03 ottobre 2011

Guerra a colpi di poster. Il Nord Est si ribella alla bestemmia

Il terzo comandamento lo dice forte e chiaro: «Non pronunciare il nome di Dio invano». E qualcuno, proprio laddove gli epiteti rivolti all’Aldilà sono il pane quotidiano, il monito l’ha preso sul serio. Prefiggendosi un obiettivo nobile quanto irto di ostacoli: eliminare le bestemmie dal linguaggio quotidiano. Siamo nel Triveneto, dove per tradizione a Dio e alla Madonna ci si rivolge non solo per pregare. In tre paesi, nelle province di Padova, Venezia e Pordenone, la guerra alla bestemmia è ufficialmente cominciata. E ha assunto le forme più originali. A San Donà di Piave (Venezia) nel campo di calcio del Mussetta 2010 - che milita nel campionato di terza categoria - è apparsa una gigantografia, alta ben due metri, di Santa Maria Assunta. L’immagine è stata affissa sulla rete a bordo campo, nello stadio Lillo Burigotto, come monito per tutti i presenti: la Beata Vergine va rispettata sempre, anche quando gli avversari fanno gol. L’idea è dei dirigenti della piccola società, che hanno cominciato la loro originale battaglia per sensibilizzare pubblico e calciatori a «una partita corretta e senza bestemmie». Poco distante, a Montegrotto (Padova), il sindaco Massimo Bordin il campo di calcio ha deciso addirittura di chiuderlo per sempre. Troppe le bestemmie che, anno dopo anno, sono arrivate alle orecchie del parroco e dei fedeli riuniti nella vicina chiesa di Mezzavia. Così il primo cittadino, di fronte all’ennesima lamentela, ha «scomunicato» il piccolo stadio. Al suo posto sorgerà la nuova piazza del paese - con tanto di fontana o monumento - mentre i calciatori dovranno traslocare nel nuovo campo comunale in costruzione vicino al Palasport. A Erto (Pordenone) - in piena valle del Vajont - lo sport non c’entra invece nulla. Questa volta a far discutere sono decine di volantini che, in una sola notte, hanno tappezzato i muri della cittadina. Recitano frasi come «Ragazzi: non bestemmiamo più. Da oggi glorifichiamo Dio», oppure «Io sono il Signore, colui che ti guarisce». E ancora: «Ragazzi: non bestemmiamo più. La bestemmia ci allontana da Dio e ci avvicina a Satana. Dio piange, Satana si diverte e ride». I cartelli sono stati appesi ovunque: sui muri di palazzi e monumenti, sulle porte delle case, sui balconi dei condomini. Il sindaco e i cittadini però non c’entrano nulla, questa volta. Da queste parti la bestemmia è nel dna. L’obiettivo ecumenico è di un passante, che di fronte all’ennesimo epiteto rivolto a Gesù non ce l’ha fatta più. Prima è entrato in un bar e rivolgendosi ai giovani presenti ha detto: «Se il Vajont è venuto giù è colpa delle vostre bestemmie». Poi, armato di fogli e pennarello, ha tappezzato la città. «L’invito è anche positivo - commenta il sindaco, Luciano Pezzin - ma di sicuro i miei cittadini non smetteranno di bestemmiare per un paio di volantini». E, in effetti, i residenti di Erto hanno pensato più che altro a uno scherzo. «La reazione è stata di ilarità - continua Pezzin. La gente guardava i volantini e sorrideva. È impossibile immaginare che basteranno questi pezzi di carta per eliminare le bestemmie dal linguaggio comune. Qui da noi sono concepite come intercalare. È un’abitudine troppo radicata, soprattutto fra gli anziani». E così l’educatore di passaggio viene definito comunemente «un po’ fuori di testa», mentre i suoi volantini ancora resistono attaccati alle pareti. «Io non mi permetterò mai di toglierli - conclude il primo cittadino -, in se stesso l’invito è più che positivo. Ho però i miei dubbi che basterà a cambiare per sempre le abitudini di questi luoghi».


(di Daniele Uva- tratto da "Il Giornale")

28 settembre 2011

Gesù fa ancora scandalo. E la Bbc cancella avanti e dopo Cristo




La notizia è destinata a fare il giro del mondo e ad alimentare la compagnia di giro dei commentatori occidentali e non solo occidentali: i tutori dell'etica della Bbc hanno proposto di abolire le tradizionali e classiche espressioni «Avanti Cristo» (A. C.) e «Dopo Cristo» (D. C.), sostituendole con la dizione più «neutrale» «Common Era» o «Era Volgare». Un Vescovo anglicano di origini pachistane si è molto agitato e il sindaco di Londra ha definito l'iniziativa «puerile, assurda e senza spina dorsale». Bene, siamo alle solite: la dialettica culturale con le consuete propaggini ideologiche. Le quali, però, non toccano in alcun modo le radici della questione, che sono sostanzialmente due. La prima riguarda lo scandalo di Cristo. «Oportet ut scandala eveniant», recita il Vangelo. È necessario che avvengano scandali e il primo scandalo è proprio la persona di Gesù Cristo. Perché è il Dio crocifisso, dice sant'Agostino, che va a morire sulla croce come un brigante e soffre per salvare tutti, inclusi coloro che oggi vogliono eliminarlo perfino dalla nomenclatura storico-culturale. Skàndalon, in greco, vuol dire pietra d'inciampo. E i notabili «etici» della Bbc, insieme ai benpensanti cristiani - e l'accostamento non sembri equivoco - inciampano sulla stessa pietra: Cristo. Benedetto XVI richiama da tempo l'eclissi di Dio nella civiltà occidentale. Una civiltà priva di fondamento prima di tutto ontologici e solo in secondo luogo etici. Un mondo che non riconosce altro che il narcisismo di ritorno di cui ha scritto magistralmente il filosofo americano Lasch. Una realtà geo-culturale fondata sull'assenza di Cristo. Eppure così retoricamente invischiata con i cascami nominalistici dell'«Avanti Cristo» e del «Dopo Cristo»: è l'essenza di Cristo, dopo il dominio dell'assenza di Cristo. La decisione della Bbc toglie il velo ad un'ipocrisia rendendo, così, oggettiva la querelle decisiva della nostra civiltà: Cristo. Appunto: gli scandali sono necessari. Ma vi è un altro punto da sottolineare: la realtà della Tradizione come nucleo vivente di una storia comune. È ancora ciò la Tradizione cristiana? Oppure la nostra figura di modernità, che una filosofa geniale come Chantal Delsol ha definito «modernità tardiva», non riesce neanche più a sopportare la presenza di Cristo? Il concetto di Tradizione è denso ed avvincente nelle sue declinazioni religiose ed antropologiche. Infatti, esso denota innanzitutto il tràdere, il comunicare di padre in figlio la verità accolta come un dono e, nel contempo, conquistata. Il cristianesimo, in questo modo, si fa cristianità, ovvero cultura e civiltà reale, materiale e matericamente inscritta nel corpo, magari malato, di un popolo, di molti popoli. In questo senso, si può stigmatizzare la scelta culturale (ideologica?) della Bbc e perfino combattere contro una certa militanza anti-cristiana così diffusa nel mondo anglosassone. Ma il Papa, nella sua visita nel Regno Unito, ha usato un altro metodo: è partito dal valore della civiltà anglosassone, in tutta la sua estensione storica e laica, per domandare all'Inghilterra contemporanea: chi sei, oggi? Cosa rimane di tutto ciò? È un interrogativo bruciante che non può essere censurato e che scelte come quelle della Bbc fanno paradossalmente riemergere. (di Raffaele Iannuzzi-tratto da "Il Tempo")

25 settembre 2011

Figlio con una cicatrice? Meglio abortire. Lo Spectator si ribella

Il settimanale inglese The Spectator ha dedicato la sua ultima copertina al dibattito che si è concluso in questi giorni sulla legge che regola l'aborto nel Regno Unito, dove è stato bocciato un emendamento che avrebbe arginato le interruzioni di gravidanza. L'articolo del settimanale, firmato da Mary Wakefield, colpisce perché pone il livello della discussione su un piano totalmente differente da quello che ha spaccato anche il mondo pro life anglosassone durante il corso della discussione in aula. La disputa sulla legge si è aperta nuovamente a inizio settembre, dopo che Nadine Dorries e Frank Field hanno portato in Parlamento un emendamento che cercava di separare i consultori dalle cliniche che effettuano gli aborti. Infatti, è difficile che cliniche abortive offrano consigli e aiuti alla donna in favore della vita, come richiesto dalla legge. Parte del mondo contrario all'aborto, però, temeva che toccando la norma, la situazione degenerasse: «Sappiamo che la politica è l'arte del possibile» ha scritto dopo il voto Josephine Quintavalle, una fra le colonne dell'universo pro life inglese. Perciò «non abbiamo votato l'emendamento, perché mira a togliere i fondi alle cliniche abortive sulla base del fatto che potrebbero influenzare la decisione della donna. Così, si rischia che i consultori pro life siano attaccati con le stesse motivazioni». Quintavalle sostiene che bisognerebbe invece lottare «perché la legge sia rispettata dalle cliniche, in modo che facciano una consulenza seria e che parlino alla donna dei rischi dell'aborto (...) e delle alternative esistenti». Ci si chiede se sia possibile, quando è la stessa Quintavalle a sottolineare che «chi lavora in quelle cliniche non è solo economicamente, ma anche ideologicamente motivato» a far scegliere la strada dell'aborto alle donne. Lo Spectator, invece, salta a piè pari la discussione sulle tattiche o i compromessi da adottare in merito e titola: “Who cares about abortion?”, mettendo nero su bianco l'ecografia di un bambino spezzata in due. Il problema, scrive la giornalista Wakefield, non è il diritto della donna, che può sempre dire «come si è sentito in aula: “Chi è il padrone del mio utero? Non voglio che sia il primo ministro"», che inizialmente aveva sostenuto l'emendamento. Il punto è invece il bambino: «Ha una vita autonoma – scrive la Wakefield – non è parte del tuo utero. Bisogna quindi chiedersi se non abbia gli stessi diritti di quelli che pensano che si possa buttare via: chi è il suo padrone?». Nessuno in questi giorni si è mai interrogato sull'essere del bambino. Anzi, da tempo la discussione, da una parte e dall'altra, è sempre più incentrata sulla madre. Perché ormai nel dibattito è sottinteso un presupposto intoccabile, che sta anche alla base della legge: il diritto della donna viene prima di quello del nascituro. Oggi, scrive la Wakefield, «ci ritroviamo con una gravidanza su cinque che termina con l'aborto, con 189. 574 feti uccisi in un anno – di cui sette con il labbro leporino e otto, che ormai avevano passato la 24 settimana, con piede equino». Così, sottolinea la giornalista, «si è arrivati a un punto estremo», in cui i pro choice non hanno più remore ad argomentare «che l'aborto non è un male a volte necessario, come dicevano prima, bensì una cosa giusta e bella». L'aborto, sottolinea lo Spectator, in questi mesi, «per la prima volta è stato celebrato in Parlamento come un successo. (...) “Come si fa a dire che gli aborti sono troppi?”, si sentiva dire, “chi lo sostiene è un bigotto, un misogino”». Wakefield descrive amareggiata come il diritto di decidere della vita di un altro, ritenuta meno valida, sia degenerato nella sua opzione eugenetica ormai dichiaratamente espressa: «C'è dell'orribile tragicomico in una società in cui solo pochi mettono al mondo figli e in tanti li “buttano via”, anche solo per una piccola membrana piegata male. Perché, anche la si correggesse con un'operazione, al piccolo potrebbe sempre rimanere la cicatrice». (di Benedetta Frigerio- tratto dal settimanale "Tempi")

23 settembre 2011

Ma la Chiesa Cattolica non è fatta per le persone per bene

T. S. Eliot non si sarebbe stupito: “Il mondo gira e il mondo cambia / ma una cosa non cambia” quando si ha a che fare con “l’uomo di eccellenti intenzioni”: i profeti a corrente alterna (quelli che vorrebbero cacciare solo certi mercanti dal tempio) si trovano a disagio con una istituzione come la chiesa cattolica che, per dirla sempre con Eliot, “è gentile dove sarebbero duri, e dura dove essi / vorrebbero essere teneri” e che, fondata da Uno che difendeva le adultere dalle sassate e andava a cena coi mafiosi ed evasori fiscali, non scomunica i peccatori, ma eventualmente gli eretici, non quelli che agiscono male, ma l’orgoglio intellettuale di chi crede di non aver bisogno di perdono, e poter così “distribuire morte e giudizi”, rischio da cui ammoniva il Gandalf di J.R.R. Tolkien. Anche G.K. Chesterton per tutta la vita si sarebbe identificato col personaggio del ladro Flambeau, che solo Padre Brown ha davvero compreso e convinto a cambiar vita, senza peraltro chiedergli mai di consegnarsi alla polizia: “Non ho forse ascoltato i sermoni dei giusti e visto il freddo sguardo delle persone rispettabili? Non sono stato forse catechizzato con quello stile elevato e distaccato, non mi è stato forse chiesto come fosse possibile per qualcuno cadere così in basso? Credete che tutto ciò che mi hanno fatto non mi abbia causato altro che riso? Solo il mio amico qui mi disse esattamente perché rubavo, e da allora non l’ho più fatto.” Gli uomini rispettabili ne avrebbero di libri simili da censurare, perché la grande arte cristiana scotta come una patata bollente nelle mani gelide di chi vorrebbe una chiesa pronta a epurare i figlioli prodighi e benedire la decapitazione dell’immondo di turno. Difficile per loro andare d’accordo con un Dante che racconta un Manfredi dai “peccati orribili” che sorride per sempre al sicuro in Purgatorio; difficile andare d’accordo con Shakespeare, col suo Falstaff dai vizi debordanti e la disordinata allegria ma che muore da cristiano semplicemente gridando “Dio”; difficile andare d’accordo col vescovo dei “Miserabili” di Victor Hugo che, lungi dal consegnare il ladro Valjean ai gendarmi, ne raddoppia la refurtiva, e senza chiedergli di pagarci le tasse; difficile andare d’accordo con Manzoni, che fa ammonire Don Rodrigo da fra’ Cristoforo ma non fa passare neppure per la mente al cardinal Borromeo di comandare all’Innominato di consegnarsi alla “giustizia così facile” degli uomini; difficile andare d’accordo con Joseph Roth e il suo “santo bevitore”: non un ex alcolizzato che diventa santo, ma proprio un santo alcolizzato. Oscar Wilde, che avrebbe amaramente conosciuto quali abissi di violenza e ipocrisia siano in attesa quando si confondono i reati coi peccati, disse che la chiesa cattolica è il luogo dei santi e dei peccatori, mentre le persone perbene si potevano accontentare della chiesa anglicana. Purtroppo per Wilde le persone perbene di ieri e di oggi hanno la brutta tendenza ad accontentarsi della chiesa puritana della “Lettera scarlatta”, che imporrebbe ai reprobi l’isolamento e la marchiatura pubblica delle colpe. Ecco finalmente un libro che descrive una società capace di andare incontro all’accorato appello di Barbara Spinelli: peccato che Hawthorne l’avesse scritto per denunciare un mondo di orrore, delazioni, falsità, e che per la chiesa siano i puritani gli eretici da scomunicare.

(di Edoardo Rialti-tratto da "Il Foglio")

Il discorso di Benedetto XVI al Reichstag



Illustre Signor Presidente Federale!
Signor Presidente del Bundestag!
Signora Cancelliere Federale!
Signora Presidente del
Bundesrat!
Signore e Signori Deputati!



È per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il Signor Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per le gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.


Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino.[1] Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi. In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: “Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…”. In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile. Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. Cr. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano.[3] In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell'uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”. Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico.[4] Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso. Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto. Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica, nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo. Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana. Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi consola il fatto che, evidentemente, a 84 anni si sia ancora in grado di pensare qualcosa di ragionevole.) Aveva detto prima che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza – aggiunge – la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte – dice – presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli nota a proposito.[5] Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus? A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico. Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Vi ringrazio per la vostra attenzione.

29 agosto 2011

La vita salvata dalla GMG


La XXVI Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) è riuscita, tra i suoi tanti frutti, a salvare una vita umana, visto che alcuni pellegrini giunti a Madrid per l'evento sono riusciti a dissuadere una coppia dall'aborto. Il 19 agosto scorso, un gruppo di pellegrini pro-vita irlandesi si è messo a pregare davanti alla chiesa di San Martino di Tours, dove si trova un'importante clinica abortista, ha reso noto a ZENIT il Centro Internazionale per la Difesa della Vita Umana (CIDEVIDA). Una coppia è giunta sul posto con l'intenzione di abortire, e i giovani le sono andati incontro spiegando le ragioni per le quali non avrebbero dovuto farlo. Una volontaria di CIDEVIDA, organizzazione che aveva predisposto una mostra nel chiostro di questa centrale chiesa madrilena, si è aggiunta al gruppo e ha messo la coppia in contatto con la fondazione di sostegno, consulenza e aiuto alla donna incinta Red Madre. La rete si è impegnata a prestare sostegno per la nascita del figlio della coppia, che ha così deciso di non abortire. Per il segretario di CIDEVIDA, Juan José Panizo, “il 'regalo' di questa vita è una gioia per tutti”. “Grazie, Benedetto, per essere venuto”, ha dichiarato, lodando anche l'azione dei volontari dell'entità pro-vita e dei pellegrini irlandesi, che dopo quell'incontro sono tornati a pregare in ginocchio sullo stesso luogo. Un gruppo di persone preoccupate per le conseguenze della nuova legge spagnola sull'aborto ha avviato CIDEVIDA nel 2009 per informare sulla realtà dell'aborto e promuovere alternative per aiutare le donne con problemi in una gravidanza. Tra le altre attività, l'ente gestisce a Tordesillas, nella provincia di Valladolid, un'esposizione permanente sull'aborto, un centro di aiuto alle donne in gravidanza e di assistenza alla sindrome post-aborto e un centro documentale. (tratto dall'Agenzia di Informazioni ZENIT)

27 agosto 2011

Quelli che l'ICI e la Chiesa Cattolica

Quelli che non sanno che la Chiesa paga già l’Ici, per gli immobili dati in affitto e le strutture alberghiere. Quelli che lo sanno benissimo ma fingono di non saperlo. Quelli che vorrebbero far pagare l’Ici a chi ancora non la paga, ossia alle mense Caritas, agli oratori, alle sacrestie, ai monasteri… perché sono soltanto loro che ancora non pagano. Quelli che sul loro giornalone scrivono in 500mila copie che Chiaravalle, alle porte di Milano, è un resort cinque stelle a 300 euro a botta. Quelli che ci credono. Quelli che sanno bene che Chiaravalle è un normale monastero che per una celletta della foresteria e tre pasti frugali al dì chiede un’offerta di 30 euro, ma se uno non li ha, pazienza. Quelli che quando Avvenire smaschera la fandonia si guardano bene dal pubblicare una rettifica, così i loro lettori continuano a credere che Chiaravalle sia un resort, la Chiesa ci lucri e s’indignano. Quelli che sul loro giornalone da 500 mila copie denunciano con veemenza che la Chiesa italiana nasconde il rendiconto dell’8 per mille. Quelli che, e sono gli stessi, da 20 anni pubblicano il rendiconto in una loro pagina acquistata dalla Chiesa, incassano i soldi e, una volta smascherati, si guardano bene dal correggere la fandonia. Quelli che la Chiesa possiede il 30 per cento di tutti gli immobili in tutta Italia. Quelli che Luciano Moggi è il testimonial della Chiesa italiana. Quelli che revochiamo per cinque anni il Concordato. Quelli che sanno bene che 8 per mille, esenzione dall’Ici e dimezzamento dell’Ires non sono privilegi, ma lo scrivono ugualmente. Quelli che sanno bene che all’8 per mille concorrono altre sette confessioni religiose diverse e pure lo Stato, ma evitano di ricordarlo, come se concorresse soltanto la Chiesa cattolica, che riceve quanto i contribuenti italiani le attribuiscono, e se i contribuenti non firmassero più per lei non riceverebbe niente, quindi non ha alcuna garanzia. Quelli che sanno bene che l’esenzione Ici per gli immobili riguarda tutti, assolutamente tutti gli enti senza scopo di lucro, purché utilizzati per alcune attività di rilevanza sociale, non solo quelli religiosi. Quelli che sanno bene che la riduzione del 50 per cento sull’imposta sul reddito delle società (Ires) si applica agli enti religiosi in quanto questi sono equiparati agli enti aventi fine di beneficenza e di istruzione, e la riduzione non vale per le attività commerciali. Quelli che sanno tutto questo ma fanno il pesce in barile e lasciano che il popolo italiano se la beva. Quelli che su Facebook scrivono che il 97 per cento della quota 8 per mille dello Stato torna alla Chiesa cattolica. Quelli che più la spari grossa più sei credibile. Quelli che, non appena il cardinale Bagnasco denuncia la piaga dell’evasione fiscale, attaccano con virulenza la Chiesa cattolica. Quelli che quando scoppia la crisi e la gente mugugna e si agita, cercano un nemico, un mostro, il colpevole del disagio e lo additano alla rabbia popolare. Quelli che creano il 'mostro' verso cui indirizzare la rabbia popolare per poter governare il malcontento, come fanno tutte le dittature. Quelli che tante panzane messe in fila e ripetute ossessivamente diventano una verità. E infine quelli che, e siamo noi, troppe coincidenze non sono una coincidenza.

(di Umberto Folena- tratto da "Avvenire")

26 agosto 2011

Il caso di Giulia e del medico che s'è posto il dubbio sulla vita "efficiente"

Rimini. Il medico diceva che Giulia aveva due possibilità, la migliore delle quali era lo stato vegetativo. La microcefalia e la polimicrogiria diagnosticate durante la gravidanza potevano più facilmente portare alla morte ma certamente – questo diceva la scienza – si trattava di condizioni incompatibili con una vita degna. Per risolvere il problema alla radice il dottore ha programmato un’operazione abortiva resa più rassicurante da quell’aggettivo, “terapeutico”, che sempre occhieggia dove c’è qualcosa d’indeterminato e indecidibile; bisognava intervenire in fretta per curare il male che Mariangela si portava dentro e per estirpare quello si trattava di accettare un mortifero effetto collaterale di cui tutti si sarebbero dimenticati in fretta. Del resto, anche se fosse sopravvissuta, Giulia non avrebbe mai potuto essere felice in quelle drammatiche condizioni. “E’ bastato uno sguardo con Riccardo per decidere di portare avanti la gravidanza – ha raccontato ieri Mariangela davanti al pubblico del Meeting di Rimini – anche se eravamo coscienti che non potevamo controllare quello che sarebbe successo”. Nel ragionamento sulla “certezza”, tema della kermesse di Cl, quella di Mariangela e Riccardo è apparentemente una storia spuria, fatta di incognite e angoli morti piuttosto che di ferree convinzioni che resistono ai marosi dell’esistenza. Ma il dipanarsi psicologico della trama viene interrotto da un’alterità con due occhi azzurri in cui ci si può specchiare. Giulia nasce, vive, cresce. Dopo il primo mese vengono fuori le difficoltà (il medico di certo non mentiva) e la bimba non si sviluppa come dovrebbe, rimane indietro, non si muove. Tornano dal medico che aveva suggerito la terapeutica cancellazione di quell’essere che non meritava di essere: “Vi posso consigliare un buono psicologo” è il migliore dei suggerimenti che è in grado di produrre. Come a dire: io ve l’avevo detto. Giulia però c’è, ed è sull’inoppugnabile dato di realtà – una realtà viva, anche se particolarmente bisognosa d’aiuto – che i genitori edificano quella vitale certezza che ha cambiato tutto. Mariangela e Riccardo lavorano al Parlamento europeo a Bruxelles; non senza difficoltà – hanno raccontato – si sono decisi a chiedere aiuto agli amici. La parrocchia, i colleghi, i genitori dei compagni di scuola delle altre due figlie, gli amici degli amici: il semplice fatto che Giulia esistesse ha mobilitato un popolo che sembrava aspettare l’irrompere della vita per rinascere a sua volta. Ora Giulia ha otto anni: non parla e non cammina, ma capisce due lingue e ha una memoria formidabile per i volti; gattona, si muove, piange, saluta, scia, prende il cibo dal frigo quando ha fame. Solo con un sotterfugio radicale ai danni della ragione si potrebbe affermare che non è vita. “Mariangela e Riccardo non sono degli eroi”, ha detto Fabio Cavallari, che ha raccontato la storia di Giulia nel suo libro “Vivi: storie di donne e uomini più forti della malattia” (Lindau), ma persone che hanno avuto il coraggio “normale” di considerare la nascita come un evento positivo. Poi hanno incontrato Bernard Dan, primario di neuropsichiatria ateo ma senza orgogli militanti, un sincero osservatore della realtà. Al Foglio dice che “ormai siamo abituati a considerare la vita soltanto sulla base dell’efficienza delle performance, ma questo è un grave errore dal punto di vista scientifico: l’umano eccede i limiti di ciò che il soggetto è in grado di fare o non fare”. Eppure il mondo cavalca a rotta di collo la mistica del figlio senza macchia (e dei genitori senza paura). “C’è un grande errore nella nostra società, anche a livello scientifico: quello di considerare l’efficacia come sovrano criterio di giudizio. Ma la realtà è molto più complessa”. E la complessità di questa realtà si chiama Giulia, ha otto anni e due “occhi di cielo” che, dice la mamma, “a molti parlano di Dio”. (di Mattia Ferraresi- tratto da "Il Foglio")

24 agosto 2011

Il Meeting che fu Giovedì



Chesterton? Sempre volentieri. Ho appena finito di fare una cosa che a lui sarebbe piaciuta molto”.

Cosa?
“La salsa di pomodoro”.

E perché gli sarebbe piaciuta?
“Primo, perché era un buongustaio. Secondo, perché l’ho fatta in famiglia con nonni e figli, tre generazioni al lavoro insieme. Terzo, perché tramando, rivivendola, una tradizione. Sa come Chesterton chiamava la tradizione?”.

No.
“La democrazia dei morti”.


Questo lo stralunato inizio della conversazione con Ubaldo Casotto sullo scrittore inglese protagonista di due eventi al Meeting di Rimini di quest’anno: la rappresentazione della “Ballata del Cavallo Bianco” e un incontro con Edoardo Rialti, Alison Milbank e, appunto, l’ex vicedirettore del Foglio, fresco autore di un saggio sullo scrittore inglese (G. K. Chesterton, “L’enigma e la chiave”, Lindau).

Scusi, perché democrazia dei morti?
“Chesterton non riusciva a capire perché dovessimo accettare solo il parere del nostro vicino, anche se insensato, e non quello, spesso più saggio non foss’altro perché ha superato la prova del tempo, del nostro bisnonno. Chesterton applicava anche alla democrazia, al dibattito delle idee come alle discussioni quotidiane, la sua categoria filosofica fondamentale: la larghezza. Una democrazia che dà la parola anche a chi non può parlare più è una democrazia più larga, quindi più democratica; per dirla con un termine molto politicamente corretto, più inclusiva”.

Non è un po’ semplice?
“Tutt’altro, la larghezza è la condizione e il risultato della profondità e dell’acume. Quanto più profonda è la buca che scavi a tuo figlio in spiaggia, tanto più larga sarà la sua apertura, quanto più alto è il grattacielo che vuoi costruire, tanto più larga sarà la sua base. E poi, a dar ragione a Chesterton c’è Benedetto XVI”.

La cosa non sorprende, un Papa cattolico che loda uno scrittore cattolico.
“La sintonia va oltre la pura appartenenza, ci sono una diagnosi della malattia della modernità e una indicazione della terapia praticamente identiche. Chesterton dice di aver aderito al cristianesimo, dopo essere passato attraverso la tentazione del pessimismo più radicale e del nichilismo, perché era ‘una filosofia più larga delle altre’; Ratzinger invita e nel contempo sfida l’uomo moderno ad ‘allargare la ragione’. Per Chesterton il cristianesimo dilata la mente, perché l’accettazione del mistero illumina molte realtà di cui altrimenti non ci si saprebbe dare ragione, a partire da se stessi, e potenzia la libertà perché permette di abbracciare uomini e cose, anche realtà altrimenti ripugnanti, è il paradosso della carità”.

Questa la terapia, la diagnosi?
“La diagnosi denuncia la contraddizione insita nella presunzione del pensiero moderno, o almeno nella sua vulgata. Partito con l’ambizione di essere un ‘uomo di larghe vedute’, inalberando il vessillo della libertà di pensiero, l’intellettuale-tipo contemporaneo di Chesterton, e i suoi nipoti odierni, s’è ritrovato stretto nelle sue idee, ingabbiato nelle sue fissazioni, e quindi non libero perché schiavo dei suoi preconcetti. Che sono poi, in ultima istanza, riconducibili a due: l’irreligiosità e il rifiuto del mistero, l’irrealismo e il rifiuto del concetto di limite. Per Chesterton l’uomo razionale è inevitabilmente mistico e l’uomo realista adora il limite. L’alternativa è un’autoreferenzialità che porta alla pazzia”.

Forse esagera.
“Sì, ma c’è del metodo: umorismo e paradosso. Chesterton era persona molto seria, e quindi amava ridere e sorprendere, e non c’è niente di più serio e sorprendente del paradosso. Il paradosso è per lui strumento argomentativo assolutamente razionale, come l’immaginazione, per due motivi: perché è come uno schiaffo che sveglia l’intelligenza assopita nella doxa, nei luoghi comuni, e perché, in fondo, dice la verità”.

E questo cosa c’entra con la pazzia?
“Le ho detto che Chesterton era persona molto seria, perciò non sopportava coloro che si prendono molto sul serio, coloro che credono in se stessi. ‘Quell’uomo crede in se stesso’, non c’è frase oggi più ripetuta e più insensata. ‘Sapete dove vivono tutti coloro che credono in se stessi? – dice in ‘Ortodossia’ – In manicomio’. E si spiega: ‘Il pazzo non è chi ha perduto la ragione, ma chi ha perduto tutto fuor che la ragione’. Ridotta la ragione a pura capacità logica asservita a un’idea scelta come principio universale – sia questa la razza, la classe, la genetica o la convinzione di essere Napoleone – il pazzo in modo monomaniacale ricostruisce il mondo con logica ferrea così che tutto rientri nello schema, con le buone o con le cattive, l’imprevisto e l’irriducibile vengono eliminati, anche violentemente. Resta un problema, la realtà è ostinata, il pazzo cerca di farla entrare tutta nella sua testa ma alla fine ‘la testa scoppia’. Chesterton scriveva queste cose nei primi anni del Novecento, ma vi si può leggere tutto il successivo dramma del secolo breve, la parabola ideologica e storica dei totalitarismi, la loro presunzione razionalista e la dimostrazione della loro inconsistenza ultima di fronte alla natura dell’uomo e delle cose. Dica lei se non vi vede anche la trama di tutto il tentativo di riduzione genetica della persona umana operato dalla tecno-scienza e la segnalazione dell’unico punto culturale di resistenza: la realtà, anche la realtà-uomo, osservata razionalmente. La guarigione dalla pazzia per Chesterton, infatti, non è un ragionamento, ma uno sguardo. A discutere coi pazzi non se ne esce, bisogna aprire loro gli occhi. ‘Una pallottola è perfettamente tonda come il mondo, ma non è il mondo’. Bisogna, appunto, allargare la ragione fino al riconoscimento, ‘mistico’ dice Chesterton, dell’irriducibilità del mondo e dell’uomo alle nostre pur raffinate categorie, fino al ragionevole riconoscimento dell’esistenza del mistero: ‘L’uomo comune ha conservato la sua salute mentale perché è sempre stato mistico’”.

Ma il misticismo non è un’esperienza di superamento del finito, di innalzamento oltre la realtà materiale? Come può Chesterton esaltarlo e insieme predicare l’accettazione del limite?
“Chesterton, fra le altre cose, combatte contro l’imbastardimento del linguaggio. L’esperienza del mistero non è un viaggio nell’oltre simile al sogno: per Chesterton tra il saggio buddista e il santo cristiano la grande differenza iconografica è negli occhi: il primo li ha chiusi, il secondo li tiene ben aperti sul mondo, il primo sogna l’annientamento nel nulla, il secondo vede anche ‘il nulla da cui ogni cosa è sorta’. Quando parla di misticismo Chesterton è tremendamente materialista e intensamente poetico: il limite è il trait d’union tra infinito e finito, la possibilità di tendere al primo vivendo nel secondo. La sua espressione migliore è l’arte: la natura stessa del quadro, dice il critico Chesterton, è data dalla cornice che lo circonda; il suo vertice è la poesia: il poeta ama i limiti del suo verso, sono quelli che gli permettono di essere poeta.Senza limite non c’è arte né esperienza umana, l’amore o è singolare o non è, l’amore universale è una scusa per tradire la moglie o per non aiutare il proprio vicino, san Francesco non amò ‘l’umanità’ ma baciò il lebbroso che incontrò per strada. L’abolizione del limite uccide l’umano, come ben si vede nei tentativi biogenetici che all’utopia della costruzione dell’uomo senza malattie sacrificano vite che non riescono ad amare perché non si fermano a considerarle nella loro singolarità, nella loro irripetibilità misteriosa. Chesterton previde tutto questo, di cui vedeva l’iniziale aspirazione, e ha al riguardo una frase memorabile: ‘Quel ragazzo sarebbe potuto essere un grande’ è la frase che si usa per indicare una mancata promessa; invece, il primo che passa per strada è un grande perché ‘sarebbe potuto non essere’. Il tratto più eversivo rispetto allo scetticismo dominante il suo e il nostro tempo di questo omone inglese è il suo stupore per il mondo, per le cose, l’affermazione assoluta e originaria del primato dell’essere, il capovolgimento dell’assioma del relativismo dominante per cui non esiste una realtà ma solo le sue interpretazioni”.

Molto tomista come convinzione, non proprio una novità.
“Lei dovrebbe leggere il saggio di Chesterton su Tommaso d’Aquino, centocinquanta pagine che Etienne Gilson, il grande medievista francese del secolo scorso, gli invidiava, avrebbe voluto scriverle lui. Chesterton le dettava alla segreteria tra un articolo e l’altro: ‘Ci occupiamo un po’ del nostro Tommy?’. Ma era tomista ben prima di conoscere il d’Aquino. Mi lasci citare un passo dalla sua “Autobiorafia”.

Prego.
“Difesi, contro critici teatrali, il merito teatrale di un dramma più recente, che contiene molte cose buone, il dramma intitolato: ‘Dove non c’è nulla c’è Dio’. Ma io andavo barcollando e gemevo e mi travagliavo con una mia filosofia incipiente e incompiuta, che era quasi il contrario dell’affermazione che dove non c’è nulla c’è Dio. A me la verità si presentava piuttosto in quell’altra forma: dove c’è qualcosa c’è Dio. In filosofia nessuna delle due affermazioni è adeguata, ma sarei rimasto sbigottito se avessi saputo quanto il mio anything (qualcosa) fosse vicino all’Ens di San Tommaso d’Aquino”.

Appunto, una riedizione semplificata di una filosofia medievale.
“Chesterton andrebbe orgoglioso di questa definizione, lui a sé aveva riservato il posto dei mostri che popolano le facciate delle cattedrali gotiche: grottesco, ma certo della bontà della costruzione che lo ospita. Quanto al concetto di ‘riedizione’ – a parte ricordarle il motto giornalistico per cui niente è così inedito come ciò che è già stato scritto – è quello che meglio definisce, per ammissione dello stesso Chesterton, il suo percorso intellettuale. ‘Ortodossia’, il suo capolavoro, scritto ben prima della conversione, è un lungo viaggio della ragione alla ricerca del suo fondamento, ‘che alla fine trovai’ dice Chesterton, ‘solo che mi accorsi che non era mio’, ‘stavo seduto su due millenni di ortodossia’. In questo viaggio sta l’originalità di Chesterton, in questo reimpossessarsi delle ragioni di una fede, di una cultura e di una civiltà, che, dice Benedetto XVI, è il compito di ogni generazione nei confronti del cristianesimo per riscoprirlo come novità e come vita. Al riguardo, ne ‘L’uomo eterno’ c’è una frase che ogni chierico dovrebbe mandare a memoria: il cristianesimo ‘non è una filosofia perché, essendo una visione, non è un modello, ma un quadro; non è di quelle semplificazioni che risolvono ogni cosa in un’astratta spiegazione: che tutto è ricorrente, che tutto è relativo, che tutto è illusorio. Non è un meccanismo ma un racconto; ha le proporzioni che si riscontrano in un quadro o in un racconto; non ha le ripetizioni regolari di un modello o di un meccanismo; ma le rimpiazza con l’essere convincente come un quadro o come un racconto. In altre parole è esattamente, ecco la frase, come la vita. Perché infatti è vita’”.

Come si spiega il revival editoriale di Chesterton a ottant’anni dalla morte?
“Lo stanno ripubblicando tutto, ritraducendolo, fanno convegni internazionali… io negli anni Settanta lo cercavo nelle bancarelle di via Po a Torino e nelle biblioteche dei seminari, non lo si ristampava da trent’anni, un po’ ci si vergognava, forse, di questo convertito inglese troppo poco problematico. Ma chi dice così non ha letto le pagine di Borges e di Lewis su di lui, dove lo si paragona a Kafka e a Poe, né ha letto ‘L’uomo che fu Giovedì’, romanzo in bilico tra il sogno, l’incubo, l’immaginario, il tenebroso. Comunque, c’è una frase dello stesso Chesterton che spiega le sue fortune odierne: ‘Sono grato al cristianesimo perché mi ha permesso di non essere solo un figlio del mio tempo’. La vera schiavitù per un uomo è di essere solo un prodotto del momento storico in cui vive, e un uomo fatto e finito dalle circostanze che lo determinano non può essere interessante per nessuno. Chesterton ci piace, e piacerà in futuro, perché, come dice il teologo Stefano Alberto nella prefazione del mio volumetto, ‘è un uomo vivo che ci aiuta a restare vivi’. Nella bonaccia mortifera che ci circonda Chesterton è come un vento che purifica l’aria”.

A cosa si riferisce?
“A due vicende nelle quali, paradossalmente ma non tanto, il laicismo occidentale e il fondamentalismo islamico si incontrano: l’eutanasia e il cosiddetto martirio. Senta un po’ (e si ricordi che Chesterton sapeva distinguere il peccato dal peccatore, colpiva le idee ma era amico, spesso, dell’ideatore): ‘Nacque la discussione se l’uccidersi fosse una bella cosa… Per me il suicidio (e l’eutanasia come frutto di autodeterminazione ne è la forma più raffinata) non è soltanto un peccato, è il peccato; è il male supremo e assoluto, il rifiuto di prendere interesse all’esistenza, di prestare il giuramento di fedeltà alla vita. L’uomo che uccide un uomo, uccide un uomo; l’uomo che uccide se stesso, uccide tutti gli uomini: per quanto lo riguarda distrugge il mondo… il ladro i diamanti lo appagano; il suicida no… il ladro rende omaggio alle cose che ruba se non al loro proprietario; il suicida insulta tutte le cose per il fatto stesso di non rubarle. Rifiutando di vivere per amore di un fiore, oltraggia tutti i fiori. Non c’è al mondo la più piccola creatura cui egli non irrida con la sua morte’. E ancora: ‘Ho letto una solenne bestialità di qualche libero pensatore: il quale dice che il suicida è qualche cosa come un martire… Un suicida è evidentemente l’opposto di un martire. Il martire è un uomo che si appassiona a qualche cosa che è fuori di lui fino a dimenticare la sua esistenza personale, il suicida è un uomo che tanto poco si cura di tutto quello che c’è fuori di lui che ha bisogno di vedere la fine di ogni cosa. L’uno ha bisogno che qualche cosa cominci; l’altro che tutto finisca. Il martire confessa un estremo vincolo con la vita… muore perché qualche cosa viva. Il suicida… è puro distruttore: spiritualmente distrugge l’universo’. Lei non sente qui l’eco delle terribili parole di Osama bin Laden dopo l’attacco alle Torri gemelle: ‘Perché sappiano che noi amiamo la morte più di quanto loro amano la vita’? Io sì”. (di Mattia Ferraresi- tratto da "Il Foglio" del 23/08/2011)

20 agosto 2011

E l'esistenza diventa una immensa certezza

“E l’esistenza diventa una immensa certezza” è il titolo scelto per la XXXII edizione del Meeting. Esso parte da una constatazione, semplice e al tempo stesso drammatica: nella mentalità più diffusa ai nostri giorni, nella coscienza con cui ciascuno di noi affronta le sfide e le fatiche del vivere, sembra che non sia più possibile alcuna vera certezza. È qui, al fondo di noi stessi, che si rivela la radice nascosta delle tante “crisi” del nostro tempo: esse non segnano soltanto la messa in discussione o la perdita di certezze che si credevano acquisite – nella politica come nell’economia, nelle scienze come nell’etica, nella cultura come nella convivenza sociale – come è spesso successo in altre epoche storiche. Quello che è in gioco oggi, nell’epoca attraversata dalla grande ombra del nichilismo, è qualcosa di più radicale, e quindi più radicale è la sfida che essa ci pone: gli uomini non sarebbero più capaci di certezza, e anzi ogni certezza sarebbe una nostra costruzione, e alla fine nient’altro che una grande illusione.Quando pensiamo al senso della nostra esistenza non siamo forse tutti tentati, come figli del nostro tempo, di ritenere che la nostra origine e la nostra destinazione siano in balìa della sorte, e che in definitiva nulla possiamo rispetto alle forze incontrollabili di un fato cieco e di un’insensata casualità? Eppure gran parte del pensiero “moderno”, per il quale l’uomo è l’unico, vero artefice del proprio destino, senza bisogno di riferirsi ad un senso più grande di sé, aveva preteso di fornire una strategia “scientifica” e “politica” che dominasse l’incertezza del vivere, il rischio mortale della solitudine e dell’insensatezza, fonte di risentimento e di violenza. Le uniche certezze di cui ancora disponiamo – così si pensa – sono quelle prodotte dal controllo tecnologico del mondo. Tutto il resto, valori ed emozioni, sentimenti ed opinioni, appartiene al gioco del relativismo. Eppure noi ci accorgiamo sempre più che la realtà, sia a livello naturale che sociale, è molto meno controllabile di quanto si creda, e soprattutto scopriamo che l’esistenza dell’io è sempre più indebolita nelle sue ragioni. «A farci sentire un’incertezza più orrenda e devastante che in passato», ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman, è la percezione che «la nostra impotenza sia incurabile». Tutta la partita dell’esistenza si gioca qui, nella certezza o nell’incertezza riguardo al motivo per cui ciascuno di noi è al mondo. Il Meeting proverà a raccogliere questa sfida del nostro tempo, riaprendo una partita da molti dichiarata ormai chiusa. E lo farà, come è suo stile, non in virtù di una più scaltra analisi culturale e politica, ma a partire dall’esperienza in atto di persone che non si accontentano di concepire la propria esistenza come destinata al nulla. Uomini e donne che non censurano il peso dell’incertezza né si sottraggono al lavoro che essa esige, ma che la vivono come il segno evidente che non siamo i padroni di noi stessi, ma siamo in rapporto con qualcosa di Altro, che continua a sopraggiungere alla nostra vita. Prima di ogni calcolo sulle nostre capacità o incapacità, la percezione di fondo del nostro io è quella di una certezza. E non una sicurezza a buon mercato o una garanzia a nostra disposizione, ma una certezza di appartenenza: siamo di qualcuno. Inizialmente noi siamo certi di noi stessi, perché ci viene incontro il volto di nostra madre e ci viene offerto il suo seno. È la prima percezione del vivere, che resta poi come una costante, anche se nascosta o soffocata. Prima di ogni incertezza c’è una certezza: essa è un dato, un incontro, un invito.Il Meeting cercherà di raccontare e testimoniare questo lavoro dell’io che riparte dall’evidenza di un incontro, di tutti quegli incontri in cui si rende presente in carne ed ossa il significato per cui vale la pena vivere, amare, costruire e anche soffrire. La certezza che cerchiamo non è un’ideologia o una strategia o una convinzione psicologica, ma è quella che ci fa riconoscere ciò che già “siamo”. Non tanto che le cose andranno a posto come pensiamo noi, ma che noi stessi siamo in rapporto con Chi ci fa continuamente.Per questo l’esistenza, come dice il titolo del Meeting, diventa una certezza: non si tratta infatti di sapere in anticipo quello che accadrà a noi e nel mondo, ma di essere disponibili a farci provocare da ciò che accade, cioè a chiederne il senso e a riconoscerne la ragione. E la certezza è immensa proprio perché non è un nostro prodotto, ma la scoperta di ciò che ci raggiunge e chiede ogni volta di noi. Questa certezza non potrebbe esistere senza la nostra libertà.E in fondo anche il Meeting è un modo per prendere sul serio l’invito che ci proviene ogni giorno dagli avvenimenti e dagli incontri che accadono: l’invito a rispondere con tutta la nostra attesa, mettendo sempre in gioco la nostra inquietudine.

19 agosto 2011

Il Papa sulla crisi e le nostre responsabilità




La domanda cruciale, nell’intervista sull’aereo al Papa, è stata quella riguardante la crisi economica e la mancanza di prospettiva per i giovani, anche in relazione alle recenti violente proteste in Inghilterra. Questa la risposta di Benedetto XVI:

"Si conferma nella crisi attuale quanto è accaduto nella precedente grave crisi: la dimensione etica non è una cosa esterna ai problemi economici ma una dimensione interiore e fondamentale. L’economia non funziona solo con regolamentazioni mercantili, ma ha bisogno di una ragione etica per essere in funzione dell’uomo. È ciò che ha affermato Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica sociale: l’uomo deve essere il centro dell’economia e l’economia non si deve misurare secondo il massimo del profitto, ma secondo il bene di tutti e quindi include la responsabilità verso l’altro. L’economia funziona veramente bene solo se funziona in modo umano, nel rispetto dell’altro secondo diverse dimensioni. La prima è la responsabilità per la propria nazione e non solo per se stessi. La seconda è la responsabilità verso il mondo: le nazioni non sono isolate, anche l’Europa non rimane in sé, ma è responsabile per l’intera umanità e deve affrontare i problemi economici in questa chiave di responsabilità anche per le altre parti del mondo, per quei Paesi che hanno sete e fame. La terza dimensione riguarda il futuro, dobbiamo proteggere il nostro pianeta, ma dobbiamo proteggere anche il funzionamento del sistema del lavoro per tutti, per pensare al domani e anche all’oggi. Se i giovani di oggi non trovano prospettive per la loro vita, il nostro oggi è sbagliato ed è male".


17 agosto 2011

La filosofa (im)morale che dà del mafioso a Scola

La questione morale. Sono vent’anni che sento parlare di «questione morale». E, prima ancora, se ne faceva risalire la preoccupazione alle considerazioni di Enrico Berlinguer sui disinvolti rapporti tra politica e affari, anche nel suo partito. Poi, la questione morale ha trovato una via giudiziaria che ne ha aperta un’altra, sottovalutata, sul rispetto e la dignità della persona, per la disinvoltura con cui (io, quasi solo, ma, in quegli anni anche Giuliano Pisapia, l’ho denunciato) si sono accusati e umiliati innocenti, in alcuni partiti e in alcune regioni più che in altri, con evidente arbitrio e mancanza di giustizia.
In realtà non ha senso parlare di «questione morale», se non per scimmiottare, sul piano etico, che riguarda sempre la sfera individuale e la responsabilità personale, le grandi questioni, prima culturali, poi economiche che hanno investito l’Italia postunitaria. Mi riferisco alla sostanziale, e reale, e non risolta, anche sul piano etico, «questione meridionale». Ma, nella disinvoltura di questi tempi, la «morale» torna a essere una «questione», e se ne riparla come nei primi anni Novanta. Così non poteva non incuriosirmi il libro di una studiosa stimata e, credo, anche cattolica, Roberta De Monticelli, sull’argomento, dichiarato, senza rielaborazioni, nel titolo (La questione morale, Raffaello Cortina editore).
La presentazione in quarta di copertina non lascia sorprese, e si allinea con il sentire dominante, motivato da inchieste giudiziarie e giornalistiche. Ma, nel contempo, non sembra indicare novità o situazioni mutate, dai tempi di Giolitti, per motivare nuove e originali riflessioni: «Corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica, la pratica endemica degli scambi di favori, lo sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati, la diffusa mafiosità dei comportamenti». È vero che, sia pure con grande ritardo, la De Monticelli estende la sua denuncia anche al mondo universitario dominato irrimediabilmente dalla corruzione e dai privilegi di casta, soprattutto nell’arruolamento del personale docente attraverso concorsi-beffa che decidono i selezionati «sulla base di accordi tra gruppi di pressione o cordate - quando non addirittura di parentele - e non su quella del merito»; ma non manca di sorprendere - ed è conseguenza dello scriteriato proliferare di cattedre che caratterizza, rispetto alla tradizione accademica, proprio gli anni recenti - che il suo insegnamento all’università, ateneo privato Vita-Salute San Raffaele di Milano, sia non «filosofia teoretica» o «filosofia morale», ma una insensata e inventata, intrinsecamente tautologica, «filosofia della persona».
E a chi, se non alla persona, può essere indirizzata la filosofia? O, per estensione, dovremmo prevedere insegnamenti come «storia delle religioni della persona» o «biologia della persona» o «diritto costituzionale della persona» ed altre, personali, amenità? Ciò che è più grave è che la De Monticelli, pur proclamando, sulla scorta di Ronald Dworkin, «non solo che le persone abbiano diritti, ma che tra questi vi sia un diritto fondamentale, addirittura assiomatico..., il diritto all’eguale considerazione e rispetto», non rispetta affatto e anzi mostra di disprezzare profondamente, fino al punto, come suo caratteristico vezzo, di non citarne i nomi se non in nota, Angelo Scola, già Patriarca di Venezia e ora arcivescovo di Milano, e Renato Farina, deputato della Repubblica (per lei, credo, indegnamente). Per loro non c’è né rispetto né considerazione, solo disprezzo, in evidente contrasto con la condanna, da parte della De Monticelli, della politica come «luogo del conflitto fra nemici, cioè della continuazione della guerra con altri mezzi»... in «una barbarica semplificazione, di sapore per di più mafioso: amico-nemico». Proprio quella che applica lei denunciando un intervento di Angelo Scola, sul direttore di Famiglia Cristiana Antonio Sciortino, come «vagamente mafioso».
E che vuol dire «vagamente» mafioso? Non contenta dell’insinuazione la De Monticelli denuncia «l’orgogliosa spregiudicatezza» del porporato «col piglio di un habitué al tavolo del negoziato eterno fra il diavolo e il buon Dio». Fino a concludere, con crescente disgusto: «E il brivido sfuma in un vago senso di nausea. Il cardinale è passato a tessere pubblicamente l’elogio di un oscuro personaggio, oscuro in tutti i sensi». Si tratta di Renato Farina, detto dalla De Monticelli «tal» e «un tizio noto alle polizie come “agente Betulla” radiato dall’Ordine dei giornalisti per tradimento della funzione giornalistica, dopo che l’aveva per anni - in veste di vicedirettore di un quotidiano, e in cambio di lauti vantaggi personali - prostituita al servizio di operazioni inconfessabili di polizia politica».
E dunque, in nome del proclamato «diritto all’eguale considerazione e rispetto», un cardinale viene considerato «vagamente mafioso» e un giornalista e deputato viene imprudentemente e sbrigativamente ritenuto indegno, senza avere la pazienza di attendere la sentenza della Cassazione (l’ammirata magistratura), che il trenta giugno di quest’anno ha annullato la radiazione dall’Ordine dei giornalisti al «tizio» che non è mai stato condannato nonostante la calunniosa insinuazione di aver prostituito la sua funzione per «lauti vantaggi personali» (mentre è stato acclarato che ha agito «disinteressatamente... ed esponendosi anche a gravi rischi»). Non è un po’ troppo per chi insegna «filosofia della persona»? O non è una «questione morale» accusare di mafiosità e di prostituzione «persone» che si disistimano, con quella «coscienza sprezzante» e quella «cultura del sospetto» che si denunciano?
La De Monticelli riserva per sé quella «profondità del disprezzo» che denuncia per altri, con il paradosso di affermare (ma non per sé): «Il sapere che deprezza è un falso sapere». Questione morale: come è toccato ad alcuni innocenti e come lei oggi azzarda con Scola e Farina, se qualcuno l’accusasse di mafiosità (sia pur vaga) e di prostituire il suo pensiero (per esempio, agli idoli del nostro tempo, irrispettosi della persona e della verità), come reagirebbe?

(di Vittorio Sgarbi- tratto da "Il Giornale")


10 agosto 2011

Londra, è solo teppismo?



Spesso un male irreversibile si forma, dentro un corpo, per la somma di tanti piccoli mali, ciascuno dei quali di per sé sarebbe curabile, ma che, messi insieme, producono degenerazioni, stati cronici, collassi strutturali. Questo vale per il corpo umano, per il corpo di un paese e anche - come nel caso che stiamo per trattare - per un’intera civiltà.I disordini che si vanno spandendo a macchia d’olio in Inghilterra, e che hanno già prodotto il primo morto, hanno dato luogo, per ora, a commenti a dir poco anacronostici: si è parlato di “teppisti”, con il disprezzo che i lord inglesi dei cartoni animati riservano a qualunque altro rappresentante del genere umano. Le cronache hanno riportato - quasi fosse la notizia principale - che il Primo Ministro ha dovuto addirittura, pensate un po’, rientrare anticipatamente dalle vacanze (in Toscana).Questo paese straordinario, vincitore di tutte o quasi tutte le guerre cui ha preso parte, nel corso della storia, di fronte alla nuova emergenza sa balbettare solo parole di disprezzo, trattando questa rivolta come una semplice questione di ordine pubblico.Bene, potranno magari soffocare questa rivolta, ma altre ne verranno, perché il mondo che ne è il teatro - ossia la nostra civiltà, tutto il sistema della nostra civiltà - sta andando in frantumi.Mentre l’augurio che mi faccio è, naturalmente, che i disordini finiscano al più presto e che nessun lutto macchi più di nero queste giornate, comincio a pensare che sarebbe forse il caso di mettere questi fatti insieme a molti altri, apparentemente diversi, che però sembrano destinati, nel tempo, a comporre un puzzle tanto inquietante quanto coerente.Tutti sappiamo qual è, oggi, il problema dei problemi: i debiti degli stati. Gli stati del mondo si stanno trasformando in debitori insolventi. Quando un ente non riesce più a restituire il corrispettivo dei titoli che ha emesso si dice che va in bancarotta. Bene, adesso chi sta andando in bancarotta è tutto il nostro mondo, quello che ci siamo abituati a considerare il mondo civile, portatore di valori, ecc. L’Inghilterra si è autocullata per una quindicina di anni in un’illusione di ricchezza che ha riempito Londra di lusso sfrenato, ma ha ridotto intere classi sociali sotto la soglia della povertà. Per molte famiglie medie inglesi in questi anni l’unico modo per non diventare indigenti è stato quello di imitare lo stato: accumulare debiti.Ora tutto questo gioco non regge più. Si è cercato, nel 2008, di sostituire la bolla esplosa con un’altra bolla, ma intanto le periferie, i quartieri popolari, le aree urbane più sofferenti cominciano a sperimentare - anche se le premesse c’erano da diversi anni - uno sganciamento degli elementi che tenevano insieme la società. Le città si stanno sgretolando, e questo non è un fenomeno politico: è un fenomeno culturale.Chi ha parlato di crisi educativa ha toccato il problema. Io però lo vorrei trattare partendo da un altro punto. Nella mia vita ho molto a che fare con i giovani. Sono giovani di tutti i tipi: brillanti studenti universitari, studenti di scuole professionali, giovani disoccupati, ragazzi che la scuola non riesce più a riprendersi. Sono anni che tratto con loro: cominciai che potevo definirmi il loro fratello maggiore, mentre tra non molto sarò, al più, una specie di nonno acquisito.Nel tempo, mi ha colpito un fenomeno che sta correndo anno dopo anno sempre più velocemente: la perdita della dimensione simbolica. Molti ragazzi dai sedici ai diciott’anni non sanno più cos’è il Cavallo di Troia, chi era Ulisse, chi ha scritto la Divina Commedia (vanità di tutte le spettacolarizzazioni televisive!): non hanno mai nemmeno sentito nominare i Blues Brothers. Il crollo delle Twin Towers è un ricordo confuso. È probabile che molti di loro - non in Manciuria, ma in Italia, in Francia, in Inghilterra - non abbiano mai nemmeno sentito nominare Gesù Cristo, e questo a dispetto della pubblicità che i fondamentalisti islamici gli hanno fatto.Del resto, nemmeno di Maometto sanno nulla, nemmeno dei fondamentalisti e di Bin Laden. Resta solo Halloween, che è più facebook-genico. Ma senza simboli non c’è civiltà, e il nostro rapporto con i segni si fa disordinato: una specie di labirinto. L’immediata superficie delle cose diventa a poco a poco il solo orizzonte, non c’è più spazio per domandarsi: cosa significa questo?, cosa significa quello? La bellezza è solo qualcosa che ci si struscia addosso da qualche parte: occhi, palato, orecchie. E tutta la ricchezza, il lusso di cui Londra (come altre città) si è ammantata dove andrà a finire? Mi ha colpito il fatto che i giovani ingliesi in rivolta se la prendessero soprattutto con le vetrine dei negozi. Distruggere le cose, liberarsi di tutti gli oggetti del desiderio (ricchezza, potere, gloria) che gli hanno insegnato a idolatrare. L’uomo soffre la violenza fascista dell’Immediato (e Insensato), e reagisce come una bestia in gabbia.Quando parliamo di educazione, però, occorre stare attenti. Non sono affatto certo che insegnare meglio la tradizione culturale della nostra civiltà servirebbe a qualcosa. Tra i protagonisti dello sfascio spesso ci sono stati proprio i migliori insegnanti, gli educatori più motivati, i pedagogisti più solleciti, i professori che spendevano più tempo con i ragazzi.Non è stato il menefreghismo a produrre la rovina: è stata la rovina a produrre il menefreghismo e anche le molte inutili virtù modello attimo fuggente, molto impegno educativo dal quale sono usciti giovani depressi, spaesati, incapaci di rapportarsi con il presente.Il futuro dei nostri figli è un tema difficile e delicato: essi sono la prima generazione, dal Dopoguerra a oggi, a dover segnare un passo indietro rispetto a chi li ha preceduti. Non c’è più un mondo da ricostruire, da conquistare. Dobbiamo fare perciò molta attenzione anche alla minima parola che rivolgiamo loro.La cosa più importante che possiamo fare per loro è di smettere una buona volta di pensare che il loro bene coincida con il mondo che noi immaginiamo buono per loro. Il loro mondo sarà diverso, e noi siamo i meno indicati a prefigurarlo.Dobbiamo liberarci del nostro immaginario, dobbiamo fare lo sforzo di non leggere la realtà di oggi con le categorie del passato - cosa che facciamo quasi tutti, è vero, ma così facendo rinunciamo a cercare il senso della realtà, accontentandoci di un senso preconfezionato. (di Luca Doninelli- tratto da "Il Sussidiario")

Ma chi se non noi?



Fresca, fin troppo, quest’anno l’estate sulle Dolomiti. Di notte nevica sulle cime, di giorno si corre a comperarsi felpe e maglioni. Forte è la tentazione di rintanarsi al coperto in attesa di notizie rasserenanti. Guai, però, a cercarle nelle sale più famose di Cortina, ben riscaldate, sì, ma dove i massimi esperti nazionali ti dipingono il quadro più nero che si possa immaginare dell’economia, della politica, della cultura. Insomma: si sta meglio fuori. Alla fine, però, le buone notizie ti vengono incontro senza che tu le abbia cercate. Basta spostarsi di qualche chilometro, in una delle valli meno famose, affollate di campeggi e case alpine dove va in vacanza il popolo cattolico dei movimenti, delle parrocchie, delle associazioni. Qui, prendendo l’autobus per andare in paese, lo trovi quasi sempre affollatissimo: un giorno ci trovi sessanta adolescenti di una parrocchia milanese, un altro vi si pigiano ottanta coetanei emiliani, il terzo giorno brulica di giovanotti e signorine di qualche altro angolo dell’Italia cattolica di cui nessun telegiornale parla mai. Tutti vocianti e allegri, in marcia di avvicinamento verso una delle tante gite programmate sulle cime, tutti affardellati di zaini e impermeabili, tutti accompagnati dai loro animatori, ragazzi e ragazze con pochi anni più di loro. Più qualche prete: preti, si sa, ce ne sono pochi, in cambio di giovani laici disposti a dedicare le loro vacanze a questo preziosissimo volontariato ce ne sono molti di più. Se poi vai a salutare gli amici delle "case" vicine a quella della tua parrocchia, può capitare di trovare sedute a tavola, in una domenica di visita, fino a quattrocentosessanta persone. Un’Italia stupenda, giovane e giovanissima, un’Italia estremamente sobria nei consumi, anche vacanzieri, un’Italia del volontariato generoso che si assume il gravoso compito di educare i giovani anche nel tempo libero, insegnando loro ad amare la natura, a stare insieme nel rispetto reciproco, a fare le cose per passione, non per soldi, anche se, a volte, può costare un po’ di fatica. È l’Italia che insegna ai suoi giovani a dare un senso all’esistenza, non a parole, ma con i fatti. Quale altro partito, associazione, istituzione nazionale, nel nostro Paese, fa altrettanto? A chi altro, se non al mondo cattolico, il Paese è debitore di questo enorme "fatturato" sociale e morale totalmente regalato all’intera nazione in nome di valori fondati sul "bene comune"? Quando, da parte di certi " laici", ci si lamenta dell’eccessivo "potere" che, in Italia, avrebbe il mondo cattolico (che si oppone alle leggi sul "matrimonio" fra omosessuali, che tutela la vita anche se debole, che faticosamente dà notizia delle stragi per fame dimenticate da tutti gli altri), ci si dovrebbe almeno domandare da dove e come nasca questo "potere". Che viene da una fiducia profonda che gli italiani hanno, a ragion veduta, per il "mondo cattolico", dato che a nessun altro mondo affidano in così gran numero l’educazione e il tempo libero dei loro figli. Se anche questi personaggi, questi "esperti" che fanno sempre opinione senza mai staccarsi dalla loro sedia (e dai loro pregiudizi), si dessero la pena di fare un giro per parrocchie e associazioni, d’inverno e anche d’estate, forse si renderebbero conto che tale "potere" deriva non da quanto "riceve" dall’Italia il mondo cattolico, ma da quanto gratuitamente all’Italia dà.

Piuttosto, la domanda da farsi è tutt’altra: come mai i cattolici che tanto danno al Paese, hanno oggi un peso così poco rilevante sul piano della politica, della cultura, dei mass media? Anche le recenti vicende dell’Umbria dove la posizione dei cattolici a proposito di distribuzione di pillole abortive è stata del tutto ignorata dai vertici del Pd, confermano la scarsa considerazione, che i cattolici hanno all’interno dei partiti in cui militano. Il problema, stavolta, sta all’interno del nostro mondo: attivissimi nel sociale e nel prepolitico, come notava il professor Ornaghi a fine luglio su queste pagine, abbiamo il dovere di tornare a incidere anche in politica, a far valere quello che possiamo dare all’Italia. Prima di tutto perché l’Italia ne ha bisogno e poi perché chi altro lo può dare se non noi? (di Domenica Sartori- tratto da "Avvenire")

09 agosto 2011

Se si celebra un caso



Una storia d’amore? Una provocazione? Un gesto che passerà alla storia delle battaglie per i diritti civili? Un oltraggio al dettato costituzionale?Non intendiamo portare acqua al mulino delle ovvietà polemiche, né pronunciare verdetti di condanna o parole di assoluzione. Non compete a noi, e non ci interessa. Ma la scelta della deputata del Pd, Paola Concia, che l’altro ieri si è sposata nel municipio di Francoforte, in Germania, con la fidanzata tedesca Ricarda merita qualche annotazione a margine. Una premessa iniziale a scanso di equivoci: abbiamo scritto 'sposata' e 'fidanzata'. Sono parole che siamo consapevoli di usare in modo improprio ma, proprio per evitare incomprensioni, accuse di insensibilità o altre letture strumentali lontanissime dai nostri obiettivi, ci consegniamo al normale lessico nuziale. I teologi morali, per una volta, chiuderanno un occhio (...) Quello che colpisce e lascia perplessi è la straordinaria macchina del consenso che si è messa in moto per trasformare un momento comunque intimo in un episodio segnato da una pesante etichettatura ideologica. Paola e Ricarda, lei parlamentare italiana, l’altra lei criminologa tedesca, hanno deciso di amarsi e di vivere insieme? In Italia non c’è una legge che lo impedisce. Anzi, ci sono norme del diritto civile che tutelano e regolano i diritti dei singoli e i loro rapporti. E invece le due signore hanno preteso di convolare in Germania, con gran seguito di reporter e di fotografi. E non si sono lasciate sfuggire l’occasione di rammaricarsi per l’ingiustizia – a loro dire – della normativa italiana che impedisce a due persone dello stesso sesso di unirsi in matrimonio. Anzi, uno dei politici al loro seguito, il vicepresidente del Pd Ivan Scalfarotto, si è affrettato a sottolineare che da domani, quando le due signore rientreranno in Italia, sarà inevitabile creare un 'caso', vista l’impossibilità di trascrivere le nozze tedesche nei nostri uffici anagrafici. Un 'caso', quindi, più che un matrimonio.Cioè un gesto politico, una scelta strumentale per scatenare l’ennesimo, sterile, scontro. Non si tratta in alcun modo, qui, di mettere in dubbio la qualità dei sentimenti di Paola e Ricarda. Ma di chiedersi per quale motivo debbano farsi pretesto per il solito polverone propagandistico e il solito caso a orologeria. È davvero così stravagante la nostra Costituzione che riconosce e regola la famiglia (articoli 29, 30 e 31) come società naturale fondata sul matrimonio tra uomo e donna?Mettendo per un momento da parte le istanze del matrimonio religioso come delineato dalla Chiesa cattolica, non varrebbe almeno la pena di ricordare che, anche sul piano del diritto naturale, complementarietà e fertile progettualità sono condizioni irrinunciabili per parlare di un rapporto d’amore sancito sul piano pubblico? Da qui discende la rilevanza civile di un matrimonio, anzi, questo la costituisce. Matrimonio e unioni omosessuali appartengono a categorie ontologicamente diverse. E non saranno espedienti legislativi né mode culturali a colmare questa distanza obiettiva. (tratto dall'articolo di Luciano Moia pubblicato su "Avvenire")

08 agosto 2011

Chiesa e mondo, la grande guerra



Notizie di ogni giorno ci dicono della grande guerra tra chiesa e mondo. C'è sempre stata, oggi ha una radicalità speciale e un significato speciale. La durezza del confronto dipende dal fronte interno, l'ala del clero e del pensiero cattolico che imbraccia come un bazooka le sue suggestive e potenti ansie riformatrici: le regole mondane, nella loro forma ideologica più elementare, come arieti dell'ideologia di massa e del pensiero unico più forti e pervasivi che siano mai comparsi sulla scena storica, pretendono di farsi valere nella chiesa cattolica senza il dramma luterano del dubbio, senza il dramma claustrale del monaco riformatore agostiniano, senza dramma teologico del tutto, niente san Paolo e niente sant'Agostino. La penetrazione invasiva nella tradizione dilaga come pura omologazione della costituzione apostolica della chiesa latina al dettato della modernità. Il carattere tremendamente significativo della battaglia deriva da questo: il moderno vuole scardinare l'ultimo bastione clericale della religione tradizionale perché si comprende ormai come una religione rituale e secolare, integra in modo suadente e irrecusabile ciò che la lotta tra liberalismo e totalitarismi aveva violentemente separato nel Novecento, incarna sempre nuove utopie egualitarie, psicologie educative prive del senso dell'obbedienza e della gerarchia, filosofie di genere e mitologie salutiste in nome delle quali si compie nell'ultimo mezzo secolo la più grande strage della storia dell'umanità, l'annientamento seriale dei non nati e la selezione eugenetica della razza umana su scala industriale con il mezzo multiforme dell'ingegneria biologica e di altre tecniche del transumanesimo. Il governo irlandese trasforma i casi di pedofilia del clero in un processo alla chiesa e al sacramento della penitenza mediante confessione, esige di fare chiarezza nell'anima, fa decadere la complessità irrimediabile del peccato a ipotesi di reato. I preti austriaci a centinaia, nelle diocesi governate da un vescovo e cardinale illuminato, intelligente e colto come Christoph Schoenborn, si appellano alla rivolta e guidano la rivolta dei fedeli contro il celibato sacerdotale, a favore dell'ordinazione delle donne, per una tolleranza zero in materia sessuale liquidatoria dell'autonomia pastorale del clero, repressione di stato contro espiazione e correzione pastorale. Anche molti preti americani, australiani, africani non sopportano più il giogo di ciò che è tramandato. Il loro nuovo eroe, il prete mariano Roy Bourgeois, dice che non può recedere dalla sua decisione di accettare e incentivare l'ordinazione delle donne, il matrimonio dei preti, la benedizione eucaristica delle coppie divorziate e risposate, perché quella è la sua idea e il dettato della coscienza gli impone di non mentire. Obbedire è un verbo che non si coniuga più o si considera con estrema fatica, anch nelle caserme e nelle scuole, per non dire nella politica e nelle faccende di stato, dunque anche un prete non ha più da obbedire a nulla che non sia la sua opinione di coscienza, che in Lutero fondava nuove chiese e una nuova alleanza antiromana con i principi tedeschi, oggi fonda la perfetta pretesa di sottomissione dei canoni ecclesiastici alle ideologie del mainstream sociale e alla legge dello stato. Lo scardinamento della chiesa parte, come progetto, dalla sua debolezza profetica, dalle difficoltà effettive della fede cristiana come dimensione privata e pubblica, dai suoi errori storici e dalle sue astruserie talvolta vagamente e banalmente eticizzanti, ma anche da bisogni reali: i preti scarseggiano, bisogna provvedere, c'è un marketing da affermare nel mercato del lavoro del sacro. Ma il bisogno profondo di settori militanti e simbolicamente forti della chiesa è di abolire ogni dissimiglianza con il mondo, di aderire senza troppe riserve allo schema della democrazia eguale e dei diritti, di sradicare la costituzione dogmatica in cui è cresciuta per secoli la tradizione con i suoi dogmi, con i suoi libri. Non sono problemi interni del Vaticano, delle conferenze episcopali. Sono i segni di una grande guerra culturale che è destinata ad avere riflessi giganteschi anche sul mondo secolare, laico, su tutti noi, sul nostro modo di concepire l'esistenza, prima di tutto nell'ambito della civiltà occidentale ebraica e greco-latina, e di raccordare passato e futuro nel problematico tempo presente. E' difficile decidere che cosa si debba pensare di tutto questo, le remore e le varianti possibili sono tante, ma l'ipotesi non più così remota della caduta in disgrazia e della soppressione identitaria della chiesa che sopravvisse alla Riforma nel Cinquecento non è materia di ricerca per gli storici di domani. E' ansia per noi laici di adesso.


(di Giuliano Ferrara- tratto da "Il Foglio")

07 agosto 2011

Tiro al pellegrino



Scatenare una tempesta perfetta al largo di Giava o di Terranova è un gioco da ragazzi. Ma per farla deflagrare dentro una pozzanghera occorrono gli sforzi congiunti delle migliori menti del Parlamento e del giornalismo italiani. La tempesta del pellegrinaggio in Terra Santa è infuriata per poche ore, sufficienti però per strapazzare una pattuglia bipartisan di cattolici attoniti. E la sua genesi è davvero "perfetta", per linearità e pretestuosità.La sintesi è racchiusa nel titolone a pagina 13 di un quotidiano romano: «Si va in Terra Santa, la Camera non riapre», con un "dunque" sottinteso subito dopo la virgola. Era vero l’esatto contrario: la Camera non riapre, dunque si va in Terra Santa. Come accade da sette anni: un centinaio di parlamentari di ogni schieramento va in pellegrinaggio per alcuni giorni durante il periodo di chiusura della Camera. C’è chi va di diporto con la barchetta; chi pianta l’ombrellone sulla spiaggia esclusiva; chi si avventura in paesi esotici; chi adagia le stanche membra sul bordo della piscina privata; niente da ridire. Ma se vai in Terra Santa, magari facendoti ospitare in modeste locande, zam, il laico fulmine ti incenerisca.Uno dei più sbalorditi è colui che è additato come l’organizzatore, il "ciellino" Lupi. Perbacco, ha detto, se le urgenze incalzano, se l’emergenza preme, accorciamo le ferie, anticipiamo il pellegrinaggio e fine dei problemi. Fine? Macché. Perfino il sagace e implacabile corsivista del quotidiano del nordovest ieri, in prima pagina, indossava i panni del Padreterno, l’unico in grado di scrutare nelle coscienze altrui, e sentenziava: «Pellegrinaggio? No, una bella vacanza». Pagata da loro? Alt! «Formalmente a spese loro, ma di fatto pagata con lo stipendio che noi gli verseremo puntualmente anche a settembre perché continuino a darci il cattivo esempio». Per dire: se un parlamentare in agosto si lava i denti, il dentifricio glielo stiamo finanziando noi: si vergogni.Si sa com’è andata a finire. Vacanze accorciate, le Camere riaprono martedì 6 settembre. Ottimo. Si comincia con il botto: «Discussione generale sulla relazione della Commissione europea per il 2011, sul Programma di 18 mesi del Consiglio dell’Unione europea presentato dalle presidenze polacca, danese e cipriota e sulla Relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia all’Unione europea per l’anno 2011». Non osiamo immaginare l’affollamento, neanche uno scranno vuoto. Nei giorni immediatamente successivi dovrebbero essere eletti, in una seduta comune con il Senato (che però non ha dato ancora l’ok e difficilmente, visto il suo calendario, potrà darlo) un giudice della Corte costituzionale e un componente del Consiglio superiore della magistratura. Irrimandabile, poi, la proposta di legge per la commercializzazione del metano per autotrazioni.Manovre economiche, la scuola tagliuzzata che riapre con l’affanno, l’occupazione giovanile, i processi eterni, l’assistenza a malati cronici e disabili, le famiglie strangolate, esuli e immigrati che premono sulle nostre coste, i prezzi di beni essenziali che salgono senza alcuna giustificazione? Nulla di tutto questo. Ma una proposta di legge sulle truppe alpine, che le stesse truppe alpine direbbero: prego, ci sono cose più urgenti, date la precedenza a quelle.La tempesta perfetta dentro la pozzanghera è stata scatenata per tutto questo. O forse no. Casualmente, a far la figura dei tiratardi irresponsabili sono stati i cattolici, di sinistra destra centro, quelli che perdono tempo facendosi «una bella vacanza» nei luoghi di spiritualità. Prima la tempesta perfetta, poi il tiro al piccione.

(di Umberto Folena- tratto da "Avvenire")