(di Daniele Uva- tratto da "Il Giornale")
03 ottobre 2011
Guerra a colpi di poster. Il Nord Est si ribella alla bestemmia
28 settembre 2011
Gesù fa ancora scandalo. E la Bbc cancella avanti e dopo Cristo

25 settembre 2011
Figlio con una cicatrice? Meglio abortire. Lo Spectator si ribella
23 settembre 2011
Ma la Chiesa Cattolica non è fatta per le persone per bene
(di Edoardo Rialti-tratto da "Il Foglio")
Il discorso di Benedetto XVI al Reichstag

Signor Presidente del Bundestag!
Signora Cancelliere Federale!
Signora Presidente del Bundesrat!
Signore e Signori Deputati!
È per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il Signor Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per le gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.
Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino.[1] Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi. In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: “Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…”. In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile. Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. Cr. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano.[3] In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell'uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”. Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico.[4] Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso. Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto. Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica, nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo. Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana. Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi consola il fatto che, evidentemente, a 84 anni si sia ancora in grado di pensare qualcosa di ragionevole.) Aveva detto prima che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza – aggiunge – la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte – dice – presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli nota a proposito.[5] Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus? A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico. Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Vi ringrazio per la vostra attenzione.
29 agosto 2011
La vita salvata dalla GMG

La XXVI Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) è riuscita, tra i suoi tanti frutti, a salvare una vita umana, visto che alcuni pellegrini giunti a Madrid per l'evento sono riusciti a dissuadere una coppia dall'aborto. Il 19 agosto scorso, un gruppo di pellegrini pro-vita irlandesi si è messo a pregare davanti alla chiesa di San Martino di Tours, dove si trova un'importante clinica abortista, ha reso noto a ZENIT il Centro Internazionale per la Difesa della Vita Umana (CIDEVIDA). Una coppia è giunta sul posto con l'intenzione di abortire, e i giovani le sono andati incontro spiegando le ragioni per le quali non avrebbero dovuto farlo. Una volontaria di CIDEVIDA, organizzazione che aveva predisposto una mostra nel chiostro di questa centrale chiesa madrilena, si è aggiunta al gruppo e ha messo la coppia in contatto con la fondazione di sostegno, consulenza e aiuto alla donna incinta Red Madre. La rete si è impegnata a prestare sostegno per la nascita del figlio della coppia, che ha così deciso di non abortire. Per il segretario di CIDEVIDA, Juan José Panizo, “il 'regalo' di questa vita è una gioia per tutti”. “Grazie, Benedetto, per essere venuto”, ha dichiarato, lodando anche l'azione dei volontari dell'entità pro-vita e dei pellegrini irlandesi, che dopo quell'incontro sono tornati a pregare in ginocchio sullo stesso luogo. Un gruppo di persone preoccupate per le conseguenze della nuova legge spagnola sull'aborto ha avviato CIDEVIDA nel 2009 per informare sulla realtà dell'aborto e promuovere alternative per aiutare le donne con problemi in una gravidanza. Tra le altre attività, l'ente gestisce a Tordesillas, nella provincia di Valladolid, un'esposizione permanente sull'aborto, un centro di aiuto alle donne in gravidanza e di assistenza alla sindrome post-aborto e un centro documentale. (tratto dall'Agenzia di Informazioni ZENIT)
27 agosto 2011
Quelli che l'ICI e la Chiesa Cattolica
(di Umberto Folena- tratto da "Avvenire")
26 agosto 2011
Il caso di Giulia e del medico che s'è posto il dubbio sulla vita "efficiente"

24 agosto 2011
Il Meeting che fu Giovedì

“La salsa di pomodoro”.
“Primo, perché era un buongustaio. Secondo, perché l’ho fatta in famiglia con nonni e figli, tre generazioni al lavoro insieme. Terzo, perché tramando, rivivendola, una tradizione. Sa come Chesterton chiamava la tradizione?”.
No.
“La democrazia dei morti”.
Questo lo stralunato inizio della conversazione con Ubaldo Casotto sullo scrittore inglese protagonista di due eventi al Meeting di Rimini di quest’anno: la rappresentazione della “Ballata del Cavallo Bianco” e un incontro con Edoardo Rialti, Alison Milbank e, appunto, l’ex vicedirettore del Foglio, fresco autore di un saggio sullo scrittore inglese (G. K. Chesterton, “L’enigma e la chiave”, Lindau).
Scusi, perché democrazia dei morti?
“Chesterton non riusciva a capire perché dovessimo accettare solo il parere del nostro vicino, anche se insensato, e non quello, spesso più saggio non foss’altro perché ha superato la prova del tempo, del nostro bisnonno. Chesterton applicava anche alla democrazia, al dibattito delle idee come alle discussioni quotidiane, la sua categoria filosofica fondamentale: la larghezza. Una democrazia che dà la parola anche a chi non può parlare più è una democrazia più larga, quindi più democratica; per dirla con un termine molto politicamente corretto, più inclusiva”.
Non è un po’ semplice?
“Tutt’altro, la larghezza è la condizione e il risultato della profondità e dell’acume. Quanto più profonda è la buca che scavi a tuo figlio in spiaggia, tanto più larga sarà la sua apertura, quanto più alto è il grattacielo che vuoi costruire, tanto più larga sarà la sua base. E poi, a dar ragione a Chesterton c’è Benedetto XVI”.
La cosa non sorprende, un Papa cattolico che loda uno scrittore cattolico.
“La sintonia va oltre la pura appartenenza, ci sono una diagnosi della malattia della modernità e una indicazione della terapia praticamente identiche. Chesterton dice di aver aderito al cristianesimo, dopo essere passato attraverso la tentazione del pessimismo più radicale e del nichilismo, perché era ‘una filosofia più larga delle altre’; Ratzinger invita e nel contempo sfida l’uomo moderno ad ‘allargare la ragione’. Per Chesterton il cristianesimo dilata la mente, perché l’accettazione del mistero illumina molte realtà di cui altrimenti non ci si saprebbe dare ragione, a partire da se stessi, e potenzia la libertà perché permette di abbracciare uomini e cose, anche realtà altrimenti ripugnanti, è il paradosso della carità”.
Questa la terapia, la diagnosi?
“La diagnosi denuncia la contraddizione insita nella presunzione del pensiero moderno, o almeno nella sua vulgata. Partito con l’ambizione di essere un ‘uomo di larghe vedute’, inalberando il vessillo della libertà di pensiero, l’intellettuale-tipo contemporaneo di Chesterton, e i suoi nipoti odierni, s’è ritrovato stretto nelle sue idee, ingabbiato nelle sue fissazioni, e quindi non libero perché schiavo dei suoi preconcetti. Che sono poi, in ultima istanza, riconducibili a due: l’irreligiosità e il rifiuto del mistero, l’irrealismo e il rifiuto del concetto di limite. Per Chesterton l’uomo razionale è inevitabilmente mistico e l’uomo realista adora il limite. L’alternativa è un’autoreferenzialità che porta alla pazzia”.
Forse esagera.
“Sì, ma c’è del metodo: umorismo e paradosso. Chesterton era persona molto seria, e quindi amava ridere e sorprendere, e non c’è niente di più serio e sorprendente del paradosso. Il paradosso è per lui strumento argomentativo assolutamente razionale, come l’immaginazione, per due motivi: perché è come uno schiaffo che sveglia l’intelligenza assopita nella doxa, nei luoghi comuni, e perché, in fondo, dice la verità”.
E questo cosa c’entra con la pazzia?
“Le ho detto che Chesterton era persona molto seria, perciò non sopportava coloro che si prendono molto sul serio, coloro che credono in se stessi. ‘Quell’uomo crede in se stesso’, non c’è frase oggi più ripetuta e più insensata. ‘Sapete dove vivono tutti coloro che credono in se stessi? – dice in ‘Ortodossia’ – In manicomio’. E si spiega: ‘Il pazzo non è chi ha perduto la ragione, ma chi ha perduto tutto fuor che la ragione’. Ridotta la ragione a pura capacità logica asservita a un’idea scelta come principio universale – sia questa la razza, la classe, la genetica o la convinzione di essere Napoleone – il pazzo in modo monomaniacale ricostruisce il mondo con logica ferrea così che tutto rientri nello schema, con le buone o con le cattive, l’imprevisto e l’irriducibile vengono eliminati, anche violentemente. Resta un problema, la realtà è ostinata, il pazzo cerca di farla entrare tutta nella sua testa ma alla fine ‘la testa scoppia’. Chesterton scriveva queste cose nei primi anni del Novecento, ma vi si può leggere tutto il successivo dramma del secolo breve, la parabola ideologica e storica dei totalitarismi, la loro presunzione razionalista e la dimostrazione della loro inconsistenza ultima di fronte alla natura dell’uomo e delle cose. Dica lei se non vi vede anche la trama di tutto il tentativo di riduzione genetica della persona umana operato dalla tecno-scienza e la segnalazione dell’unico punto culturale di resistenza: la realtà, anche la realtà-uomo, osservata razionalmente. La guarigione dalla pazzia per Chesterton, infatti, non è un ragionamento, ma uno sguardo. A discutere coi pazzi non se ne esce, bisogna aprire loro gli occhi. ‘Una pallottola è perfettamente tonda come il mondo, ma non è il mondo’. Bisogna, appunto, allargare la ragione fino al riconoscimento, ‘mistico’ dice Chesterton, dell’irriducibilità del mondo e dell’uomo alle nostre pur raffinate categorie, fino al ragionevole riconoscimento dell’esistenza del mistero: ‘L’uomo comune ha conservato la sua salute mentale perché è sempre stato mistico’”.
Ma il misticismo non è un’esperienza di superamento del finito, di innalzamento oltre la realtà materiale? Come può Chesterton esaltarlo e insieme predicare l’accettazione del limite?
“Chesterton, fra le altre cose, combatte contro l’imbastardimento del linguaggio. L’esperienza del mistero non è un viaggio nell’oltre simile al sogno: per Chesterton tra il saggio buddista e il santo cristiano la grande differenza iconografica è negli occhi: il primo li ha chiusi, il secondo li tiene ben aperti sul mondo, il primo sogna l’annientamento nel nulla, il secondo vede anche ‘il nulla da cui ogni cosa è sorta’. Quando parla di misticismo Chesterton è tremendamente materialista e intensamente poetico: il limite è il trait d’union tra infinito e finito, la possibilità di tendere al primo vivendo nel secondo. La sua espressione migliore è l’arte: la natura stessa del quadro, dice il critico Chesterton, è data dalla cornice che lo circonda; il suo vertice è la poesia: il poeta ama i limiti del suo verso, sono quelli che gli permettono di essere poeta.Senza limite non c’è arte né esperienza umana, l’amore o è singolare o non è, l’amore universale è una scusa per tradire la moglie o per non aiutare il proprio vicino, san Francesco non amò ‘l’umanità’ ma baciò il lebbroso che incontrò per strada. L’abolizione del limite uccide l’umano, come ben si vede nei tentativi biogenetici che all’utopia della costruzione dell’uomo senza malattie sacrificano vite che non riescono ad amare perché non si fermano a considerarle nella loro singolarità, nella loro irripetibilità misteriosa. Chesterton previde tutto questo, di cui vedeva l’iniziale aspirazione, e ha al riguardo una frase memorabile: ‘Quel ragazzo sarebbe potuto essere un grande’ è la frase che si usa per indicare una mancata promessa; invece, il primo che passa per strada è un grande perché ‘sarebbe potuto non essere’. Il tratto più eversivo rispetto allo scetticismo dominante il suo e il nostro tempo di questo omone inglese è il suo stupore per il mondo, per le cose, l’affermazione assoluta e originaria del primato dell’essere, il capovolgimento dell’assioma del relativismo dominante per cui non esiste una realtà ma solo le sue interpretazioni”.
Molto tomista come convinzione, non proprio una novità.
“Lei dovrebbe leggere il saggio di Chesterton su Tommaso d’Aquino, centocinquanta pagine che Etienne Gilson, il grande medievista francese del secolo scorso, gli invidiava, avrebbe voluto scriverle lui. Chesterton le dettava alla segreteria tra un articolo e l’altro: ‘Ci occupiamo un po’ del nostro Tommy?’. Ma era tomista ben prima di conoscere il d’Aquino. Mi lasci citare un passo dalla sua “Autobiorafia”.
Prego.
“Difesi, contro critici teatrali, il merito teatrale di un dramma più recente, che contiene molte cose buone, il dramma intitolato: ‘Dove non c’è nulla c’è Dio’. Ma io andavo barcollando e gemevo e mi travagliavo con una mia filosofia incipiente e incompiuta, che era quasi il contrario dell’affermazione che dove non c’è nulla c’è Dio. A me la verità si presentava piuttosto in quell’altra forma: dove c’è qualcosa c’è Dio. In filosofia nessuna delle due affermazioni è adeguata, ma sarei rimasto sbigottito se avessi saputo quanto il mio anything (qualcosa) fosse vicino all’Ens di San Tommaso d’Aquino”.
Appunto, una riedizione semplificata di una filosofia medievale.
“Chesterton andrebbe orgoglioso di questa definizione, lui a sé aveva riservato il posto dei mostri che popolano le facciate delle cattedrali gotiche: grottesco, ma certo della bontà della costruzione che lo ospita. Quanto al concetto di ‘riedizione’ – a parte ricordarle il motto giornalistico per cui niente è così inedito come ciò che è già stato scritto – è quello che meglio definisce, per ammissione dello stesso Chesterton, il suo percorso intellettuale. ‘Ortodossia’, il suo capolavoro, scritto ben prima della conversione, è un lungo viaggio della ragione alla ricerca del suo fondamento, ‘che alla fine trovai’ dice Chesterton, ‘solo che mi accorsi che non era mio’, ‘stavo seduto su due millenni di ortodossia’. In questo viaggio sta l’originalità di Chesterton, in questo reimpossessarsi delle ragioni di una fede, di una cultura e di una civiltà, che, dice Benedetto XVI, è il compito di ogni generazione nei confronti del cristianesimo per riscoprirlo come novità e come vita. Al riguardo, ne ‘L’uomo eterno’ c’è una frase che ogni chierico dovrebbe mandare a memoria: il cristianesimo ‘non è una filosofia perché, essendo una visione, non è un modello, ma un quadro; non è di quelle semplificazioni che risolvono ogni cosa in un’astratta spiegazione: che tutto è ricorrente, che tutto è relativo, che tutto è illusorio. Non è un meccanismo ma un racconto; ha le proporzioni che si riscontrano in un quadro o in un racconto; non ha le ripetizioni regolari di un modello o di un meccanismo; ma le rimpiazza con l’essere convincente come un quadro o come un racconto. In altre parole è esattamente, ecco la frase, come la vita. Perché infatti è vita’”.
Come si spiega il revival editoriale di Chesterton a ottant’anni dalla morte?
“Lo stanno ripubblicando tutto, ritraducendolo, fanno convegni internazionali… io negli anni Settanta lo cercavo nelle bancarelle di via Po a Torino e nelle biblioteche dei seminari, non lo si ristampava da trent’anni, un po’ ci si vergognava, forse, di questo convertito inglese troppo poco problematico. Ma chi dice così non ha letto le pagine di Borges e di Lewis su di lui, dove lo si paragona a Kafka e a Poe, né ha letto ‘L’uomo che fu Giovedì’, romanzo in bilico tra il sogno, l’incubo, l’immaginario, il tenebroso. Comunque, c’è una frase dello stesso Chesterton che spiega le sue fortune odierne: ‘Sono grato al cristianesimo perché mi ha permesso di non essere solo un figlio del mio tempo’. La vera schiavitù per un uomo è di essere solo un prodotto del momento storico in cui vive, e un uomo fatto e finito dalle circostanze che lo determinano non può essere interessante per nessuno. Chesterton ci piace, e piacerà in futuro, perché, come dice il teologo Stefano Alberto nella prefazione del mio volumetto, ‘è un uomo vivo che ci aiuta a restare vivi’. Nella bonaccia mortifera che ci circonda Chesterton è come un vento che purifica l’aria”.
A cosa si riferisce?
“A due vicende nelle quali, paradossalmente ma non tanto, il laicismo occidentale e il fondamentalismo islamico si incontrano: l’eutanasia e il cosiddetto martirio. Senta un po’ (e si ricordi che Chesterton sapeva distinguere il peccato dal peccatore, colpiva le idee ma era amico, spesso, dell’ideatore): ‘Nacque la discussione se l’uccidersi fosse una bella cosa… Per me il suicidio (e l’eutanasia come frutto di autodeterminazione ne è la forma più raffinata) non è soltanto un peccato, è il peccato; è il male supremo e assoluto, il rifiuto di prendere interesse all’esistenza, di prestare il giuramento di fedeltà alla vita. L’uomo che uccide un uomo, uccide un uomo; l’uomo che uccide se stesso, uccide tutti gli uomini: per quanto lo riguarda distrugge il mondo… il ladro i diamanti lo appagano; il suicida no… il ladro rende omaggio alle cose che ruba se non al loro proprietario; il suicida insulta tutte le cose per il fatto stesso di non rubarle. Rifiutando di vivere per amore di un fiore, oltraggia tutti i fiori. Non c’è al mondo la più piccola creatura cui egli non irrida con la sua morte’. E ancora: ‘Ho letto una solenne bestialità di qualche libero pensatore: il quale dice che il suicida è qualche cosa come un martire… Un suicida è evidentemente l’opposto di un martire. Il martire è un uomo che si appassiona a qualche cosa che è fuori di lui fino a dimenticare la sua esistenza personale, il suicida è un uomo che tanto poco si cura di tutto quello che c’è fuori di lui che ha bisogno di vedere la fine di ogni cosa. L’uno ha bisogno che qualche cosa cominci; l’altro che tutto finisca. Il martire confessa un estremo vincolo con la vita… muore perché qualche cosa viva. Il suicida… è puro distruttore: spiritualmente distrugge l’universo’. Lei non sente qui l’eco delle terribili parole di Osama bin Laden dopo l’attacco alle Torri gemelle: ‘Perché sappiano che noi amiamo la morte più di quanto loro amano la vita’? Io sì”. (di Mattia Ferraresi- tratto da "Il Foglio" del 23/08/2011)
20 agosto 2011
E l'esistenza diventa una immensa certezza

19 agosto 2011
Il Papa sulla crisi e le nostre responsabilità

"Si conferma nella crisi attuale quanto è accaduto nella precedente grave crisi: la dimensione etica non è una cosa esterna ai problemi economici ma una dimensione interiore e fondamentale. L’economia non funziona solo con regolamentazioni mercantili, ma ha bisogno di una ragione etica per essere in funzione dell’uomo. È ciò che ha affermato Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica sociale: l’uomo deve essere il centro dell’economia e l’economia non si deve misurare secondo il massimo del profitto, ma secondo il bene di tutti e quindi include la responsabilità verso l’altro. L’economia funziona veramente bene solo se funziona in modo umano, nel rispetto dell’altro secondo diverse dimensioni. La prima è la responsabilità per la propria nazione e non solo per se stessi. La seconda è la responsabilità verso il mondo: le nazioni non sono isolate, anche l’Europa non rimane in sé, ma è responsabile per l’intera umanità e deve affrontare i problemi economici in questa chiave di responsabilità anche per le altre parti del mondo, per quei Paesi che hanno sete e fame. La terza dimensione riguarda il futuro, dobbiamo proteggere il nostro pianeta, ma dobbiamo proteggere anche il funzionamento del sistema del lavoro per tutti, per pensare al domani e anche all’oggi. Se i giovani di oggi non trovano prospettive per la loro vita, il nostro oggi è sbagliato ed è male".
17 agosto 2011
La filosofa (im)morale che dà del mafioso a Scola

In realtà non ha senso parlare di «questione morale», se non per scimmiottare, sul piano etico, che riguarda sempre la sfera individuale e la responsabilità personale, le grandi questioni, prima culturali, poi economiche che hanno investito l’Italia postunitaria. Mi riferisco alla sostanziale, e reale, e non risolta, anche sul piano etico, «questione meridionale». Ma, nella disinvoltura di questi tempi, la «morale» torna a essere una «questione», e se ne riparla come nei primi anni Novanta. Così non poteva non incuriosirmi il libro di una studiosa stimata e, credo, anche cattolica, Roberta De Monticelli, sull’argomento, dichiarato, senza rielaborazioni, nel titolo (La questione morale, Raffaello Cortina editore).
La presentazione in quarta di copertina non lascia sorprese, e si allinea con il sentire dominante, motivato da inchieste giudiziarie e giornalistiche. Ma, nel contempo, non sembra indicare novità o situazioni mutate, dai tempi di Giolitti, per motivare nuove e originali riflessioni: «Corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica, la pratica endemica degli scambi di favori, lo sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati, la diffusa mafiosità dei comportamenti». È vero che, sia pure con grande ritardo, la De Monticelli estende la sua denuncia anche al mondo universitario dominato irrimediabilmente dalla corruzione e dai privilegi di casta, soprattutto nell’arruolamento del personale docente attraverso concorsi-beffa che decidono i selezionati «sulla base di accordi tra gruppi di pressione o cordate - quando non addirittura di parentele - e non su quella del merito»; ma non manca di sorprendere - ed è conseguenza dello scriteriato proliferare di cattedre che caratterizza, rispetto alla tradizione accademica, proprio gli anni recenti - che il suo insegnamento all’università, ateneo privato Vita-Salute San Raffaele di Milano, sia non «filosofia teoretica» o «filosofia morale», ma una insensata e inventata, intrinsecamente tautologica, «filosofia della persona».
E a chi, se non alla persona, può essere indirizzata la filosofia? O, per estensione, dovremmo prevedere insegnamenti come «storia delle religioni della persona» o «biologia della persona» o «diritto costituzionale della persona» ed altre, personali, amenità? Ciò che è più grave è che la De Monticelli, pur proclamando, sulla scorta di Ronald Dworkin, «non solo che le persone abbiano diritti, ma che tra questi vi sia un diritto fondamentale, addirittura assiomatico..., il diritto all’eguale considerazione e rispetto», non rispetta affatto e anzi mostra di disprezzare profondamente, fino al punto, come suo caratteristico vezzo, di non citarne i nomi se non in nota, Angelo Scola, già Patriarca di Venezia e ora arcivescovo di Milano, e Renato Farina, deputato della Repubblica (per lei, credo, indegnamente). Per loro non c’è né rispetto né considerazione, solo disprezzo, in evidente contrasto con la condanna, da parte della De Monticelli, della politica come «luogo del conflitto fra nemici, cioè della continuazione della guerra con altri mezzi»... in «una barbarica semplificazione, di sapore per di più mafioso: amico-nemico». Proprio quella che applica lei denunciando un intervento di Angelo Scola, sul direttore di Famiglia Cristiana Antonio Sciortino, come «vagamente mafioso».
E che vuol dire «vagamente» mafioso? Non contenta dell’insinuazione la De Monticelli denuncia «l’orgogliosa spregiudicatezza» del porporato «col piglio di un habitué al tavolo del negoziato eterno fra il diavolo e il buon Dio». Fino a concludere, con crescente disgusto: «E il brivido sfuma in un vago senso di nausea. Il cardinale è passato a tessere pubblicamente l’elogio di un oscuro personaggio, oscuro in tutti i sensi». Si tratta di Renato Farina, detto dalla De Monticelli «tal» e «un tizio noto alle polizie come “agente Betulla” radiato dall’Ordine dei giornalisti per tradimento della funzione giornalistica, dopo che l’aveva per anni - in veste di vicedirettore di un quotidiano, e in cambio di lauti vantaggi personali - prostituita al servizio di operazioni inconfessabili di polizia politica».
E dunque, in nome del proclamato «diritto all’eguale considerazione e rispetto», un cardinale viene considerato «vagamente mafioso» e un giornalista e deputato viene imprudentemente e sbrigativamente ritenuto indegno, senza avere la pazienza di attendere la sentenza della Cassazione (l’ammirata magistratura), che il trenta giugno di quest’anno ha annullato la radiazione dall’Ordine dei giornalisti al «tizio» che non è mai stato condannato nonostante la calunniosa insinuazione di aver prostituito la sua funzione per «lauti vantaggi personali» (mentre è stato acclarato che ha agito «disinteressatamente... ed esponendosi anche a gravi rischi»). Non è un po’ troppo per chi insegna «filosofia della persona»? O non è una «questione morale» accusare di mafiosità e di prostituzione «persone» che si disistimano, con quella «coscienza sprezzante» e quella «cultura del sospetto» che si denunciano?
La De Monticelli riserva per sé quella «profondità del disprezzo» che denuncia per altri, con il paradosso di affermare (ma non per sé): «Il sapere che deprezza è un falso sapere». Questione morale: come è toccato ad alcuni innocenti e come lei oggi azzarda con Scola e Farina, se qualcuno l’accusasse di mafiosità (sia pur vaga) e di prostituire il suo pensiero (per esempio, agli idoli del nostro tempo, irrispettosi della persona e della verità), come reagirebbe?
(di Vittorio Sgarbi- tratto da "Il Giornale")
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