per intero. L’appunto “autentico”, nel senso che effettivamente è arrivato sui tavoli della segreteria di stato vaticana, riguarda la possibilità di un complotto delittuoso per eliminare Benedetto XVI. Un complotto sul quale il cardinale arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo – ex nunzio in Italia – si sarebbe soffermato con dovizia di particolari in un suo recente viaggio a Pechino nel novembre 2011. Qui Romeo avrebbe parlato con alcuni interlocutori cinesi – si dice soprattutto con il cardinale salesiano Joseph Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong, anche se Romeo ha ieri dichiarato: “Non ho detto quelle cose” – della possibilità che Papa Ratzinger muoia entro un anno e della possibilità che il suo successore sia il cardinale italiano Angelo Scola, già patriarca di Venezia e da pochi mesi nuovo arcivescovo di Milano. In realtà, secondo fonti interne, il convincimento di Castrillón secondo cui il Papa rischia la vita nasce da una vicenda ben nota in Vaticano e mai uscita in precedenza: nel 2005 un cittadino austriaco, poi identificato, si avvicinò al Papa nella basilica vaticana con in mano un coltello. Arrivò fino a venti metri da lui. Venne fermato, ma da quel giorno le guardie svizzere e la gendarmeria vaticana fecero salire la soglia di allerta perché, si disse di lì in avanti dentro la curia romana, “il Papa potrebbe morire”. “Potrebbe morire”, esattamente le stesse parole che Romeo avrebbe pronunciato in Cina.

Anche se Castrillón non è nuovo a uscite del genere – nel 2009 spinse perché Papa Ratzinger concedesse la revoca della scomunica al vescovo lefebvriano negazionista sulla Shoah Richard Williamson, convincendo il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone con queste parole: “E’ malato, sta morendo, facciamogli un regalo” –, e anche se Paolo Romeo è noto nei Sacri Palazzi per una certa attitudine a vedere complotti – nel 2006 provò a ordirne lui uno contro il Papa.

Convinto che non spettasse al Pontefice l’elezione del successore del cardinale Camillo Ruini alla guida della Cei, indisse una consultazione epistolare tra tutti i vescovi italiani perché indicassero il successore, col risultato che il Papa riconfermò Ruini per un ulteriore anno –, resta il fatto che di questi giorni la Santa Sede ad altro non assomiglia se non a un groviera dai cui buchi esce, non senza qualcuno che ve lo spinga, di tutto.
L’impressione è che dentro la Santa Sede stia avvenendo un regolamento di conti la cui prima vittima è il Papa. Un regolamento di conti tra chi? Non è un mistero per nessuno che la nuova leva a cui è affidata la governance del Vaticano, Bertone e i suoi uomini, dia fastidio alla vecchia guardia, a coloro che con Giovanni Paolo II avevano in mano la segreteria di stato. Romeo, non a caso, è amico fidato del decano del collegio cardinalizio Angelo Sodano (scrisse Sandro Magister: “Con il cardinale Angelo Sodano segretario di stato Romeo aveva un legame strettissimo. Non erano buoni, invece, i suoi rapporti con il presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini”), fidato tanto quanto il cardinale Agostino Cacciavillan, ex nunzio a Washington, il quale mesi fa si è speso personalmente sconsigliando al Papa l’allontanamento dell’attuale nunzio negli States monsignor Carlo Maria Viganò. E’ quest’ultimo, nei giorni scorsi, a essere assurto all’onore delle cronache per aver accusato Bertone di non aver voluto fare piazza pulita della “corruzione” esistente dentro il Vaticano.

Sodano, Cacciavillan, Viganò, Romeo, sono queste le eminenze ed eccellenze che lavorano nell’ombra contro Bertone lasciando che lettere anonime escano dalle mura leonine verso alcune redazioni di tv e quotidiani? Troppo ardito sintetizzare in questo modo. Filippo Di Giacomo, canonista ed editorialista, esce dalle logiche della battaglia interna e la fa più spiccia: “Il documento Castrillón, come le recenti lettere di Viganò al Papa e a Bertone, scoperchiano un problema che parte da lontano. E’ dal 1985, da quando la parabola del cardinale Agostino Casaroli è iniziata a scemare (Casaroli lasciò l’incarico di segretario di stato nel 1990) che in Vaticano sono state prese a lavorare, soprattutto nelle seconde e terze linee, persone letteralmente raccattate per strada. Nel 1985 divenne presidente della Pontificia accademia ecclesiastica monsignor Justin Francio Rigali, con lui le leve della diplomazia d’oltretevere sono state assunte per cooptazione: più che una scuola, è diventata un ‘clubbino’.

L’internazionalizzazione, poi, ha portato in curia il peggio del Vecchio e Nuovo Mondo, preti che nelle chiese delle loro patrie servivano a poco o niente. Il deficit di management è evidente. Oggi i nodi vengono al pettine. Se certe lettere escono dal Vaticano e finiscono sui giornali è perché dentro vi lavorano preti che, per formazione sacerdotale e preparazione professionale, sono tra i meno qualificati dell’intera chiesa cattolica”.
Secondo il documento Castrillón, tuttavia, c’è di più del semplice deficit di management. Dice Castrillón che “il rapporto tra il Papa e il segretario di stato Bertone sarebbe molto conflittuale” e che “in segreto il Santo Padre si starebbe occupando della sua successione e avrebbe già scelto il cardinale Scola come idoneo candidato, perché più vicino alla sua personalità”. Anche se è difficile sostenere la veridicità di un simile assunto, resta il fatto che è normale per un Pontefice pensare al suo successore e organizzare un collegio cardinalizio che in qualche modo possa seguire le sue aspettative. Come è del tutto logico affermare che la pubblicazione di un documento del genere bruci, più che avvalorare, le possibilità di Scola di salire al soglio di Pietro. Fermo restando il fatto che ogni Conclave è storia a sé.
Tutto, dunque, può accadere. Lucio Brunelli e Alver Metalli in un Vatican thriller uscito di recente e intitolato “Il giorno del giudizio” parlano addirittura di un Conclave al quale, dopo un attentato terroristico che distrugge il Vaticano, partecipano solo tre cardinali: un cinese, un filippino e un colombiano. Il documento pubblicato dal Fatto, in fondo, più che a una vera trama di complotto assomiglia molto a una spy story alla Dan Brown: Romeo, ex nunzio nelle Filippine, rivela l’uccisione del Papa a un cardinale cinese. Ogni cosa viene riferita in Vaticano da un porporato colombiano.

di Paolo Rodari


10 febbraio 2012

Quell'istanza critica della ragione

La struttura propria dell'annuncio trasmesso dai Vangeli, impone a un'ermeneutica autenticamente critica di mantenere saldo il carattere ellittico della ricerca su Gesù nei suoi due fuochi: il contenuto della testimonianza (il Gesù reale) e l'attestarsi nella Scrittura della forma testimoniante ad opera della comunità apostolica.

Questa struttura rispetta la genesi storica della Sacra Scrittura: essa è l'attestarsi del rapporto che la comunità confessante ha con il Testimone fedele (Ap 1,5).
La comunità cristiana, soggetto vitale, di cui gli apostoli, radunati intorno al Sì immacolato di Maria, sono il nucleo costitutivo, in forza della risurrezione, è diventata testimone di quanto è accaduto: i discepoli hanno trasmesso ciò che hanno vissuto, ciò che essi "hanno udito, quello che hanno veduto con i loro occhi, quello che hanno contemplato e che le loro mani toccarono del Verbo della vita" (cf. 1Gv 1,1). La Scrittura pertanto non può essere letta e compresa al margine del soggetto vivo che l'ha generata come forma normativa (ispirata e canonica) di testimonianza

Alla luce della proposta del Gesù di Nazaret di Ratzinger-Benedetto XVI vorrei mettere brevemente in evidenza due implicazioni "culturali".
La prima può essere così formulata: l'ermeneutica biblica proposta da Ratzinger rappresenta una perspicua documentazione dell'incessante richiamo del Papa ad allargare la ragione per rispettarne tutta l'ampiezza. Infatti, riconoscere la necessità di attenersi all'intima connessione del "contenuto della testimonianza" (il Gesù reale) con la "forma testimoniale" (la comunità apostolica confessante) significa mettere in valore l'"istanza critica" della ragione. Questo è congruo con la natura stessa della storia che mai può eludere l'appello della libertà.
La ragione, infatti, è chiamata ad essere aperta al contenuto trasmesso dalla testimonianza, senza pre-giudicarne la possibilità. L'annuncio evangelico favorisce questa apertura quando narra l'ingresso del Mistero nella storia. Invece l'ipotesi della Rivelazione costituisce spesso uno scandalo per la ragione moderna.

Ne dà prova lo stesso Ratzinger a proposito delle testimonianze sulla Risurrezione: «Ma può veramente essere stato così? Possiamo noi – soprattutto in quanto persone moderne – dar credito a testimonianze del genere? Il pensiero 'illuminato' dice di no (…) Nelle testimonianze sulla resurrezione, certo, si parla di qualcosa che non rientra nel mondo della nostra esperienza (…) Ci viene detto piuttosto: esiste un'ulteriore dimensione rispetto a quelle che finora conosciamo. Ciò sta forse in contrasto con la scienza? Può veramente esserci solo ciò che è esistito da sempre? Non può esserci la cosa inaspettata, inimmaginabile, la cosa nuova?» (Gesù di Nazaret II, 274-275). Il cristianesimo annuncia proprio questo novum. Ed è proprio qui che si salva il principio di analogia nella sua verità radicale.

Col novum cristiano un evento è entrato nella storia: «Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento del tempo, ma non come un momento del tempo / Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c'è tempo, e quel momento di tempo diede il significato» (T.S. Eliot).
Un evento passato anticipa l'evento presente e questo sempre ripropone l'evento passato. Ed il novum dell'avvenimento inaspettato che si fa presente allarga la ragione: la realtà è più grande di quanto io potessi immaginare. È ragionevole supporre che il Mistero che fa tutto il reale possa irrompere nella mia storia presente come fece, nel passato, in quella di Maria e Giuseppe, dei pastori, dei Magi e di coloro che seguirono Gesù.

La seconda implicazione culturale si rifà alla qualità propria della storia e, in questo caso, della storia di Gesù. La storia chiede decisione, chiede libertà. Emerge con forza il celebre imperativo di Kierkegaard nel suo Diario: «La verità è che è stato completamente dimenticato l'imperativo cristiano: tu devi. Che il cristianesimo ti è stato annunciato significa che tu devi prendere posizione di fronte a Cristo. Egli, o il fatto che Egli esiste, o il fatto che sia esistito è la decisione di tutta la esistenza». Non c'è storia che possa prescindere dalla decisione del singolo uomo, né uomo che possa pretendere di decidere al posto di un altro. Ogni censura fatta alla storia, è condannata a fallire, proprio perché è una sorta di attentato oggettivo contro la libertà.

Di Angelo Scola

Il cardinale Angelo Scola è arcivescovo di Milano. Questa è una parte dell'intervento che pronuncerà oggi pomeriggio alla Luiss di Roma
al Convegno internazionale «Gesù nostro contemporaneo» promosso dal Comitato per il progetto culturale della Cei. Il dibattito trae spunto dal libro «Gesù di Nazaret. Dall'ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione»
di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.

08 febbraio 2012

Scuola applica alle tredicenni impianti contraccettivi senza dirlo ai genitori. «Inorriditi»

Scuola applica alle tredicenni impianti contraccettivi senza dirlo ai genitori. «Inorriditi»

È successo nella contea di Hampshire, a Southampton, dove una scuola ha installato sotto pelle alle ragazzine l'Implanon, un bastoncino contraccettivo di 4 centimetri. Lo scopo era abbattere il problema delle gravidanze delle giovanissime. Una madre: «Siamo inorriditi, come possono accadere certe cose? Siamo andati troppo oltre».

Di Leone Grotti, tratto da "Tempi"



Nel 2009 la città di Southampton, nel sud dell’Inghilterra, ha guardato i dati sulle gravidanze delle giovanissime e si è preoccupata. Tra il 2001 e il 2003, infatti, 136 ragazze tra i 13 e i 15 anni sono rimaste incinte. Il governo ha così pensato e trovato una soluzione: inserire con una semplice operazione chirurgica sotto la pelle delle braccia delle ragazzine uno strumento contraccettivo. I politici locali hanno incaricato le scuole di portare a termine queste operazioni. Nella contea di Hampshire sono stati piuttosto zelanti e hanno applicato lo strumento a molte tredicenni, senza però avvisare i genitori. I quali sono insorti contro la scuola, il governo e i responsabili della sanità, dopo aver dovuto ispezionare palmo a palmo le braccia delle figlie.

Il metodo contraccettivo utilizzato si chiama Implanon ed è un sottile bastoncino di 4 centimetri che si inserisce sottopelle nei primi cinque giorni del ciclo e libera gradualmente un ormone che blocca l'ovulazione e riesce a fermare l'ascesa degli spermatozoi. La sua efficacia comincia dopo 24 ore dall'innesto e dura circa tre anni. I ricercatori affermano che gli effetti secondari come acne, cefalea e tensione mammaria scompaiono dopo appena sei mesi.

Norman Wells, direttore del Family Education Trust, si è fatto carico di rappresentare la protesta dei genitori e ha denunciato un impianto che ha il solo scopo di incoraggiare la promiscuità dando alle ragazzine un motivo in più per fare sesso prematuro: «Mezzi come questo porteranno inevitabilmente i ragazzi a insistere con le ragazze per fare sesso. Ora potranno dire: “Basta che vai alla clinica della scuola per farti inserire un impianto, così non dovrai preoccuparti di rimanere incinta”. I genitori mandano i loro figli a scuola per ricevere una buona educazione e non perché degli operatori sanitari diano alle ragazzine dei contraccettivi tenendo all’oscuro le famiglie». E aggiunge: «Le autorità sanitarie dovrebbero capire come scoraggiare il sesso prematuro e non incoraggiarlo con strumenti che minacciano i genitori, la legge e i principi morali più elementari».

Una madre di una ragazzina di 13 anni a cui hanno applicato l’impianto si è sfogata con il Daily Telegraph: «Sono davvero arrabbiata. Non solo è moralmente sbagliato ma la scuola non ha neanche consultato il medico di famiglia. Io sono d’accordo che insegnare ai giovani l’educazione sessuale e la contraccezione sia importante, ma qui siamo andati troppo oltre». Il processo è semplice: la scuola consegnava alle ragazze un questionario da riempire sulla loro storia clinica, organizzava loro un colloquio con un esperto sanitario e si passava infine all’applicazione dell’impianto. «Come si può eseguire a scuola una procedura chirurgica, per quanto minima, senza avvisare i genitori?» continua una madre. «In più, quante tredicenni sono al corrente della propria storia clinica? Ho parlato con molti famiglie che mandano i figli alla scuola e sono rimasti inorriditi da quanto successo. E loro ora non sanno neanche se le loro figlie hanno subito lo stesso trattamento».

Mentre i politici locali si sono mossi per verificare la legalità della procedura, i responsabili della sanità l’hanno difesa a spada tratta affermando che le famiglie erano state avvisate nel 2009 quando il servizio è stato lanciato e che spettava alle scuole informarle di nuovo prima di applicare l’impianto alle studenti. In più, hanno tirato fuori dei dati secondo cui le gravidanze sono diminuite del 22%. Un successo, dunque. Un portavoce del servizio sanitario nazionale del distaccamento di Southampton ha dichiarato: «Noi abbiamo il dovere di assicurare che le ragazze giovani possano accedere a programmi adeguati di sicurezza sessuale. Questo le aiuta ad evitare gravidanze indesiderate e a proteggersi da infezioni che si trasmettono sessualmente». E spiega: «Noi offriamo un servizio alle scuole con esperti che informano gli studenti e li aiutano. Inoltre, realizziamo esami per la clamidia, distribuzione di preservativi, test di gravidanza e consigliamo un range di metodi contraccettivi e molto altro. E questo è completamente legale». Tutto legale dunque, ma una madre commenta laconica: «Non riesco neanche a immaginare come possano accadere certe cose».

07 febbraio 2012

La gravidanza? Non e' etica

La gravidanza? Non è etica

Una bioeticista inglese chiede che lo stato finanzi la ricerca sull’utero artificiale

Dopo la batosta subita alla Camera dei Lordssul Welfare Reform Bill al grido di “non ci sono soldi”, il premier inglese David Cameron ha, se non altro, qualche buon argomento per resistere alla furia della bioeticista Anna Smajdor, docente alla University of East Anglia e ricercatrice onoraria in Bioetica dell’Imperial College di Londra. In nome dell’intero genere femminile – che peraltro non risulta gliel’abbia chiesto – la Smajdor sostiene la necessità di dedicare urgentemente fondi pubblici alla ricerca sull’utero artificiale, allo scopo di emancipare le donne da quei relitti ancestrali e “barbari” (testuale), fatti di dolore e oppressione, che si chiamano gravidanza e parto. L’ectogenesi, cioè la gravidanza in un utero artificiale, è dunque la vera e ultimativa frontiera dell’uguaglianza tra i sessi (maschio e femmina in dolce attesa alla pari, tutti e due fuori dalla porta del laboratorio), senza la quale la stessa idea di parità, nello Smajdor pensiero, suona come una beffa.

Non è uno scherzo. A farsi veicolo della richiesta di Anna Smajdor è una rivista universitaria di primo piano, il Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics, che nel suo ultimo numero ospita le sue argomentazioni (“In Defense of Ectogenesis”) in risposta alle critiche a un primo articolo sull’utero artificiale pubblicato dalla ricercatrice nel 2007. I cambiamenti nelle strutture finanziarie e sociali possono marginalmente migliorare le cose, scrive la Smajdor, ma bisogna trovare una migliore soluzione alla gravidanza e al parto, che non sono altro che malattie protratte, qualcosa che assomiglia al morbillo ma che dura assai di più ed è più invalidante. Consideriamo le donne come portatrici di bambini, come marsupi viventi che devono subordinare i loro interessi al bene dei loro figli, o piuttosto dobbiamo ammettere che i nostri valori sociali e il nostro livello di esperienza medica non sono ormai più compatibili con la riproduzione naturale? Può ancora, una società liberale, tollerare che le donne rimangano incinte e partoriscano? No, non può, risponde naturalmente la dottoressa Smajdor, che vanta un curriculum degno del “Mondo Nuovo” immaginato dal suo conterraneo Aldous Huxley: dalla ricerca sugli ibridi uomo animale alla fabbricazione di gameti artificiali per arrivare alla partenogenesi e alla necessità di riconoscere la legittimità del mercato degli ovociti, i suoi interventi di turbobioetica sui maggiori quotidiani inglesi e le sue interviste radiofoniche sulla Bbc fanno a gara con se stessi nel dare corpo teorico e sostegno ideale ai peggiori incubi tecnoscientifici. Autrice nel 2007 del libro “From Ivf to Immortality. Controversy in the Era of Reproductive Technology”, per premio, ché anche nell campo dell’immaginazione horror il talento va compensato, la Smajdor ha ottenuto – per la sua tesi di dottorato e per la realizzazione di un cortometraggio di venti minuti amenamente intitolato “In vitro” – il sostegno di Wellcome Trust, prima fondazione britannica per la ricerca medica e seconda su scala mondiale, dopo quella di Bill e Melinda Gates.

“In vitro”, che si può apprezzare integralmente sul sito della Smajdor, è ambientato nel 2044 e narra la storia di Rachel, una scienziata dalle ambizioni pionieristiche – un po’ come la sua autrice, insomma – che riesce a farsi beffe dei divieti vigenti nell’anno 2010 e crea dal proprio stesso midollo osseo lo sperma artificiale con il quale feconda un proprio ovulo e diventa madre di figlia, Sophia (fai da te estremo, insomma, anche se la gravidanza e il parto sono ancora del genere “barbaro”, non liberale e artificiale). Scoperta e ostracizzata, Rachel si ritira in una casa solitaria su una spiaggia, dove all’inizio del film la vediamo raccogliere rami per il fuoco…

Ma lasciamo la fiction e torniamo alla realtà, o a quella che la dottoressa Smajdor vorrebbe che fosse. E’ lei a chiedere, serissimamente, nel suo saggio sul Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics, “di dare priorità alla ricerca sull’ectogenesi come alternativa alla gravidanza”, mentre suggerisce che, di fronte alla scelta tra una società in cui le donne corrono tutti i rischi della gravidanza e del parto e una società in cui l’utero artificiale sia realizzato, nessuno dovrebbe aver dubbi sui vantaggi della seconda. Solo in quest’ultimo caso gli oneri della riproduzione della specie sarebbero equamente ripartiti tra maschi e femmine. Ectogenesi come “imperativo morale” dunque, in attesa di intentare un’opportuna class action contro il fatto che la Terra è tonda ed è costretta a girare intorno al Sole, e mai viceversa. E a chi le fa notare che molte donne si sentono felici nella gravidanza e nel parto, l’astuta bioeticista spiega che le poverette, allo stato attuale dei fatti, se vogliono un figlio non hanno alternativa, e quella che chiamano felicità è solo fare di necessità virtù. Separiamo le cose, da una parte il bambino e dall’altra il procedimento artificiale, asettico e standardizzato per averlo, e vedrete che non c’è lotta: tutte e tutti in fila nelle factory dove, alimentati da miscele di liquido amniotico sintetico e cullati da dondolamenti, suoni e gorgoglii simulanti le prestazioni dell’obsoleto grembo materno, piccoli pargoli robotizzati crescono, in attesa di essere consegnati ai felici committenti, mamma e papà finalmente alla pari.

“La gravidanza e il parto, lungi dall’essere indispensabili per garantire il legame materno, possono ostacolare la capacità delle donne di prendersi cura dei loro bambini”, teorizza Anna Smajdor. La quale mette a frutto i suoi lati visionari anche in imprese molto glamour, come la collaborazione con l’artista Zoe Papadopulou nel progetto “Reproductive Futures”, sempre finanziato da Wellcome Trust, nel quale le “artificial reproductive technologies” diventano direttamente Art (carino, no?).

E poi, nelle sue acrobazie profetico scientifiche, la Smajdor è in buona compagnia. Dall’altra parte della Manica, il biologo e filosofo Henri Atlan – fino al 2000 nel Comitato di bioetica francese, convinto che anche la clonazione umana diventerà un modo di procreazione come un altro – ha dedicato già da qualche anno all’“Utérus artificiel” un libro omonimo, pubblicato da Seuil nella collana “Librairie du XXI siècle”. Questione di pochi decenni, scrive Atlan, e le Sale di Decantazione di Huxley diventeranno una realtà che segnerà “la possibilità di una evoluzione verso una vera eguaglianza dei sessi”. A mezza strada tra il trattato di biologia e il manifesto filosofico, il saggio di Atlan esalta le meraviglie dell’ectogenesi. Già insigni studiosi, in ogni parte del mondo, ci si stanno applicando. Nell’Università di Cornell, Stati Uniti, l’équipe di Helen Liu ha impiantato un embrione umano appositamente fabbricato in vitro in un abbozzo di utero artificiale, con apporto di sostanze nutrienti e ormonali. L’esperimento è durato sei giorni, ma non è che l’inizio. Certo, “si potranno immaginare delle ragioni sociali” per proibire l’utero artificiale, scrive Atlan, ma “non resisteranno a lungo alle ragioni per consentirlo, perché i motivi per sostituire la gravidanza con uno sviluppo in ambiente artificiale non riguarderanno il più o meno fantasmatico ‘desiderio di figlio’ biologico a ogni costo. Le prime giustificazioni saranno probabilmente mediche, per salvare embrioni abortiti spontaneamente, poi per permettere a donne prive di utero di procreare… Molto presto, si svilupperà la domanda da parte di donne desiderose di procreare risparmiandosi la costrizione di una gravidanza.

Da questo punto di vista, l’utero artificiale deve essere accostato non alla procreazione medicalmente assistita, ma alla pillola contraccettiva e alla liberalizzazione dell’aborto. Non è il ‘diritto al figlio’, più o meno contestabile, che sarà invocato, ma il diritto delle donne a disporre del proprio corpo. Quando sarà possibile procreare evitando la gravidanza, in nome di che ci si potrà opporre alla rivendicazione delle donne a scegliere questo tipo di gestazione?”. L’anziano intellettuale francese, a dire il vero, è più possibilista della sua giovane collega inglese, convintissima che, una volta messo a disposizione l’utero artificiale, nessuna femmina si farà più incastrare in quell’assurda attività consistente nel dare vita a un figlio. Uomo di mondo, il filosofo sa che le donne a volte possono essere bizzarre. Perché negar loro qualche piccola stravaganza? Quelle che lo vorranno, potranno continuare a far figli con il sistema delle loro nonne, un po’ come farsi i maglioni ai ferri invece che andare a comprarseli al Bon Marché o da Harrods. L’importante è che le altre possano emanciparsi. Così “la rivoluzione cominciata in modo apparentemente anodino con la pillola e la lavatrice sarà completata dall’ectogenesi”. Senza offesa per la lavatrice.

di Nicoletta Tiliacos

06 febbraio 2012

Il male all'alba




Cos’ha gettato Patrizio nel Tevere? Un bambino.

Possibile? Suo figlio di neanche due anni. Cosa è questo lancio? Cosa succede? Lo ha buttato dal ponte Mazzini, all’aba in una città deserta e ghiacciata. Patrizio l’ha strappato litigando alle braccia della madre in casa, poi come un fantasma di padre, uno spettro, un demonio – diciamola questa parola – rompendo in lacrime, non sapendo come chiamare quell’uomo solo sul ponte – padre niente, padre gelo – ha gettato nelle acque buie il suo figlio piccolino, l’innocente nell’acqua. L’ha gettato a morire.

Orrore che ci colpisce nel giorno in cui la Chiesa chiama a ricordare la vita. A ricordare che il gesto estremo, buio di Patrizio è il finale compimento in preda a violenza e a cecità di mille e mille gesti, di scelte feriali «contro la vita». Ogni gesto finale, fatale e maledetto contro la vita non è un raptus. Troppo comodo sarebbe per noi che vediamo quell’uomo solo sul ponte, quella donna sola sul lettino, pensare: è un «loro» raptus, una loro scelta, o necessità, insomma un cosa che non poteva che andare così. Chiamare raptus quello di Patrizio è comodo come chiamare «autodeterminazione» il gesto di molte donne che espellono il proprio figlio nel ventre: è non voler guardare tutti i gesti che ci stanno prima. La disperanza, la mala vita, o la mala coscienza, la banalità del male, la lenta sfigurazione di quel che vale davvero. La solitudine che avviene prima e che in quel lancio o espulsione si cristallizza, buia, micidiale.

Sarebbe troppo comodo per noi fare i conti solo con Patrizio sperduto sul ponte, con il suo nome che indicava nobiltà nell’antica Roma e ora indica la definitiva misera perdita di ogni nobiltà. O fare i conti solo con le donne sperdute nei lettini. Con lui che sceglie di lanciare, e loro che scelgono di abortire. Sarebbe tropo comodo liquidare la sua come follia e condannare quelle donne per quel che compiono sul lettino come se non ci fosse stata prima una trafila di gesti compiuti da loro e da altri intorno a loro, e da noi tutti, contro la vita. La giornata che richiama tutti a essere «per» la vita non può quasi nulla contro i gesti finali, fatali e miseri come il lancio di Patrizio. O contro le cancellazioni dei figli ad opera delle madri. Ma può richiamare che ci sono migliaia di gesti prima, di attenzioni prima, di scelte prima. Ci sono possibilità prima. Si può agire e testimoniare su questa mole di scelte spesso impercettibili, sulla materia della vita corrente, feriale, su quella terra impastata da fatiche e dolori che poi erompe in gesti così crudeli da lasciarci storditi.

Non c’è nessun motivo per un gesto così. Per lanciare dal ponte, nessuno per non far nascere un figlio. Nessuno. Ma questo vuoto di motivi finale, il finale sgomento e la finale sconfitta di tutti – del padre, della madre, di noi – nascono da tanti vuoti prima. È in quei vuoti fatti di chiacchiere banali, di disimpegno, di calcoli miseri, di anima avara, di solitudine mascherata che siamo invitati a guardare e a entrare, specie i più giovani, nella giornata per la vita. Gli uomini vuoti non riescono a sopportare la vita. E uomini e donne si svuotano – perdono energie, ideali, chiarezze, perdono cuore – spesso non perché sono malvagi, ma per una lenta perdita del valore di dono della vita.

Il lancio di Patrizio, padre da punire e da abbracciare ora come il più sventurato padre, è iniziato molto prima di questa alba. È iniziato dove possiamo essere tutti. Il piccolo abbracciato dal Tevere – no, non sia stato troppo gelido – sia portato in fretta dal Padre che è foce di tutti i fiumi, di tutti i pianti e le disperazioni. È Lui il nostro patrono glorioso di oggi. Lui il nostro santo.


(di Davide Rondoni- tratto da "Avvenire" del 5\022012)

05 febbraio 2012

Vade retro Obama

Vade retro Obama. La grande guerra dei cattolici degli Stati Uniti contro il presidente “illiberale” e pro choice. L’avevano sostenuto, si sentono traditi

E’ davvero difficile credere che sia successo. E’ stato come ricevere un violento schiaffo in faccia. Eppure le cose stanno così. Barack Obama ha detto in sostanza a tutti noi cattolici: ‘To Hell with you’– ‘Andate all’inferno’. Non so in quale altro modo spiegare la sua assurda decisione”.

Parole del vescovo di Pittsburgh, David Zubik, poche ore fa, molto simili per livore e acredine a quelle pronunciate da Joseph McFadden, vescovo nella piccola Harrisburg, vicino a Philadelphia: “Mai prima d’ora il governo aveva costretto i cattolici e tutte le organizzazioni religiose a comprare a scatola chiusa un prodotto che viola pesantemente la loro coscienza. Certe cose non dovrebbero accadere in una terra come la nostra dove la libera espressione del proprio credo sta al primo posto nel Bill of Rights”. Zubik e McFadden sono due vescovi combattivi. Le loro dichiarazioni, rilanciate da tutti i giornali americani, manifestano un sentimento in queste ore radicato nelle profondità della pancia del cattolicesimo statunitense, senza alcuna eccezione. Il leitmotiv è uno: “Obama ci ha tradito”.

La protesta è divampata nelle scorse ore e il motivo è semplice: il governo, tramite il segretario per la Salute e i servizi umani, Kathleen Sebelius, ha fatto sapere che a partire dall’agosto del 2013 anche le chiese e le associazioni religiose saranno costrette a offrire ai propri dipendenti un’assicurazione sanitaria che contempli i rimborsi per la contraccezione e l’aborto. La direttiva, ha detto Sebelius, “bilancia la libertà religiosa e l’aumento dell’accesso ai servizi di prevenzione”.

Inizialmente i vescovi americani hanno temporeggiato. Prima di prendere qualsiasi iniziativa, infatti, dovevano aspettare l’esito di un’udienza particolare, quella che giovedì scorso Benedetto XVI ha concesso a un gruppo scelto di vescovi degli Stati Uniti, tra i quali l’arcivescovo di Washington, il cardinale Donald W. Wuerl.

Prima dell’incontro al Papa è stato fatto arrivare un dettagliato dossier relativo alla situazione americana, le parole di Sebelius allegate in calce al documento. Ratzinger ha preso visione d’ogni dettaglio e poi, di suo pugno, ha redatto il testo del discorso pronunciato ai vescovi. “E’ come se il Papa parlando ai vescovi di Washington”, dice Sandro Magister, “abbia voluto parlare anche all’Amministrazione americana”.

E, in effetti, il suo cenno all’impedimento dell’obiezione di coscienza “per quanto riguarda la cooperazione a pratiche intrinsecamente cattive” ad altro non sembra alludere se non alla fatidica decisione di Barack Obama, quella che fa obbligo a qualsiasi organizzazione, anche cattolica, di pagare per i propri dipendenti l’assicurazione sanitaria comprensiva di contraccezione e aborto. Le parole del Papa, per i vescovi americani, sono state inequivocabili: “Tornate nel vostro paese e fatevi sentire”, ha sostanzialmente voluto dire loro Benedetto XVI.

E così è stato. E così, ancora in queste ore, continua a essere. Si tratta di “una gravissima offesa alla libertà religiosa” ha scritto in una nota ufficiale la Conferenza episcopale degli Stati Uniti. Parole rilanciate – è questa la caratteristica più significativa della protesta – anche dai mondi più liberal del cattolicesimo americano.

Tra questi c’è anche la rivista progressista e “obamiana” National Catholic Reporter nella quale scrive la stella del vaticanismo americano John Allen, e cioè colui che, quando nel luglio del 2009 Obama andò in Vaticano a incontrare il Papa, parlò con soddisfazione della calda accoglienza concessa da Ratzinger al presidente “che gli europei etichettano come pro choice”.

Oggi il vento è cambiato. Oggi anche per il National Catholic Reporter Obama non è più affidabile. Cosa dice a noi cattolici la decisione annunciata da Sebelius? “Dice che per noi credenti non c’è più spazio in questo grande paese” ha scritto lapidario sulla rivista Michael Sean Winters, docente di Storia della chiesa alla Catholic University of America e autore di “Sinistra all’altare: come i democratici hanno perso i cattolici e come i cattolici possono salvare i democratici”.

Dice: “Sono arrivato a questa amara conclusione nonostante io sia un liberale e un democratico, uno che fino a ieri ha sostenuto il presidente, uno il cui cuore si è scaldato quando ha ascoltato Obama dire all’Università di Notre Dame: ‘Dobbiamo trovare un modo per riconciliare il nostro mondo sempre più piccolo con la sua sempre crescente diversità, diversità di pensiero, diversità di cultura, e diversità di fede. Dobbiamo trovare un modo per vivere insieme come una sola famiglia umana’. Ora io non posso fare altro che accusarla, signor presidente, di aver tradito quel liberalismo filosofico che ha avuto inizio come difesa dei diritti della coscienza. Beninteso: come cattolici, dobbiamo essere onesti e ammettere che, trecento anni fa, la difesa della libertà di coscienza non era ai primi posti nell’agenda della nostra chiesa. E’ vero, ma abbiamo imparato ad abbracciare l’idea che la coercizione della coscienza è una violazione della dignità umana. Questa è una lezione, signor presidente, che lei e anche molti dei vostri liberali colleghi hanno disimparato a quanto pare”.

Cattolici conservatori e cattolici su posizioni più liberal. Mai come questa volta è del tutto compatto il fronte cattolico statunitense contro Obama. Timothy Dolan, arcivescovo di New York, è stato eletto capo della Conferenza episcopale americana non certo perché è un conservatore. Quando da Milwaukee venne promosso a New York vi fu addirittura chi disse che con lui il tempo della chiesa arroccata in difesa dei principii (e contro la modernità), il tempo insomma del suo predecessore, il cardinale Edward Michael Egan, era finito.

Secondo questa vulgata a Dolan mancava la tempra del condottiero. “Uomo da salotto, uomo del sistema, è celebre una sua foto mentre gioca a baseball”, dicevano i suoi detrattori. E ancora: “New York ancora non ha trovato l’erede ideale dell’indimenticato cardinale Francis Joseph Spellman, arcivescovo dal ’39 al ’67”. Eppure è lui in queste ore, lui che i più non giudicano essere un conservatore, a usare le parole più dure contro Obama, le stilettate più intransigenti e decise. “Il presidente ci sta dicendo che abbiamo un anno per capire come violare le nostre coscienze” ha detto pochi giorni fa. “Bene, la sua altro non è che una decisione sconsiderata”. E ancora: “Obama ha disegnato una linea nella sabbia senza precedenti. La chiesa non starà a guardare, i vescovi cattolici si impegnano a collaborare con i loro compatrioti americani per cambiare questa norma ingiusta”.

Il clima è incandescente, soprattutto tenuto conto che la frizione che oramai pare insanabile si sta consumando in piena campagna elettorale. Nel mondo cristiano, non più soltanto tra gli estremisti di destra o in qualche frangia dell’integralismo tradizionalista, l’“Anticristo” è l’epiteto che viene maggiormente cucito addosso a Obama. Ritornano, in queste ore, le accuse che fin dalla campagna elettorale del 2008 l’allora senatore dell’Illinois si sentiva fare: fu il sito conservatore RedState.com che arrivò a vendere tazze e t-shirt sulle quali era stampata una grande “O” sovrastata da due corna demoniache e dalla scritta “L’Anticristo”. Certo, i vescovi oggi non osano arrivare a tanto, ma poco, davvero poco, ci manca.

Anche in Vaticano gli occhi di molti sono puntati su Obama. Dopo l’uscita del Papa di giovedì scorso e un articolo che riprendeva le parole di Dolan contro Obama pubblicato sull’Osservatore Romano, l’impressione è che la Santa Sede cerchi di mantenersi coperta. Anche se, a onor del vero, la Radio vaticana non è stata a guardare. Ha chiamato a commentare la vicenda il giurista Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico all’Università Roma Tre, che ha spiegato come “non soltanto è in gioco la Costituzione americana, ma le carte internazionali dei diritti dell’uomo che hanno avuto e hanno, tra i punti essenziali, il rispetto della libertà di coscienza, che a sua volta, ha una serie di applicazioni. Tutti noi ricordiamo una delle prime forme dell’obiezione di coscienza, il servizio militare, quando il valore della difesa della patria cedeva di fronte all’obiezione di coscienza di non volere prendere le armi. Questo principio, che ha una serie di applicazioni, viene ora quasi messo tra parentesi. Si fa quasi finta che non esista! L’attacco all’obiezione di coscienza si sta verificando su diversi fronti, e io credo che questa erosione si va facendo sempre più pesante”.

I rapporti tra Vaticano e Washington sono delicati e finché non emergerà il nome dello sfidante repubblicano di Obama, senz’altro il low profile nei rapporti con la Casa Bianca sarà l’unica parola d’ordine. Basso profilo a Roma, certo, ma libertà d’espressione negli Stati Uniti. Non a caso, dopo Dolan è sceso in campo un altro cardinale di peso.

Si tratta del nuovo arcivescovo di Los Angeles, l’ispanico José Gómez, che ha pubblicamente invocato una levata di scudi contro una decisione che “viola i principii non negoziabili”. Gómez è uno dei principali interpreti di quella linea episcopale chiamata dei “conservatori creativi” (copyright John Allen) grazie alla quale Benedetto XVI sta rifondando la maggior parte delle diocesi americane. “A conservative bishop for Los Angeles”, titolarono i giornali statunitensi quando ad aprile 2010 monsignor Gómez venne indicato come successore del cardinale Roger Mahony. Una scelta di discontinuità quella del messicano Gómez, un uomo in grande ascesa al quale adesso la Santa Sede lascia libertà di azione contro la decisione “eticamente inaccettabile”, sono sue parole, di Obama.

Lunedì scorso, nel giorno del 39esimo anniversario della Roe vs. Wade (la sentenza del 1973 che ha legalizzato l’aborto), i vescovi hanno chiamato i fedeli in piazza, chiedendo loro di aderire alla Marcia per la vita. Erano migliaia per le strade, guidati dal cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e capo della commissione per le attività pro vita della Conferenza episcopale statunitense.

Ha scritto in proposito il quotidiano della Conferenza episcopale italiana Avvenire: “Per il variegato movimento pro life americano portare in piazza decine di migliaia di persone da tutto il paese per un happening religioso e politico è il segnale di un radicamento popolare che oltrepassa il calibro della manifestazione folkloristica di una minoranza, per quanto motivata”. E ancora: “La grande marcia di Washington ha fornito lo spettacolo di un raduno popolare assai più imponente di quelli mandati in scena dagli ‘indignados’ d’oltreoceano, a Wall Street e altrove, capaci forse di un appeal mediatico superiore ma certamente non in grado quanto il popolo per la vita di dar voce all’alfabeto condiviso di una civiltà”.

La sostanza è una. Il mondo cattolico si è sentito tradito da un presidente che ancora in questi giorni si è detto impegnato a “ridurre il numero degli aborti”. Il “bluff”, così lo chiamano i vescovi, non è stato digerito anche da chi, in passato, aveva difeso la riforma sanitaria. Su tutti basta il nome di suor Carol Keehan, presidente di quella Catholic Health Association che nel 2010 nonostante la richiesta di prudenza espressa dai vescovi del paese, elogiava gli effetti del programma sanitario varato dalla Casa Bianca dicendo che “milioni di americani sono stati aiutati attraverso la copertura medica della quale avevano bisogno”.

I contatti tra Dolan e la Santa Sede sono costanti. Roma spinge i vescovi perché cerchino il più possibile di allargare il fronte del dissenso. Un esempio a cui guardare esiste già, ed è recente. Fu il 20 novembre 2009 che cattolici, protestanti e ortodossi degli Stati Uniti si unirono nel difendere la vita e la famiglia. Avevano dichiaratamente la Casa Bianca nel mirino. Firmarono un appello pubblico che venne intitolato “Manhattan Declaration: A Call of Christian Conscience” – “Dichiarazione di Manhattan. Un appello della coscienza cristiana” a difesa della vita, del matrimonio, della libertà religiosa e dell’obiezione di coscienza. La redazione finale del testo fu affidata al cattolico Robert P. George, professore di Diritto alla Princeton University, e agli evangelici Chuck Colson e Timothy George, quest’ultimo professore della Beeson Divinity School, nella Samford University di Birmingham in Alabama. Tra gli altri firmatari figuravano il metropolita Jonah Paffhausen, primate della chiesa ortodossa in America, l’arciprete Chad Hatfield, del seminario teologico ortodosso di San Vladimiro, il reverendo William Owens, presidente della Coalition of African American Pastors, e due personaggi di spicco della Comunione anglicana: Robert Wm. Duncan, primate della Anglican Church in North America, e Peter J. Akinola, primate della Anglican Church in Nigeria. Obama era impegnatissimo a far passare il piano di riforma dell’assistenza sanitaria negli Stati Uniti. Difendendo la vita umana fin dal concepimento e il diritto all’obiezione di coscienza, l’appello diceva a chiare lettere che i firmatari non si sarebbero fatti “ridurre al silenzio o all’acquiescenza o alla violazione delle nostre coscienze da qualsiasi potere sulla terra, sia esso culturale o politico, indipendentemente dalle conseguenze su noi stessi”. E ancora: “Noi daremo a Cesare ciò che è di Cesare, in tutto e con generosità. Ma in nessuna circostanza noi daremo a Cesare ciò che è di Dio”. Oggi la promessa è stata mantenuta. Contro Obama ci sono ancora molti dei firmatari della Manhattan Declaration. E tanti altri.

E’ ancora Michael Sean Winters a ricordare che stavolta Obama “ha contro tutti”, anche quelli che in passato l’hanno sostenuto. Winters non ricorda soltanto il nome di suor Carol Keehan, ma anche il presidente della Caritas degli Stati Uniti, padre Larry Snyder, che si è detto “profondamente deluso”. E poi padre John Jenkins, presidente dell’Università cattolica di Notre Dame, nell’Indiana. Nel 2009 invitò Obama per ricevere una laurea honoris causa in Giurisprudenza. I cattolici insorsero a motivo dell’“ardente e costante appoggio di Obama a politiche in favore del diritto di aborto”. Jenkins difese Obama e disse che l’invito rappresentava una possibilità di dialogo. Ricorda ora Winters a Obama: “Queste persone hanno cicatrici da mostrare per colpa della loro disponibilità a lavorare con voi, per averla sostenuta nella dura lotta politica. Sono tante. Ma le domando: è questo il modo di trattare persone che sono andate al tappeto per voi?”. di Paolo Rodari, tratto da "il foglio".

03 febbraio 2012

Neanche gli spaccavetrine si meritano la sommarietà con cui trattano CL



Chissà perché quelli di Cl non sono ancora rappresentati con la croce gialla cucita sul petto. Franco Monaco, che è un deputato bindiano intimo del cardinal Martini, sembra augurarselo dalle colonne di Repubblica. L’occasione è ghiotta: il nuovo cardinale e arcivescovo di Milano, Angelo Scola, che, consapevole di «darmi la zappa sui piedi», in un incontro con i giornalisti milanesi si è sentito in dovere di precisare che, pur essendo stato allievo di don Giussani, egli adesso non ha più nulla a che fare con quel movimento. Tanto meno con le eventuali “marachelle” di qualche suo aderente. Questa “presa di distanza” è spiegabile anche per i “segnali” che vengono da compitini sbagliati e ricicciati di cui abbiamo già scritto la settimana scorsa. Compitini, come quello di Sette, la cui attendibilità è già nella black list dei vescovi messi in quota Cl (uno è morto nel 1995) e nei titoli: “Comunione e Liberazione vanta una rete di 36 mila aziende per un giro d’affari di 70 miliardi” (l’articolo poi si corregge – in peggio – addebitando giro e affari alla Compagnia delle Opere, la quale però è un’associazione di imprese: è come scrivere che “Confindustria è una multinazionale”).
Detto ciò, è tutto serio. Serio l’attacco politico a Roberto Formigoni. Serio che L’Espresso legga carte d’inchiesta riguardanti persone con nomi e cognomi come “Cl”, così come negli anni Settenta scriveva che «Cl è pagata dalla Cia». Serio che non si arrivi nemmeno più a ricordare, come rispose don Carrón al Cazzullo inquisitorio, che la responsabilità dei propri atti è personale, e nessuno, neanche la buona stampa pisapiana, dovrebbe permettersi di criminalizzare un intero movimento. E poi, che strane cose accadono: chi sfascia tutto ha diritto a giudizi e giudici comprensivi. Chi costruisce quel poco di buono che resta in Italia, è un paria.


(di Luigi Amicone - tratto da "Tempi")

31 gennaio 2012

Quelli che vogliono tagliare le nostre radici

Vuoi vedere che il male principale del nostro tempo è il richiamo alle radici? Lo ripetono da troppo tempo troppi intellettuali: nelle radici vi sarebbe l’odio per ogni diversità, per la mobilità e l’emancipazione. Nelle radici si nasconderebbe il seme del razzismo e dell’antisemitismo verso l’ebreo errante, l’esodo, il mondo migliore. Le radici sarebbero la figurazione arborea dell’identità, l’ombra legnosa della tradizione, la traduzione in natura dell’ideologia nazionalista e reazionaria. A comporre questo tam tam giunge ora un libretto di Maurizio Bettini, Contro le radici (Il Mulino, pagg. 112, euro 10), lanciato con evidenza dalla Repubblica. Per uno scherzo del destino in questi giorni esce un libretto di pari formato ma di opposta tesi di Roger Scruton, Il bisogno di nazione (Le Lettere, pagg. 98, euro 10) con una prefazione di Francesco Perfetti. Scruton sostiene che le democrazie devono la loro esistenza alla «fedeltà nazionale», cioè a quel legame vivo, culturale, storico e naturale, con le proprie radici, il proprio territorio e alla preferenza per il nostrano. Il nazionalismo, a suo parere, è la patologia della fedeltà nazionale o, come preferisco dire, è l’infiammazione dell’idea di nazione: aveva un senso agli albori del Novecento. Gli avversari di Scruton sono le ideologie universaliste, i poteri e le imprese transnazionali, che egli riassume in una sola espressione: oicofobia, ovvero rifiuto delle eredità e della casa. Di oicofobia soffre Contro le radici di Bettini, nel solco de L’invenzione della tradizione di Eric Hobsbawm, storico che si definisce ancora comunista, e dei numerosi scritti contro l’identità (è il titolo di un testo laterziano dell’antropologo Francesco Remotti). Secondo Bettini l’immagine delle radici sostituisce il ragionamento con una visione. La metafora delle radici permette di far passare per ordine naturale la sottomissione a una tradizione e a un’autorità. Senza il richiamo alle radici, nota Bettini, un «tradizionalista» non riuscirebbe a dirci come sia concretamente costituita la tradizione o l’identità di cui parla. Non si comprende perché la tradizione abbia necessità di una metafora e, invece, il progresso, l’uguaglianza o la libertà sarebbero in grado di spiegarsi da sole. Non c’è bisogno d’illusionismo o di metafore suggestive per spiegare la tradizione. Ci sono molte cose vive e concrete - atti, patrimoni, eredità, esperienze, legami, gesti, simboli e opere - che indicano la tradizione e l’identità. Le radici sono un simbolo riassuntivo di quell’universo e il frutto di un’analogia tra l’uomo e la terra che abita, tra la vita umana e la natura. L’albero - la pianta, le radici - è sempre stata la più frequente figurazione dell’umano, da Omero a Virgilio e Dante, da Goethe a Heidegger; Bettini, studioso della classicità, lo sa bene. Anche la cultura deriva da culto e coltivazione. Ma Bettini reputa il richiamo alle radici la pericolosa premessa all’odio per chi non condivide le nostre radici e all’intolleranza verso chi non vi si riconosce. Insomma il nazionalismo (fino al nazismo) è dietro le radici. Ora, che si possano usare le radici anche come corpo contundente per colpire il prossimo, eliminarlo e perseguitarlo, lo conferma anche la storia. Ma la stessa storia insegna che anche nel nome dei diritti umani, dell’uguaglianza, della libertà, della fratellanza, furono violati quegli stessi principi e fu violentata l’umanità. Quante guerre nel nome della pace... Condannare l’amor patrio perché c’è chi fa guerra in suo nome, è come condannare l’amore perché c’è chi compie delitti in suo nome. Le radici possono degenerare in alibi per i violenti ma creano legami - affettivi, comunitari, vitali e culturali - intensi e veri; nessuno può tradurre automaticamente l’amore per le radici in odio verso chi non le condivide. La violenza nasce dal capovolgere le radici in frutti e dal brandirle come rami, violando la loro nascosta profondità. Peraltro nessuno può imporre l’amore delle radici a chi non ne ha, non le sente o non le riconosce. Questa costrizione produce finzione o violenza. Il dramma della nostra epoca è la perdita delle radici e dei legami, lo spaesamento e la solitudine, la vita labile e precaria che si agita insensata. Se diffidate di Heidegger, leggetevi almeno la Simone Weil di L’énracinement: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima umana... l’essere umano ha una radice... Chi è sradicato sradica. Chi è radicato non sradica». Viceversa lo sradicamento per la Weil «è la più pericolosa delle malattie delle società umane». Parola di Simone Weil, operaista e rivoluzionaria, ebrea e antifascista. Del resto, l’atto dello sradicare evoca in sé una violenza che invece è assente nel radicarsi. È la differenza radicale tra piantare ed espiantare, tra l’essere e la sua negazione.Aver radici vuol dire non esaurire la propria vita nel presente o nell’egoismo di un’esistenza autarchica; vuol dire venire da lontano, avere un passato e dunque un avvenire, coltivare la vita e non solo consumarla, amare le proprie origini e stabilire consonanze a partire da chi ti è più prossimo. È molto più naturale e umano amare prima chi ti è legato in radice - i tuoi famigliari - piuttosto che amare prima chi è estraneo e lontano. Amare il prossimo si fonda sulla legge della prossimità; amare il prossimo a partire da chi ti è più vicino, stabilendo sugli affetti e i legami un’inevitabile gerarchia d’amore. Non potrò mai amare dello stesso amore mia madre o mio figlio e una persona sconosciuta che vive agli antipodi. Sarebbe falso e bugiardo dire il contrario; sarebbe disumano, anche se passa per umanitario.E poi le radici sono anche le matrici di una civiltà, le fonti della cultura classica, le tradizioni civili, letterarie e religiose di un popolo. Perché dovremmo considerare barbarico amare le nostre radici? Solo la neolingua totalitaria può indurci a considerare a rovescio la vita, gli affetti, la realtà e l’amore. Shakespeare: «Oro? Oro giallo, fiammeggiante, prezioso? No, o dèi, non sono un vostro vano adoratore. Radici, chiedo ai limpidi cieli». Amate le vostre radici.
(di Marcello Veneziani)