Quando tocca a loro, ai laicisti, ragionare sull’ethos privato di un uomo pubblico che considerano nemico, Berlusconi, lo fanno invitando esplicitamente la chiesa all’ingerenza, alla scomunica, alla condanna iperpolitica. Criticando la gerarchia perché sceglie una posizione di equilibrio e un modo di ragionare laico e incline alle distinzioni, insinuano interessi obliqui e patti col demonio del potere per chi non faccia vibrare il bastone canonico contro il reprobo. Pubblicano su MicroMega e su Repubblica invettive moraleggianti di vescovi emeriti, indicono crociate clericali (con l’eccezione dei loro unici moralisti veri, Serra e Sofri), mentre i monaci da sbarco scoprono sulla Stampa di Gianni & Lapo il peccato della lussuria. E questo incredibile battage neoclericale, questo lungo comizio integralista, lo chiamano profezia.
28 gennaio 2011
La sfacciataggine dei laicisti
Quando tocca a loro, ai laicisti, ragionare sull’ethos privato di un uomo pubblico che considerano nemico, Berlusconi, lo fanno invitando esplicitamente la chiesa all’ingerenza, alla scomunica, alla condanna iperpolitica. Criticando la gerarchia perché sceglie una posizione di equilibrio e un modo di ragionare laico e incline alle distinzioni, insinuano interessi obliqui e patti col demonio del potere per chi non faccia vibrare il bastone canonico contro il reprobo. Pubblicano su MicroMega e su Repubblica invettive moraleggianti di vescovi emeriti, indicono crociate clericali (con l’eccezione dei loro unici moralisti veri, Serra e Sofri), mentre i monaci da sbarco scoprono sulla Stampa di Gianni & Lapo il peccato della lussuria. E questo incredibile battage neoclericale, questo lungo comizio integralista, lo chiamano profezia.
20 gennaio 2011
Quei bacchettoni feroci e senza fede

Questi boriosi sbandieratori di questioni etiche e morali sono infatti in primo luogo dei disperati bacchettoni. Bacchettoni – va da sé – senza fede, senza nessuna fede, salvo, naturalmente, quella che essi hanno nella loro buffa pretesa di essere, nonostante tutte le severe bocciature impartite loro dalla storia, la crème spirituale del paese, se non del mondo. Nulla di più ridicolo. Eppure proprio in questa bacchettoneria senza fede è racchiuso forse tutto il sugo di quella micidiale ideologia, sopravvissuta al crollo delle sue sorelle e cuginette comuniste e nazifasciste, che è la superstizione laicista. La quale in effetti consiste appunto nell’illusione di poter recidere ogni legame fra l’etica e il sacro, la morale e il sentimento religioso, l’Europa e le sue radici cristiane, il senso della giustizia e quello della giustizia divina. Illusione ormai confutata dagli effetti micidiali che ha prodotto negli ultimi due secoli, e tuttavia ancora oggi capace, da noi, di produrre sciami di demoni assolutamente identici a quelli così descritti da Nietzsche nella sua «Genealogia della morale»; «Noi soltanto siamo i buoni, i giusti - dicono costoro, - noi soltanto siamo gli uomini di buona volontà». Si aggirano tra noi come rimproveri viventi. Oh, quanto costoro sono pronti, in fondo, a far espiare! Quanta è la loro sete di diventare carnefici! Pullulano tra loro i bramosi di vendetta travestiti da giudici, che hanno sempre in bocca una bava avvelenata, sempre con una smorfia sulle labbra, sempre pronti a sputare su tutto quanto non ha l’aria scontenta e va di buon animo per la sua strada. Fra costoro non manca neppure quella nauseabonda genia di vanitosi, aborti di menzogna, che mirano a fare da «anime belle», e a esibire sul mercato, avvolta in versi e in altri pannolini, la loro malconcia «sensualità come purità di cuore: la genia degli onanisti morali».
(di Ruggero Guarini- tratto da "Il Tempo")
16 gennaio 2011
Quando Dio vale meno di un gatto

Secondo lo Zingarelli, il termine significa indignarsi o suscitare indignazione, sconvolgersi, presumendo con ciò che vi sia un principio su cui fondare il proprio comportamento e, di conseguenza, il violarlo è considerato scorretto, sconveniente o maleducato. Ma nella società attuale scandalizzarsi non ha più senso, almeno per i più. Tutto è ormai scandalo e, per una semplice deduzione, nulla, ovviamente, lo è più.
Oggi, si dice, c’è la voglia di trasgredire, ognuno fa quello che crede specialmente per rivendicare una propria personalità, soprattutto tra i più giovani. E così avviene che in una trasmissione televisiva, “Il grande Fratello”, un ragazzo, con tanto di madre che fa la catechista, bestemmi in diretta davanti alle telecamere, ottenendo così il suo minuto di pubblicità.
Come altre volte è capitato per altre trasmissioni, per il concorrente si preparano le valigie per uscire dal gioco, ma ecco il colpo di scena salvifico: sempre in diretta dagli studi Mediaset, il giovane viene assolto, dopo un vivace dibattito, dal giornalista Alfonso Signorini, dalla mamma presente in studio – che ripetiamo è anche catechista - ed ovviamente dal pubblico, con la consacrazione definitiva della Marcuzzi.
Il ragazzo rientra nella Casa perché in fondo non è successo nulla di grave, diciamolo pure, una bestemmia può capitare a tutti di pronunciarla: siamo o no liberi di fare quel che ci pare? Come afferma qualche “illuminato” sociologo, la bestemmia è anche una forma per comunicare il proprio disagio agli altri ed allora vai con la bestemmia, la nuova forma di dialogo tra le persone, tanto Dio forse c’è, ma sicuramente non si vede, almeno con gli occhi.
Ma non è finita qui, anzi se c’è un perdono deve essere per tutti, nessuno escluso, e così per accontentare lo show bussines, un concorrente che lo scorso anno aveva “esternato il proprio disagio” con una simpatica bestemmia, è stato riammesso nella Casa. Bella trovata! In questo modo la parola blasfema è ormai derubricata, non certo come peccato grave per la Chiesa (credo che di ciò nulla importi ai partecipanti al gioco) ma almeno come atto di maleducazione.
Non c’è che dire, un bell’esempio di valori che se ne vanno. Poi ci lamentiamo se sui mezzi pubblici, ad esempio, salgono frotte di ragazzini che strillando e ridendo bestemmiano allegramente. Ma è solo il loro modo di esprimersi, ormai lo sappiamo che lo fanno anche i grandi in televisione e dunque offendere Dio, per un sillogismo un po’ stiracchiato, è una cosa lecita!
Tempo fa salii con mia moglie su di un autobus e ci capitò di riprendere un ragazzino che con i suoi amichetti bestemmiava senza neanche accorgersi di quello che diceva. Morale: non solo il ragazzino ci ha mandati a quel paese, ma altre persone presenti se la sono presa con noi perché eravamo dei bacchettoni. Ancora, per fortuna, non c’era stata la puntata incriminata del Grande Fratello: pensate come ci avrebbe risposto oggi quel ragazzino!
A questo punto sento il dovere di spezzare una lancia a favore di un certo Bigazzi, il quale è stato estromesso da una trasmissione televisiva di successo che si occupa di cucina perché aveva raccontato come in tempo di guerra dalle sue parti si mangiavano i gatti, fornendo anche la ricetta. Subito è scattato lo scandalo di animalisti e di telespettatori infuriati che vedevano già il loro gattino in salmì. Non dico che non fosse giusto, ma nessuno che io sappia si è scandalizzato con pari vigore, salvo parte della stampa cattolica, per la bestemmia in televisione.
Ma volete mettere sullo stesso piano Dio con il gatto di casa? Non scherziamo, se bestemmiamo Dio è un modo, come abbiamo già accennato, per affermare il proprio disagio, forse per aprire un dialogo con gli altri che altrimenti sarebbe difficile; ma con il gatto la situazione è ben più grave, è un animale e, come tale, ha i suoi diritti inalienabili e va salvaguardata la sua dignità. Chi è un retrogrado come me è avvisato.
14 gennaio 2011
Bio testamenti comunali, un flop annunciato
Discorso bloccato per quanto riguarda Torino, nonostante l’approvazione in giunta a novembre. «Il registro non è ancora attivo – spiega Giovanni Maria Ferraris, assessore ai Servizi civici – dopo la circolare interministeriale che stoppa i testamenti biologici e la risposta critica dell’Anci, la giunta ha deciso di sospendere l’applicazione della delibera, in attesa di un approfondimento giuridico». A Cagliari e provincia (oltre 560 mila abitanti, un terzo dei sardi), spiega Angela Quaquero, assessore provinciale alle Politiche sociali, si sono avvalsi di quest’opportunità «una cinquantina di persone, in genere motivate e preparate. Non è un bisogno di massa, certo, ma un diritto in più». A Genova (oltre 600 mila abitanti) il Comune da novembre 2009 ha raccolto circa 170 testamenti. «All’inizio erano in tanti a interessarsi, poi il flusso si è stabilizzato», racconta Romani, dell’ufficio competente. A Calenzano (16 mila abitanti), in provincia di Firenze, Alessandro Landi, responsabile ai servizi demografici, spiega che dopo la circolare ministeriale «non proponiamo più un modello prestampato di testamento, come facevamo prima. Continuiamo però a tenere un registro su cui annotiamo le dichiarazioni di chi ha fatto i testamenti, ma non li custodiamo né conosciamo il contenuto». Da luglio 2009 ne hanno raccolti circa 50.
La recente circolare dei ministri Sacconi, Maroni e Fazio ha fatto per ora archiviare il registro a Cattolica (Forlì-Cesena), dov’era stato istituito il 1° ottobre 2010. «In due mesi, comunque, non avevamo avuto nessuna richiesta, tranne una domanda di informazioni da parte di un signore insieme alla madre», racconta Stefania Gianoli, responsabile dell’Ufficio relazioni con il pubblico. Allo stesso modo, il Comune di Palermo fa sapere che «non si è dotato di un registro dei testamenti, anche in considerazione dei contenuti della nota».
Testamento biologico «congelato» anche a Bologna, dove secondo il commissario Cancellieri è meglio occuparsi di cose più «urgenti».
In alcuni altri Comuni di dimensioni medie e piccole i testamenti biologici realmente attivati sono mosche bianche. È il caso di Alba (provincia di Cuneo, 31 mila abitanti), dove da marzo 2010 «abbiamo raccolto solo due dichiarazioni», dice per il Comune Bruna Vero. A Barile (Potenza), unico Comune della Basilicata ad aver lanciato il registro, Mario Giuliano confida che da giugno 2009 «solo tre persone ci hanno portato il testamento. Quasi me ne vergogno».
Una ventina le dichiarazioni anticipate di volontà raccolte dal maggio 2010 dal Comune di Arezzo (100 mila abitanti). Più consistenti i numeri di Roma, dove i testamenti vengono raccolti dai Municipi X e XI sono rispettivamente 900 (da aprile 2009) e 200 (da ottobre 2009), ma per una popolazione urbana di oltre due milioni e mezzo di abitanti.
«Vincoliamo la dichiarazione di fine vita a un atto notorio sostitutivo, per garantire la copertura giuridica», dice Sandro Medici, presidente del Municipio X. «Già due persone ce li hanno richiesti, per farli valere davanti al proprio medico». Peccato che, in assenza di una legge nazionale, non valgano nulla.
09 gennaio 2011
Ma Messori sta con il Papa o con il Grande Imam?

Lasciamo perdere le discutibilissime escursioni nel VII secolo, sull’invasione araba dell’Egitto e del Nord Africa. Ho cercato ansiosamente nel testo messoriano almeno una frase che mettesse in rilievo il cuore del problema (come benissimo lo enunciò il Papa a Ratisbona), cioè l’irrisolto rapporto dell’Islam con la violenza, questione certamente nota a Messori, questione che ha orrende ricadute non solo sui cristiani, ma sui rapporti dei musulmani con tutte le altre religioni e civiltà, oltreché su varie questioni sociali (penso alle condizioni delle donne).
Ma purtroppo questa frase non l’ho trovata. Una condanna senza appello si trova nell’articolo, ma non è rivolta contro l’irrisolta commistione fra Islam e violenza. No. La condanna sembra toccare al “sionismo” (accusato di “violenta intrusione”), sionismo che non c’entra assolutamente niente con l’attentato alla cattedrale cristiana di Alessandria (forse Messori qui intendeva descrivere l’ideologia islamista, ma non sembra dissociarsi da quel giudizio sul sionismo). Fra i cattivi senza attenuanti Messori cita pure il solito Bush (con gli amerikani). Anche i cristiani sono da lui rappresentati in modo tutt’altro che lusinghiero.
Quello con cui invece l’intellettuale cattolico concorda è il Grande Imam del Cairo, Al Tayyeb, secondo cui l’attentato “non è un attacco ai cristiani, ma all’Egitto intero”. Ora, questo Ahmed Al Tayyeb è il tipo che ha accusato il Papa di “ingerenza” negli affari interni egiziani quando il Pontefice ha condannato la strage di cristiani alla messa del 1° gennaio.
Questo Grande Imam è anche il tipo che sempre all’indomani della strage, intervistato dal Corriere della sera, di nuovo – come ha notato Ippolito sullo stesso Corriere – “si è sentito in dovere di rimbeccare il Papa che chiedeva protezione per i fedeli in Oriente”, sostenendo testualmente che tale “appello del Pontefice alla difesa dei fedeli può creare malintesi”.
Il Grande Imam è arrivato fino al punto di esigere dal papa “un gesto distensivo verso i musulmani, come se sull’altra sponda del Mediterraneo a essere minacciati fossero i seguaci del Corano”.
Questi rilievi critici sono sempre di Ippolito. E stupisce che non si trovino invece nell’editoriale di Messori uscito ieri. Egli non fa alcun riferimento critico a quelle incredibili dichiarazioni del Grande Imam. Anzi, lo cita per dire che in quella frase (sull’attentato come attacco all’Egitto) “non ha torto”.
Personalmente invece ritengo anche quella una frase molto ambigua.
Par di capire che, secondo Al Tayyeb, l’Islam, anche egiziano, sarebbe una meraviglia e i terroristi sarebbero un corpo estraneo che viene a far traballare questo idilliaco mondo musulmano e lo stato egiziano.
E da cosa sarebbe provocata la violenza di tali terroristi? Ecco la risposta che Messori dà (assai condivisa fra i musulmani) dopo aver avallato la frase dell’Imam: “Tutti i governi di tutte le nazioni islamiche sono sotto lo tsunami che ha avuto come detonatore l’intrusione violenta del sionismo che è giunto a porre la sua capitale a Gerusalemme, città santa per i credenti quasi pari alla Mecca. Ira, umiliazione, senso di impotenza hanno dato avvio a un panislamismo che intende demolire le frontiere e i regimi attuali per giungere a un blocco comune e ferreo di fedeli nel Corano. Una sorta di superpotenza che possa sfidare persino gli Stati Uniti, padrini di Israele”.
A chiunque appare evidente che il teorema di Messori non sta in piedi: se il problema fosse davvero il sionismo, perché massacrano i copti che sono cittadini egiziani sempre stati fedeli allo stato egiziano?
Se il problema fosse davvero la fondazione dello stato di Israele, nel 1948, perché da quattordici secoli l’Islam cerca di conquistare e sottomettere i paesi cristiani (sono arrivati fino a Vienna, fino alla Sicilia e fino ai Pirenei, prima di essere respinti)? E’ noto del resto che certi gruppi islamisti si sentono orfani della Palestina tanto quanto si sentono defraudati dell’Andalusia e magari domani della Sicilia: che facciamo, gliele ridiamo? Chiedo ancora: perché il genocidio turco degli armeni cristiani (il primo del Novecento) avvenne decenni prima della nascita di Israele?
E perché, infine, i “Fratelli musulmani” esistono dal 1928-1929?
E perché sono riemersi con fanatismo solo negli anni Ottanta anziché nel 1948? E potrebbe spiegare, Messori, come e perché il regime islamista di Karthoum, in Sudan, per venti anni, dal 1980, ha massacrato i cristiani e gli animisti neri del Sud, provocando una strage di due milioni di vittime?
Glielo dico io: perché rifiutavano l’imposizione della sharia, non perché – migliaia di chilometri lontano da loro – esisteva lo Stato di Israele.
E perché, all’altro capo del mondo, il regime indonesiano ha invaso Timor est e ha massacrato un’enorme porzione della popolazione cristiana di Timor est, senza che nessuno – né Indonesia, né abitanti di Timor est, si fossero mai interessati a Israele e Palestina?
La verità è ben altra. Sentiamola da due storici (peraltro non cattolici). “Per quasi mille anni” ha scritto Bernard Lewis “dal primo sbarco moresco in Spagna al secondo assedio turco di Vienna, l’Europa è stata sotto la costante minaccia dell’Islam”. Samuel Huntington ha ricordato inoltre che “l’Islam è l’unica civiltà ad aver messo in serio pericolo e per ben due volte, la sopravvivenza dell’Occidente”. Stante questa duratura utopia imperialistica dell’Islam, dove religione e politica sono una cosa sola, il grande trauma del mondo islamico è stato rappresentato dalla fine dell’Impero Ottomano, dopo la prima guerra mondiale.
Quello è stato il detonatore. Poi, dalla decolonizzazione, le élites arabe hanno puntato su movimenti politici laici, di ideologia socialista e/o nazionalista. Questi regimi sono stati i primi ad affossare la possibilità di uno stato palestinese e, con l’ideologia panaraba e antisionista, si sono lanciati in una serie di guerre per l’eliminazione di Israele uscendone a pezzi.
Così i loro regimi illiberali, spesso corrotti e perlopiù fallimentari – per cercare un nemico esterno da additare alle folle fanatizzate – hanno alimentato l’odio anti-israeliano e anti-occidentale, ancor più forte quanto più il nostro modello di vita e di benessere è da quei popoli agognato.
Odio che – dopo la rivoluzione sciita iraniana degli anni Settanta – si è espresso in una rinascita dell’islamismo fondamentalista.
Il vero problema è il mancato appuntamento dei paesi arabi e islamici con la democrazia e il riconoscimento dei diritti dell’uomo. E il mancato appuntamento dell’Islam con il ripudio di ogni violenza.
L’invito del Papa ad Assisi è l’altra faccia di Ratisbona: il tentativo da parte dei cristiani di aiutare chi vuole liberare il sentimento religioso, che si esprime nelle varie religioni, dalla violenza e dall’intolleranza.
Un’ultima nota: il titolo dell’articolo di Messori era “Le radici dell’odio contro i cristiani”. Ma i cristiani sono stati odiati, perseguitati e massacrati, negli ultimi duecento anni, sotto tutti i regimi e le ideologie. E lo sono tuttora, per esempio in tutti i regimi comunisti.
Dunque la “radice dell’odio” non può essere nell’esistenza di Israele. E Messori lo sa. Allora perché non dirlo? Perché scrivere editoriali di quel genere?
08 gennaio 2011
La profezia di Oriana
"...Sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente oppure d’apparire razzisti, (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata all’Inverso. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia e dalla cretineria dei Politically Correct, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione forse, (forse?), comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad, Guerra Santa. Una guerra che forse non mira alla conquista del nostro territorio, (forse?), ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime: alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà, all’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci... Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri...
Cristo! Non vi rendete conto che gli Osama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador anzi il burkah, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v’importa neanche di questo, scemi? Io sono atea, graziaddio. Irrimediabilmente atea. E non ho alcuna intenzione d’esser punita per questo da barbari che invece di lavorare e contribuire al miglioramento dell’umanità se ne stanno col sedere all’aria cioè a pregare cinque volte al giorno. Da vent’anni lo dico, da vent’anni. Con una certa mitezza e non con questa collera, con questa passione, vent’anni fa su tutto ciò scrissi un articolo di fondo.
Era l’articolo di una persona abituata a stare con tutte le razze e tutti i credi, d’una cittadina abituata a combattere tutti i fascismi e tutte le intolleranze, d’una laica senza tabù. Ma nel medesimo tempo era l’articolo d’una persona indignata con chi non sentiva il puzzo d’una Guerra Santa a venire, e ai figli di Allah gliene perdonava un po’ troppe. Feci un ragionamento che anche allora suonava pressappoco così: «Che senso ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha difendere la loro cultura o presunta cultura quando essi disprezzano la nostra? Io voglio difendere la nostra, e v’informo che Dante Alighieri e Shakespeare e Molière e Goethe e Walt Whitman mi piacciono più di Omar Khayyam». Apriti cielo. Mi mangiarono viva. Mi esposero alla pubblica gogna, mi crocifissero.
«Razzista, razzista!». Furono le cicale di lusso anzi i cosiddetti progressisti (a quel tempo si chiamavano comunisti) a crocifiggermi. Del resto l’insulto razzista- razzista me lo presi anche quando i sovietici invasero l’Afghanistan. Li ricordi i barbuti con la sottana e il turbante che a ciascun colpo di mortaio gridavano le lodi del Signore cioè il bercio Allah akbar, Dio-è-grande, Allah-akbar? Io li ricordo eccome. E a sentir accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i brividi. Mi pareva d’essere nel Medioevo e dicevo: «I sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li ringrazio». Riapriti cielo. «Razzista, razzista!». Nella loro cecàggine non volevan neanche sentirmi parlare delle mostruosità che i figli di Allah commettevano sui militari sovietici fatti prigionieri. Ai militari sovietici segavano le gambe e le braccia, rammenti? Un vizietto cui s’erano già abbandonati in Libano coi prigionieri cristiani ed ebrei. (Né è il caso di meravigliarsi, visto che nell’Ottocento lo facevano sempre ai diplomatici e agli ambasciatori. Soprattutto inglesi. Anzi a loro tagliavano anche la testa, e con questa giocavano a buskachi. Una specie di polo.
Le gambe e le braccia, invece, le esponevano come trofei nelle piazze o al bazaar). Tanto che gliene importava, alle cicale di lusso, d’un povero soldatino ucraino che giaceva in un ospedale con le braccia e le gambe segate? Nel loro cinismo applaudivano addirittura gli americani che, rincretiniti dalla paura dell’Unione Sovietica, riempivan di armi l’eroico-popolo-afgano. Addestravano i barbuti e coi barbuti (Dio li perdoni, io no) un barbutissimo di nome Osama Bin Laden. «Via i russi dall’Afghanistaaan! I russi devono andarsene dall’Afghanistaaan!». Bè, i russi se ne sono andati. Contenti?E dall’Afghanistan i barbuti del barbutissimo Osama Bin Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati siriani, egiziani, iracheni, libanesi, palestinesi, sauditi, tunisini, algerini, insomma coi diciannove che componevano la banda dei kamikaze identificati. Contenti? (...)
Da quando i nostri nemici ci hanno regalato l’Undici Settembre, le cicale non si stancano mai di ripetere che i mussulmani sono una cosa e i fondamentalisti o integralisti mussulmani un’altra. Che il Corano ha molte versioni, che viene letto con molte interpretazioni, ma in ogni sua versione ed interpretazione predica la pace e la fratellanza e la giustizia. (Lo dice anche Bush. Per tenersi buoni i suoi cinque milioni di americani arabo-mussulmani, suppongo. Per indurli a spifferare quel che sanno su eventuali parenti o amici devoti a Osama Bin Laden. Povero Bush). Ma in nome della logica: se il Corano è tanto fraterno e tanto pacifico, come la mettiamo col fatto che il Profeta fosse uno spietato guerriero e quindi un uomo tutt’altro che fraterno e pacifico? Come la mettiamo col fatto che avesse personalmente guidato ventisette battaglie, personalmente sgozzato settecento nemici, personalmente incendiato tre città? Come la mettiamo col fatto che i suoi avversari li liquidasse come un capo mafioso, che i suoi rivali li eliminasse con atrocità da rabbrividire? (...) Come la mettiamo col fatto che il Corano predichi senza sosta la Guerra Santa, che i paesi dove non regna l’Islam li definisca «Dar al-Harb» cioè Terra-da-conquistare?
Come la mettiamo col fatto che i non-mussulmani li chiami cani-infedeli, che li tratti da inferiori anche se si convertono, che lungi dal raccomandare un qualsiasi perdono imponga la legge dell’Occhio-per-Occhio-e-Dente-per-Dente, che tale legge la consideri il Sale della Vita? Come la mettiamo con la faccenda del chador o meglio del burkah che copre le donne dalla testa ai piedi, volto compreso, sicché per vedere quel che c’èal di là di quel sudario una disgraziata de-ve guardare attraverso la fittissima rete posta all’altezza degli occhi? Come la mettiamo con la faccenda della poligamia ossia delle quattro mogli (però su speciale dispensa dell’Arcangelo Gabriele il Profeta ne aveva sedici), o con la faccenda degli harem dove le concubine e le schiave vivono a mo’ di prostitute nei bordelli? Come la mettiamo con la storia delle adultere lapidate o decapitate, e della pena capitale per chi beve alcool? Come la mettiamo con la legge sui ladri a cui il Corano ingiunge di tagliar la mano, al primo furto la sinistra, al secondo furto la destra, al terzo non so cosa però mi pare che al terzo il castigo consista nel bucare le pupille con un ferro rovente? Cito a caso, affidandomi alla memoria. Certo il Sacro Libro offre esempi ancora più gravi. Nondimeno questi bastano, e non mi sembra che esprimano pace e fratellanza e misericordia e giustizia. Non mi sembra nemmeno che esprimano intelligenza.
E a proposito d’intelligenza: è vero che gli odierni santoni della Sinistra o di ciò che chiamano Sinistra non vogliono udire ciò che dico? È vero che a udirlo danno in escandescenze, strillano inaccettabile-inaccettabile? Si son forse convertiti tutti all’Islam e anziché le Case del Popolo ora frequentano le moschee? Oppure strillano così per compiacere il Papa che su certe cose apre bocca solo per chiedere scusa a chi gli rubò il Santo Sepolcro? Boh! Lo zio Bruno aveva ragione a dire che l’Italia non ha avuto la Riforma ma è il paese che ha vissuto più intensamente la Controriforma. (...) Oh, sì, mio caro. La Crociata all’Inverso, la Crociata dei nuovi Mori dura da tempo. È ormai irreversibile e per avanzare non ha bisogno di eserciti che a colpi di bombarda abbattono le mura di Costantinopoli. Cannoneggiate dalla nostra misericordia, dalla nostra debo-lezza, dalla nostra cecità, dal nostro masochismo, le mura delle nostre città sono già cadute: l’Europa sta già diventando una gigantesca Andalusia. Per questo i nuovi Mori con la cravatta trovano sempre più complici, fanno sempre più proseliti.
Per questo diventano sempre di più, pretendono sempre di più, ottengono sempre di più, spadroneggiano sempre di più. E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici. Diventeranno sempre di più, pretenderanno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spengere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell’indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso...".
03 gennaio 2011
Laiche ragioni della libertà religiosa

Soprattutto dopo l’escalation degli attacchi omicidi contro i cristiani in varie parti del mondo, l’ultimo contro una chiesa copta ad Alessandria d’Egitto. Il Papa il suo nome sotto quell’affermazione l’ha di fatto già messo firmando il suo messaggio per la giornata mondiale della pace che si è celebrata ieri. Il titolo è inequivocabile: “Libertà religiosa, via per la pace”. L’alternativa, per Joseph Ratzinger, è secca: o una vera libertà religiosa o una «minaccia alla sicurezza, alla pace» che comporta la rinuncia a «un autentico sviluppo umano integrale». Il Papa lo dice sin dall’inizio del suo pontificato: l’alternativa alla libertà religiosa - che implica l’espressione pubblica della fede e il riconoscimento del ruolo della religione nell’agorà culturale, civile e politica - è una sottomissione sempre più grave dell’uomo al potere; una «visione riduttiva della persona umana» che genera «una società ingiusta perché non proporzionata alla vera natura della persona».
Se la vita di ogni singola persona non ha senso, non ha senso neanche la condanna della sua uccisione. Se non esiste una verità che dia significato all’esistenza singola e sociale, non ha verità la condanna degli attentati contro la libertà di ricercare questa verità. E infatti queste condanne, soprattutto quando si tratta di violenze contro i cristiani - «attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede» (Benedetto XVI) -, giungono sempre meno, hanno spesso il sapore del dovuto, quando la particolare efferatezza o le dimensioni dell’attacco non permettono l’indifferenza, ormai il triste tratto distintivo delle coscienze occidentali verso i loro progenitori spirituali e culturali.
Iraq, Cina, Pakistan, Egitto, Indonesia, Sudan, Nigeria, Turchia, India, Vietnam... l’elenco delle «regioni del mondo in cui non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale» sta diventando tragicamente lungo. Ed è laicamente insopportabile che dei credenti - come ha detto Papa Ratzinger nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu il 18 aprile 2008 - «debbano sopprimere una parte di se stessi - la loro fede - per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti».
Sento già l’obiezione: la mano assassina contro i cristiani è armata da un altro Dio. È l’alibi di chi si professa campione del dialogo e non si accorge quando il dialogo avviene davvero. Sono frutto anche degli incontri di Assisi queste parole di Giovanni Paolo II per la Giornala mondiale della pace del 2002: «Il fanatismo fondamentalista è un atteggiamento radicalmente contrario alla fede in Dio. A ben guardare il terrorismo strumentalizza non solo l’uomo, ma anche Dio, finendo per farne un idolo di cui si serve per i propri scopi... Nessun responsabile delle religioni, pertanto, può avere indulgenza verso il terrorismo e, ancor meno, lo può predicare. È profanazione della religione proclamarsi terroristi in nome di Dio, far violenza all’uomo in nome di Dio». Non è nell’atteggiamento religioso la radice della volontà dell’eliminazione dell’altro (anche se per questa consapevolezza è stata necessaria la purificazione della storia), semmai nell’ideologia, come il secolo scorso ci ha drammaticamente documentato.
Ora, torna a ripetere Benedetto XVI, l’idolo contemporaneo si presenta con «due tendenze opposte, due estremi entrambi negativi: da una parte il laicismo, che, in modo spesso subdolo, emargina la religione per confinarla nella sfera privata; dall’altra il fondamentalismo, che invece vorrebbe imporla a tutti con la forza. In realtà, “Dio chiama a sé l’umanità con un disegno di amore che, mentre coinvolge tutta la persona nella sua dimensione naturale e spirituale, richiede di corrispondervi in termini di libertà e di responsabilità, con tutto il cuore e con tutto il proprio essere, individuale e comunitario”. Là dove si riconosce effettivamente la libertà religiosa, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice e, attraverso una sincera ricerca del vero e del bene, si consolida la coscienza morale e si rafforzano le stesse istituzioni e la convivenza civile. Per questo la libertà religiosa è via privilegiata per costruire la pace» (Angelus del 1° gennaio 2011). Capisco che queste parole suonino ostiche a molte orecchie occidentali, ma - per tornare a Malraux - non è e non sarà il relativismo culturale e morale o l’indifferenza verso la dimensione trascendente dell’uomo ciò che può fermare il fondamentalismo.
La dignità e la libertà della persona possono trovare fondamento solo nella sua dimensione trascendente. Se il singolo è totalmente determinato dai suoi antecedenti biologici, sociali o culturali, diventa di proprietà di chi possiede o sa determinare questi fattori: in ultima istanza il potere. Sia quello dei genitori, o della biotecnologia, o della politica. E non ha ragioni ultime per opporsi. Non ha dalla sua un diritto inalienabile da contrapporre all’allora inevitabile legge del più forte. C’è solo un caso in cui l’essere umano può invocare la sua insopprimibile libertà: il suo essere direttamente in rapporto con un fattore esterno al mondo, alla situazione storica, alle condizioni sociali. Il Papa parla di «apertura al Mistero», l’essenza di ogni religione. Non è casuale che ogni totalitarismo, più o meno esplicito, abbia sempre perseguitato la religione, incominciando col censurare la sua espressione pubblica.
Allora, la politica e la diplomazia, dice in sintesi il Papa, non possono essere indifferenti alla verità morale, anzi, debbono «promuoverla». Che cosa questo voglia dire viene ben declinato nel suo messaggio: «Vuol dire agire in maniera responsabile sulla base della conoscenza oggettiva e integrale dei fatti; vuol dire destrutturare ideologie politiche che finiscono per soppiantare la verità e la dignità umana e intendono promuovere pseudo-valori con il pretesto della pace, dello sviluppo e dei diritti umani; vuol dire favorire un impegno costante per fondare la legge positiva sui principi della legge naturale. Tutto ciò è necessario e coerente con il rispetto della dignità e del valore della persona umana, sancito nella Carta delle Nazioni Unite del 1945».
02 gennaio 2011
Il potere contro i cristiani

La regione nordorientale di Jos, già di recente luogo di scontri tra etnie diverse, è una zona molto povera, dove la tensione stratificata nel corso di decenni di risentimenti tra i gruppi autoctoni, per lo più cristiani o animisti, sta pesantemente aumentando a causa della prepotenza dei migranti e dei coloni provenienti dal nord musulmano.
Uno di questi gruppi è il movimento fondamentalista xenofobo, molto attivo dal 2004 nella area di Maiduguri, nella Nigeria nordorientale. Si tratta di un movimento populista composto per gran parte di giovani disoccupati e non istruiti che non parlano inglese ma solo arabo e la lingua locale chiamata hausa. Sono contrari alla Costituzione e allo stato federale e si battono per uno stato islamico puro secondo criteri di drammatica violenza urbana.
Il gruppo sottolinea la validità di una violenza dissacrante a tuttotondo che prende di mira tutto ciò che ha a che fare con l’Occidente, ad esempio i libri dell’Occidente, ma anche l’abbigliamento, la religione e la laicità dell’Occidente, nonché la democrazia e il capitalismo industriale.
In Nigeria il cristianesimo è una realtà molto viva e radicata nella società. Molto influenti sono, infatti, alcune associazioni di chiese cristiane evangeliche battiste e pentecostali. Religione e politica sono da sempre connesse in Nigeria: c’è grande competizione tra le chiese protestanti e le diverse correnti islamiche, moderate e integraliste, che sono in perenne lotta per il potere. L’Islam fondamentalista si batte contro il monopolio religioso degli ordini Sufi, i grandi ordini mistici della Nigeria. I cristiani per loro rappresentano l’Occidente e la democrazia. Il loro obiettivo è l’imposizione a tutti della Sharia, che è già applicata in 12 stati nel nord della Nigeria con conseguenze devastanti per i diritti umani della popolazione.
In Terrasanta, dove mi sono recato nei giorni scorsi proprio per dare sostegno ideale alle comunità cristiane perseguitate, ho incontrato parecchi pellegrini nigeriani: il loro timore è proprio che si possa arrivare alla sharia imposta ai non islamici.
I cristiani sono vittime, come accade in gran parte del mondo, di un vero e proprio progetto di potere. Negli ultimi cinque anni, le persone uccise per odio religioso sono quasi sempre cristiane: tre su quattro, secondo un recente studio Osce.
La Nigeria è uno dei paesi più importanti della dell’Africa subsahariana: è membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, è un paese produttore di petrolio a livello globale, detiene un ruolo guida in seno alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Eecowas), è uno dei paesi che contribuiscono maggiormente alle operazioni di mantenimento della pace, nonché un fattore di stabilizzazione nell’Africa occidentale.
Per tutte queste ragioni la stabilità e la democrazia del paese rivestono una grande importanza direttamente oltreconfine: gli effetti della crescente violenza in Nigeria potrebbero essere devastanti anche per le comunità cristiane dei paesi limitrofi, ma anche per il già lento sviluppo economico dell’intera regione.
Se questi attacchi dovessero continuare nell’indifferenza delle autorità nigeriane, sarebbe indispensabile per l’Ue sospendere gli effetti dell’accordo di Cotonou finalizzato allo sviluppo dei paesi Acp per questo paese. Non può esserci, infatti, sviluppo economico a discapito dei diritti umani. Considerando che l’Unione europea è uno dei donatori finanziari principali per la Nigeria (il 12 novembre 2009, ad esempio, la Commissione europea e il governo federale della Nigeria hanno sottoscritto il documento strategico per paese e il programma nazionale indicativo per il periodo 2008-2013 per la Nigeria, in virtù dei quali l’Ue finanzierà progetti intesi, tra l’altro, a garantire la pace, la sicurezza e i diritti umani), l’Alto Rappresentante della politica estera Ue, Catherine Ashton, deve lanciare un preciso segnale di monito nei confronti del governo nigeriano. In Nigeria, come in India, Pakistan, Cina, Iraq, Iran, e molti altri paesi, rapporti economici e aiuti vanno vincolati alle garanzie di tutela delle minoranze, religiose ed etniche.
29 dicembre 2010
Death Panels

Gli avversari di Barack Obama dicono: death panels, comitati della morte. C’è enfasi in questo, e c’è in questo accento forte il dramma politico che ha portato alla eliminazione di questi protocolli dalla legge di riforma del sistema sanitario, per riproporli dal primo gennaio via regolamento, a sorpresa, a tradimento. Gente in buona fede, anche cattolici come Martini e Verzé e le ribelli suore americane, gente che arde di zelo per un compromesso apostolico con i tempi, pensa così: la medicina ha preso un posto ingente nella vita d’oggi, l’età media si è allungata, esiste un problema sociale, quello del protrarsi inutile delle cure o addirittura di accanimenti non desiderati, e bisogna risolverlo come si può, consacrando l’autonomia personale, l’autodeterminazione degli individui di fronte alla fine della loro vita, insomma il diritto di morire.
Qualche elemento di verità in questo modo di ragionare c’è, naturalmente. Siamo diversamente esposti, rispetto a tempi in cui il bios era un fondo di bottiglia misterioso, alla scienza medica, nel bene e nel male. E la libertà di determinarsi come si vuole ha fatto tali progressi che per molti, forse grandi maggioranze, è impensabile cederne anche solo una quota all’idea astratta, metafisica, che siamo una creatura umana, un intoccabile costrutto di anima e corpo che per la vita e per la morte dipende da Dio o da un rapporto insondabile con l’essere delle cose e della persona. Dipende cioè da una relazione che può essere interrotta in forza della nostra volontà privata, in un abbandono fiducioso nella zona grigia tra vita e non vita, ma che è irriducibile, in termini di diritto, di legge, di regolamento pubblico, alla decisione sovrana di ciascuno di noi o, peggio, della comunità che decide per noi sulla questione fatale del nulla.
Nel secolo scorso si era creduto che la battaglia finale sarebbe stata tra comunisti ed ex comunisti, lo diceva il vecchio e saggio scrittore Ignazio Silone. Invece con il nuovo secolo è sempre più chiaro che la resa dei conti sarà tra un secolarismo della specie più pervasiva e un cristianesimo eviscerato della sua virtualità normativa, privato della sua influenza sociale e politica e civile. Quel medico di un leader a suo modo cristiano come Obama che ogni anno, per regolamento, parlerà con milioni di vecchi americani di ogni ceppo, ispanici, neri, wasp, caraibici, polacchi, italiani, irlandesi e così via, è l’Ersatz, il sostituto sociologico e spirituale del prete confessore, e la nuova religione secolarista, religione culturale e ideologica senza rivelazione e senza la talare ma con un suo clero in càmice molto incisivo, questa nuova religione è la medicina federale: ti obbliga ad assicurarti ma al tempo stesso ti chiede di liberarti senza tante storie della tua vita calante per risparmiare sui costi inutili della salute pubblica, e ti confonde nella testa le due nozioni di salute e salvezza, bene e benessere. Con il pretesto libertario della tua autodeterminazione.
27 dicembre 2010
Basta con la Messa creativa, in chiesa silenzio e preghiera

Da cardinale, Joseph Ratzinger aveva lamentato una certa fretta nella riforma liturgica postconciliare. Qual è il suo giudizio?
«La riforma liturgica è stata realizzata con molta fretta. C'erano ottime intenzioni e il desiderio di applicare il Vaticano II. Ma c'è stata precipitazione. Non si è dato tempo e spazio sufficiente per accogliere e interiorizzare gli insegnamenti del Concilio, di colpo si è cambiato il modo di celebrare. Ricordo bene la mentalità allora diffusa: bisognava cambiare, creare qualcosa di nuovo. Quello che avevamo ricevuto, la tradizione, era vista come un ostacolo. La riforma è stata intesa come opera umana, molti pensavano che la Chiesa fosse opera delle nostre mani, invece che di Dio. Il rinnovamento liturgico è stato visto come una ricerca di laboratorio, frutto dell'immaginazione e della creatività, la parola magica di allora».
Da cardinale Ratzinger aveva auspicato una «riforma della riforma» liturgica, parole oggi impronunciabili persino in Vaticano. Appare però evidente che Benedetto XVI la desideri. Può parlarcene?
«Non so se si possa, o se convenga, parlare di "riforma della riforma". Quello che vedo assolutamente necessario e urgente, secondo ciò che desidera il Papa, è dar vita a un nuovo, chiaro e vigoroso movimento liturgico in tutta la Chiesa. Perché, comespiega Benedetto XVI nel primo volume della sua Opera Omnia, nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Cristo è presente nella Chiesa attraverso i sacramenti. Dio è il soggetto della liturgia, non noi. La liturgia non è un'azione dell'uomo, ma è azione di Dio».
Il Papa più che con le decisioni calate dall'alto, parla con l'esempio: come leggere i cambiamenti da lui introdotti nelle celebrazioni papali?
«Innanzitutto non deve esserci alcun dubbio sulla bontà del rinnovamento liturgico conciliare, che ha portato grandi benefici nella vita della Chiesa, come la partecipazione più cosciente e attiva dei fedeli e la presenza arricchita della Sacra Scrittura. Ma oltre a questi e altri benefici, non sono mancate delle ombre, emerse negli anni successivi al Vaticano II: la liturgia, questo è un fatto, è stata "ferita" da deformazioni arbitrarie, provocate anche dalla secolarizzazione che purtroppo colpisce pure all'interno della Chiesa. Di conseguenza, in tante celebrazioni, non si pone più al centro Dio, ma l'uomo e il suo protagonismo, la sua azione creativa, il ruolo principale dato all'assemblea. Il rinnovamento conciliare è stato inteso come una rottura e non come sviluppo organico della tradizione. Dobbiamo ravvivare lo spirito della liturgia e per questo sono significativi i gesti introdotti nelle liturgie del Papa: l'orientamento dell'azione liturgica, la croce al centro dell'altare, la comunione in ginocchio, il canto gregoriano, lo spazio per il silenzio, la bellezza nell'arte sacra. È anche necessario e urgente promuovere l'adorazione eucaristica: di fronte alla presenza reale del Signore non si può che stare in adorazione».
Quando si parla di un recupero della dimensione del sacro c'è sempre chi presenta tutto questo come un semplice ritorno al passato, frutto di nostalgia. Come risponde?
«La perdita del senso del sacro, del Mistero, di Dio, è una delle perdite più gravi di conseguenze per un vero umanesimo. Chi pensa che ravvivare, recuperare e rafforzare lo spirito della liturgia, e la verità della celebrazione, sia un semplice ritorno a un passato superato, ignora la verità delle cose. Porre la liturgia al centro della vita della Chiesa non è affatto nostalgico, ma al contrario è la garanzia di essere in cammino verso il futuro».
Come giudica lo stato della liturgia cattolica nel mondo?
«Di fronte al rischio della routine, di fronte ad alcune confusioni, alla povertà e alla banalità del canto e della musica sacra, si può dire che vi sia una certa crisi. Per questo è urgente un nuovo movimento liturgico. Benedetto XVI indicando l'esempio di san Francesco d'Assisi, molto devoto al Santissimo Sacramento, ha spiegato che il vero riformatore è qualcuno che obbedisce alla fede: non si muove in modo arbitrario e non si arroga alcuna discrezionalità sul rito. Non è il padrone ma il custode del tesoro istituito dal Signore e consegnato a noi. Il Papa chiede dunque alla nostra Congregazione di promuovere un rinnovamento conforme al Vaticano II, in sintonia con la tradizione liturgica della Chiesa, senza dimenticare la norma conciliare che prescrive di non introdurre innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità per la Chiesa, con l'avvertenza che le nuove forme, in ogni caso, devono scaturire organicamente da quelle già esistenti».
Che cosa intendete fare come Congregazione?
«Dobbiamo considerare il rinnovamento liturgico secondo l'ermeneutica della continuità nella riforma indicata da Benedetto XVI per leggere il Concilio. E per far questo bisogna superare la tendenza a "congelare" lo stato attuale della riforma postconciliare, in un modo che non rende giustizia allo sviluppo organico della liturgia della Chiesa. Stiamo tentando di portare avanti un grande impegno nella formazione di sacerdoti, seminaristi, consacrati e fedeli laici, per favorire la comprensione del vero significato delle celebrazioni della Chiesa. Ciò richiede un'adeguata e ampia istruzione, vigilanza e fedeltà nei riti e un'autentica educazione per viverli pienamente. Questo impegno sarà accompagnato dalla revisione e dall'aggiornamento dei testi introduttivi alle diverse celebrazioni (prenotanda). Siamo anche coscienti che dare impulso a questo movimento non sarà possibile senza un rinnovamento della pastorale dell'iniziazione cristiana».
Una prospettiva che andrebbe applicata anche all'arte e alla musica...
«Il nuovo movimento liturgico dovrà far scoprire la bellezza della liturgia. Perciò apriremo una nuova sezione della nostra Congregazione dedicata ad "Arte e musica sacra" al servizio della liturgia. Ciò ci porterà a offrire quanto prima criteri e orientamenti per l'arte, il canto e la musica sacri. Come pure pensiamo di offrire prima possibile criteri e orientamenti per la predicazione».
Nelle chiese spariscono gli inginocchiatoi, la messa talvolta è ancora uno spazio aperto alla creatività, si tagliano persino le parti più sacre del canone: come invertire questa tendenza?
«La vigilanza della Chiesa è fondamentale e non deve essere considerata come qualcosa di inquisitorio o repressivo, ma un servizio. In ogni caso dobbiamo rendere tutti coscienti dell'esigenza, non solo dei diritti dei fedeli, ma anche del "diritto di Dio"».
Esiste anche il rischio opposto, cioè quello di credere che la sacralità della liturgia dipenda dalla ricchezza dei paramenti: una posizione frutto di estetismo che sembra ignorare il cuore della liturgia...
«La bellezza è fondamentale, ma è qualcosa di ben diverso da un'estetismo vuoto, formalista e sterile, nel quale invece talvolta si cade. Esiste il rischio di credere che la bellezza e la sacralità del liturgia dipendano dalla ricchezza o dall'antichità dei paramenti. Ci vuole una buona formazione e una buona catechesi basata sul Catechismo della Chiesa cattolica, evitando anche il rischio opposto, quello della banalizzazione, e agendo con decisione ed energia quando si ricorre a usanze che hanno avuto il loro senso nel passato ma oggi non ce l'hanno o non aiutano in alcun modo la verità della celebrazione».
Può dare qualche indicazione concreta su che cosa potrebbe cambiare nella liturgia?
«Più che pensare a cambiamenti, dobbiamo impegnarci nel ravvivare e promuovere un nuovo movimento liturgico, seguendo l'insegnamento di Benedetto XVI, e ravvivare il senso del sacro e del Mistero, mettendo Dio al centro di tutto. Dobbiamo dare impulso all'adorazione eucaristica, rinnovare e migliorare il canto liturgico, coltivare il silenzio, dare più spazio alla meditazione. Da questo scaturiranno i cambiamenti...».
(di Andrea Tornielli- tratto da "Il Giornale")
23 dicembre 2010
Il prodigio che tutti aspettiamo

Oggi ci troviamo tutti di fronte a una «crisi dell’umano», che si documenta come stanchezza e disinteresse verso la realtà e che coinvolge tutti gli ambiti che hanno a che fare con la vita della gente. È una disgrazia per tutti, infatti, che le persone non si mettano in gioco con la loro ragione e la loro libertà. E proprio in questo momento la Chiesa ha davanti a sé un’avventura affascinante, la stessa delle origini: testimoniare che c’è qualcosa in grado di risvegliare e suscitare un interesse vero. «Anche il mio cuore aspetta, / alla luce guardando ed alla vita, / altro prodigio della primavera». Tutti noi, come il poeta Antonio Machado, aspettiamo il miracolo della primavera, in cui vedere compiersi la nostra vita. E se qualcuno dirà, ancora col poeta, che è un sogno, perché lo aspettiamo? Perché questa attesa ci costituisce nell’intimo, come scrive Benedetto XVI: «L’uomo aspira ad una gioia senza fine, vuole godere oltre ogni limite, anela all’infinito» (Luce del mondo, p. 95). Ma l’uomo può decadere, il mondo può cercare di scalzare questo desiderio dell’infinito minimizzandolo; può perfino prenderlo in giro offrendo qualcosa che attira per qualche tempo, ma che non dura, e alla fine lascia solo più insoddisfatti e più scettici. Ora, la prova della verità di ciò che affascina e risveglia un interesse è che deve durare. Ma anche le cose più belle – lo vediamo quando si ama una persona o quando si intraprende un nuovo lavoro – vengono meno. Il problema della vita, allora, è se esiste qualcosa che dura.
Il cristianesimo ha la pretesa – perché la sua origine non è umana, anche se si può vedere nei volti degli uomini che lo hanno incontrato – di portare l’unica risposta in grado di durare nel tempo e nell’eternità. Però un cristianesimo ridotto non è in grado di fare questo. Sappiamo per esperienza che esiste un modo astratto di parlare della fede che non suscita la minima curiosità. Se il cristianesimo non viene rispettato nella sua natura, così come è comparso nella storia, non può mettere radici nel cuore.Il cristianesimo è sempre messo alla prova di fronte al desiderio del cuore, e non se ne può liberare: è Cristo stesso che si è sottoposto a questa prova. L’aspetto affascinante è che Dio, spogliandosi del Suo potere, si è fatto uomo per rispettare la dignità e la libertà di ciascuno. Incarnandosi, è come se avesse detto all’uomo: «Guarda un po’ se, vivendo a contatto con me, trovi qualcosa di interessante che rende la tua vita più piena, più grande, più felice. Quello che tu non sei capace di ottenere con i tuoi sforzi, lo puoi ottenere se mi segui». È stato così fin dall’inizio. Quando i due primi discepoli domandano: «Dove abiti?», Egli risponde: «Venite e vedrete». La sua semplicità è disarmante. Dio si affida al giudizio dei primi due che Lo incontrano. L’uomo non può evitare di paragonare continuamente ciò che accade con le sue esigenze fondamentali.
Qualcuno potrebbe obiettare che all’epoca di Gesù si vedevano i miracoli, ma oggi non è più tempo di prodigi. Non è così, perché questa esperienza continua ad avere luogo, come il primo giorno: quando incontri persone che risvegliano in te un interesse e un’attrattiva tali che ti obbligano a fare i conti con quello che ti è accaduto. Come dice il Papa, «Dio non si impone. […] La sua esistenza si manifesta in un incontro, che penetra nella più intima profondità dell’uomo» (Luce del mondo, p. 240).
Alcuni anni fa un mio amico è andato a studiare arabo a Il Cairo. Ha incontrato un professore musulmano. L’incontro si sarebbe potuto svolgere secondo gli stereotipi dell’uno e dell’altro. Ma è accaduta una cosa inattesa: sono diventati amici. Il musulmano ha domandato al mio amico perché era cristiano, e questi lo ha invitato in Italia, dove ha conosciuto il Meeting di Rimini. Trascinato dall’incontro con una realtà umana diversa, ha voluto realizzare il Meeting de Il Cairo, coinvolgendo molti giovani egiziani, musulmani e cristiani.
Di recente, a Mosca, ho conosciuto persone che fino a poco tempo fa non avevano niente a che fare con la fede. L’hanno scoperta incontrando dei cristiani che le avevano incuriosite. Alcune erano battezzate nella Chiesa ortodossa e si sono interessate al cristianesimo – cosa che non avevano mai fatto prima – grazie ad amici che lo vivevano con intensità e pienezza.
Non sono storie del passato, ma qualcosa che accade ora, nel presente.
Nella sua recente visita in Spagna, Benedetto XVI ha invitato a un dialogo tra laicità e fede. E come lo ha fatto? Indicando una presenza, un testimone, Gaudì, che con la Sagrada Familia «è stato capace di creare […] uno spazio di bellezza, di fede e di speranza, che conduce l’uomo all’incontro con colui che è la verità e la bellezza stessa». Il Papa ha sfidato tutti rendendo contemporaneo lo sguardo di Cristo e indicando l’esperienza nuova che Egli immette nella vita: chiunque può interessarsene o rifiutarla. Quando Benedetto XVI ci chiama alla conversione ci sta dicendo che per testimoniare Cristo, per farci «trasparenza di Cristo per il mondo», dobbiamo percorrere un cammino umano fino a scoprire la pertinenza della fede alle esigenze della nostra vita. Non so se qualche cattolico si può sentire escluso dalla chiamata del Papa. Io no.
22 dicembre 2010
Gerry Scotti e la nuova evangelizzazione

Le quattro possibili risposte erano: battesimo, cresima, confessione e comunione. Il ragazzo è rimasto di stucco. Non frequentava i sacramenti da parecchio. Ha dunque pensato di affidarsi all’aiuto del pubblico, uno degli aiuti a cui si può ricorrere per una volta soltanto nel corso della gara. Gli spettatori del “milionario” presenti in studio, pubblico vario ed eterogeneo, hanno quindi usato il loro personale telecomando per suggerire al giovane la risposta esatta.
Con una certa sorpresa, ben l’81 per cento degli spettatori ha sbagliato, indicando sacramenti diversi dalla confessione, che è stata scelta soltanto dal 19 per cento dei votanti. Anche Gerry Scotti, pur con il suo fine umorismo, non ha nascosto un certo sconcerto. Se qualcuno volesse la prova di che cosa significhino le parole secolarizzazione e scristianizzazione, basta che osservi esempi come questo. Esempi che peraltro dimostrano anche il fallimento di certa catechesi moderna, che sembra non aver lasciato segno alcuno.
Il ragazzo di Ponte Lambro, facendo un sforzo di memoria, alla fine ha ritenuto che “confessione” fosse la parola che aveva più legami con “penitenza” e “riconciliazione”, e così, nonostante il pubblico, ha risposto in modo corretto. Episodi del genere permettono di comprendere meglio, credo, quell’urgenza della nuova evangelizzazione che ha spinto Benedetto XVI a istituire un apposito nuovo dicastero appositamente dedicato a questo compito.
20 dicembre 2010
La rabbia e la speranza

Non che non ne abbiano ragioni. Questi sono i ragazzi del precariato infinito, lieti, a trent’anni, di un contratto che ne dura tre; e ci si chiede come ci si fa una famiglia, o una casa, con prospettive così brevi. Figli generati dalla generazione del posto fisso e spesso supergarantito, si affacciano al lavoro in tempi di crisi, mentre la globalizzazione del mercato abbatte come una falce i privilegi che credevamo intoccabili. Cresciuti nel benessere, educati al consumismo, intravedono un orizzonte in implosione, dove saranno più poveri dei loro genitori. Si sentono tratti in inganno: la vita è più dura di quanto era loro stato fatto credere, nell’educazione spesso troppo conciliante, eredità del motto sessantottino 'vietato vietare', filtrata in tante famiglie. Sono arrabbiati perché assistono a un deterioramento vistoso della politica, dove il 'bene comune' pare pura retorica. Sono arrabbiati, ancora, in molti, benché difficilmente lo dicano, per i privati travagli di tante loro famiglie, divise, abbandonate, o per le grandi solitudini di figli unici cresciuti davanti alla tv.
Eredi inconsapevoli di un nichilismo respirato nell’aria: non trasmesso dai padri il filo di un senso della vita, di una positiva speranza, che aveva sostenuto generazioni ben più povere e materialmente travagliate. Dunque, le ragioni di rabbia non mancano. Ma, davanti al ritornare su troppi media della parola 'rabbia', non ci si può non chiedere dove porti, la rabbia. Dove si va se, davvero, si ha solo rabbia addosso? Anche in una casa il vivere con la maschera dell’astio, della rivendicazione, della pretesa porta al disastro. L’avere anche oggettive ragioni di rancore, poi, pone in un rischio: sentirsi vittime, 'giusti', anime a posto, e solo l’altro colpevole di tutti i nostri mali. È il sentimento che legittima le armi, quando qualcuno si convince che un mondo giusto lo si debba imporre.
La 'rabbia' coltivata, vezzeggiata, è una strada cieca. Viene da domandarsi però: avevano forse meno ragioni di rabbia i ventenni del dopoguerra, reduci da un massacro, tornati in città distrutte? Quei ragazzi avevano, però, anche qualcosa di molto grande: il desiderio di ricostruire un’altra Italia. Ciò che permise, anche nella fame e nel lutto, di portare via le macerie e ricominciare. Quella generazione, che per i ragazzi di oggi è quella dei nonni, era cresciuta dentro l’humus di grandi speranze: che fossero la fede e l’idea cristiana di una società equa o il socialismo, erano cose che impostavano la vita. Vivevano, comunque, certi che non si vivesse per sé soli; sicuri di un senso del continuare nei figli, anche quando emigravano a lavorare in città lontane e straniere; in modi diversi, erano abitati da un gran desiderio di vita.
L’ultimo rapporto del Censis parla di un «calo del desiderio» in Italia, del desiderio di fare, costruire, iniziare. (Quel desiderio, quella fiducia, che per i cristiani è la speranza). Non è anche per una crisi di speranza che i ragazzi si sentono traditi? Se una generazione non ha tramandato questo desiderio, ha mancato di molto. E però la rabbia non basta. Occorre ricominciare, e occorre che ricomincino i figli.
Come? Sentite questo dialogo fra due ragazzi dell’anno 1942, forse il più oscuro della guerra. Lei è Etty Hillesum, giovane ebrea che morirà a Auschwitz. Lui è un amico comunista. «Vedi, Klaas, non si combina niente con l’odio. (..) Ognuno deve distruggere in sé stesso ciò che vorrebbe distruggere negli altri. Ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende più inospitale». E Klaas, annota la Hillesum nel suo
Diario, «Da arrabbiato militante di classe ha replicato: ma questo, sarebbe di nuovo cristianesimo! E io, divertita da tanto smarrimento: certo, cristianesimo. Perché poi no?».
15 dicembre 2010
L'incanaglimento della politica
12 dicembre 2010
Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell'uomo
A sorpresa il Rapporto Censis 2010 ha individuato la natura della crisi in un «calo del desiderio» che si manifesta in ogni aspetto della vita. Abbiamo meno voglia di costruire, di crescere, di cercare la felicità. A questo fatto andrebbe attribuita la responsabilità delle «evidenti manifestazioni di fragilità sia personali sia di massa, comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro». Come mai, se siamo stati in grado di raggiungere importanti obiettivi nel passato (casa, lavoro, sviluppo…), adesso «siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto» e a un ciclo storico pieno di interesse e voglia di fare ne segue un altro segnato dal suo annullamento?
Tutto questo ci mostra che la crisi è sì sociale, economica e politica, ma è soprattutto antropologica perché riguarda la concezione stessa della persona, della natura del suo desiderio, del suo rapporto con la realtà. Ci eravamo illusi che il desiderio si sarebbe mantenuto in vita da solo o addirittura che sarebbe stato più vivo nella nuova situazione di benessere raggiunto. L’esperienza ci mostra, invece, che il desiderio può appiattirsi se non trova un oggetto all’altezza delle sue esigenze. Ci ritroviamo così tutti «sazi e disperati». «Nell’appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti; e nella astenia generale l’alternativa qual è? Un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza genialità e senza spazio, e un moralismo d’appoggio allo Stato come ultima fonte di consistenza per il flusso umano», come disse don Giussani ad Assago nel 1987.
Venticinque anni dopo vediamo che entrambe queste risposte − volontarismo individualista e speranza statalista- non sono state in grado di darci la consistenza auspicata e ci troviamo ad affrontare la crisi più disarmati, più fragili che in passato. Paradossalmente, i nostri nonni e genitori erano umanamente meglio attrezzati per affrontare simili sfide. Il Censis centra di nuovo il bersaglio quando identifica la vera urgenza di questo momento storico: «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare una società troppo appagata e appiattita ». Ma chi o che cosa può ridestare il desiderio? È questo il problema culturale della nostra epoca. Con esso sono costretti a misurarsi tutti coloro che hanno qualcosa da dire per uscire dalla crisi: partiti, associazioni, sindacati, insegnanti. Non basterà più una risposta ideologica, perché di tutti i progetti abbiamo visto il fallimento. Saremo perciò costretti a testimoniare un’esperienza.
Anche la Chiesa, il cui contributo non potrà limitarsi a offrire un riparo assistenziale per le mancanze altrui, dovrà mostrare l’autenticità della sua pretesa di avere qualcosa in più da offrire. Come ha ricordato Benedetto XVI, «il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà». Dovrà mostrare che Cristo è così presente da essere in grado di ridestare la persona − e quindi tutto il suo desiderio − fino al punto di non farla dipendere totalmente dalle congiunture storiche. Come? Attraverso la presenza di persone che documentano un’umanità diversa in tutti i campi della vita sociale: scuola e università, lavoro e imprenditoria, fino alla politica e all’impegno nelle istituzioni. Persone che non si sentono condannate alla delusione e allo sconcerto, ma vivono all’altezza dei loro desideri perché riconoscono presente la risposta.
Possiamo sperare di uscire dalla drammatica situazione attuale se tutti − compresi i governanti che oggi hanno la difficile responsabilità di guidare il Paese attraverso questa profonda crisi − decidiamo di essere veramente ragionevoli sottomettendo la ragione all’esperienza, se cioè, liberandoci da ogni presunzione ideologica, siamo disponibili a riconoscere qualcosa che nella realtà già funziona. Sostenere chi, nella vita sociale e politica, non si è rassegnato a una misura ridotta del proprio desiderio e per questo lavora e costruisce mosso da una passione per l’uomo, è il primo contributo che possiamo dare al bene di tutti.
Comunione e Liberazione
08 dicembre 2010
Siamo fatti per donare
Mentre si comincia a dare un’occhiata, ancora senza troppo impegno, a vetrine e promozioni, mentre si fanno i primi svagati sondaggi su desideri e gusti, un pensiero rintocca nel profondo: ma cosa ha davvero senso regalare? Certo, la crisi ci ha insegnato a misurare con altra attenzione il denaro, a valutare con più senso critico il valore vero di oggetti, di beni che a volte beni veri e propri non sono, ma sfizi, lussi piccoli o grandi, e a riconoscere come superfluo quel che ieri ci pareva necessario. Ma non è solo una sorta di 'complesso morale' determinato dalle notizie sulla crisi e dalla realtà di minori risorse a muovere questa strana cosa nuova e antica che chiamerei 'eccitazione pensosa' al regalo. Credo che ci sia qualcosa di più profondo. Come se la circostanza della crisi avesse almeno in parte aiutato a mettere a fuoco meglio anche il valore del farsi regali. Da un lato, infatti, il gesto del donare qualcosa sfugge a qualsiasi calcolo. È bello fare doni anche se si ha poco. Anche se le risorse diminuiscono. Donare è un atto non superfluo. Si può rinunciare a parecchie cose, ma non a donare. Perché fa parte della nostra natura umana. Un uomo che non dona è diventato meno uomo. Nella gratuità 'assurda' di fare un regalo anche quando sono aumentati i nostri bisogni, nella gratuità che va contro ogni logica di tornaconto pur in un momento in cui si devono più attentamente fare i conti, risiede un barlume di vero intorno alla nostra natura: l’uomo è fatto per donare, per donarsi. C’è un impeto positivo che fa parte della nostra natura, prima e sopra ogni altro. Questo barlume di verità – così piccolo ma evidente e tenace – può illuminare non solo il piccolo e breve episodio del periodo dei regali di Natale, ma potrebbe indicare qualcosa di importante a riguardo della vita sociale.
Occorre scommettere su questo indirizzo positivo della nostra natura. Lo stesso su cui si fondano tante iniziative di valore sociale pubblico per tutti, nei campi dell’assistenza e dell’educazione e in altri settori. Sul fatto che l’uomo è un essere che dona, si può fondare una visione della società e della sua organizzazione non più improntata al sospetto e alla mortificazione burocratica e impositiva della società. Dall’altro lato, questa eccitazione pensosa che ci prende nel periodo di Natale è una sottolineatura del bene che sono i legami, le relazioni che compongono concretamente ed esistenzialmente la vita di una persona. L’uomo è un essere che dona e ha legami. Il fatto che tali legami siano oggetto di attenzione particolare, di scambio di doni, ci fa vedere come la risorsa principale della nostra vita (anche in un’epoca di crisi) non stia nella chiusura egoistica, paurosa e calcolatrice in termini di diritti e doveri. Si ha vera società intorno non all’uomo che come una monade isolata pensa a se stesso, misurando o inventando bisogni e diritti in astratto, ma alla persona come nodo di relazioni viventi, nelle quali si evidenziano non solo potenti indicazioni della natura, ma anche limiti e rispetto.
L’uomo che dona e non è fatto per la solitudine è il regalo di Natale che tutti possiamo ricevere mentre iniziamo a pensare quali regali belli fare, ma belli davvero, siano essi piccole cose graziose o beni che vogliamo restino come nostra eredità.
05 dicembre 2010
Basta con le Messe in libertà

La recente esortazione post-sinodale la "Verbum Domini" di Benedetto XVI, è stata frettolosamente presentata dalla stampa come un richiamo del Papa contro le "inutili divagazioni" nelle omelie. Però nelle duecento pagine del documento papale, datato 30 settembre 2010 e reso pubblico il successivo 11 novembre, il Papa non si rivolge solo ai sacerdoti, alla loro grande responsabilità, soprattutto quando stanno celebrando l'eucarestia: "Benedetto XVI non si rivolge solo agli specialisti di esegesi biblica, - scrive Massimo Introvigne, direttore del Cesnur- Dal momento che la Parola di Dio è al centro di tutta la vita cristiana, anzi al centro del cosmo e della storia, l'esortazione apostolica è occasione per un'ampia ricognizione che parte dalla Bibbia ma si estende al rapporto tra fede e ragione, alla cultura, alla missione, all'instaurazione dell'ordine temporale e perfino all'arte e a Internet. Una particolare attenzione è dedicata all'interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II". (Massimo Introvigne, Il Papa, il Vaticano II e la parola di Dio, Cesnur. org). Il Papa, nell'esortazione, raccomanda che le omelie, non devono essere "generiche ed astratte, che occultino la semplicità della Parola di Dio (…) che rischiano di attirare l'attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico. Per il Papa, "deve risultare chiaro ai fedeli che ciò che sta a cuore al predicatore è mostrare Cristo, che deve essere al centro di ogni omelia. Per questo occorre che i predicatori abbiano confidenza e contatto assiduo con il testo sacro; si preparino per l'omelia nella meditazione e nella preghiera, affinché predichino con convinzione e passione". Comunque le raccomandazioni del Pontefice sulla cura delle celebrazioni eucaristiche, sono importanti, perché esiste tra i fedeli un certo malessere contro il far west delle messe, come si può dedurre da due libri pubblicati recentemente.
In questi giorni in libreria si può trovare un volume del teologo don Nicola Bux, "Come andare a Messa e non perdere la fede", Piemme, pubblica tra l'altro anche i consigli ai predicatori di uno scrittore e di un giornalista che sa farsi ascoltare. Messori consiglia al prete di predicare secondo queste tre regole auree del giornalismo: semplificare, personalizzare, drammatizzare.
Benedetto XVI indica le sue, a proposito delle omelie: "Che cosa dicono le letture proclamate? Che cosa dicono a me personalmente? Che cosa devo dire alla comunità, tenendo conto della sua situazione concreta?". Una particolare attenzione il Papa la chiede anche nei canti che accompagnano la celebrazione, "favorendo" quelli di "chiara ispirazione biblica". In particolare il Pontefice, suggerisce di "valorizzare quei canti che la tradizione della Chiesa ci ha consegnato (...)Penso in particolare all'importanza del canto gregoriano". L' altro libro è uscito l'anno scorso, una inconsueta e significativa "Guida alle messe", sottotitolo: quelle da non perdere: dove e perché, scritta da Camillo Langone, pubblicata dalla laica Mondadori. Chissà se il Papa nel preparare la Verbum Domini, ha dato un'occhiata a queste pubblicazioni.
Langone che è editorialista de Il Foglio, Il Giornale e Panorama, nel libro recensisce (brevi schede) circa 200 delle messe migliori o peggiori d'Italia, un viaggio alla ricerca della Messa come Dio comanda.
L'autore, non avendo il dono dell'ubiquità, per realizzare la Guida, è stato aiutato da molti amici collaboratori, molti appartenenti all'associazionismo cattolico tra il più qualificato. Langone critica e polemizza con certi ambienti ecclesiastici per il degrado liturgico che ha preso il sopravvento dopo le cosiddette aperture del Concilio Vaticano II. Ma le messe non sono tutte uguali? Si chiede Langone. E' la tipica obiezione di chi a messa c'è stato l'ultima volta quando aveva quattordici anni, oppure di chi da quattordici anni frequenta la stessa parrocchia, e si è convinto che il mondo finisca lì.
E invece le messe sono tutte diverse. Chi passasse senza adeguata preparazione dalla messa teocentrica, lunghi silenzi vibranti di sacro, di Santa Maria della Pietà (Bologna), alla messa antropocentrica, logorroica e fracassona, di Santa Maria a Mare (Maiori, Costiera Amalfitana) penserebbe a due religioni diverse. Certo, Langone lo scrive, la messa è sempre valida, il sacramento pure anche se il prete è indegno, se ci sono canti strazianti, tamburelli, chitarre elettriche e altre amenità. Può cambiare solo il suo potenziale di conversione. La Guida, la prima del genere, è un censimento, una valutazione della messa, in particolare, e dell'arredamento delle chiese (sedie, candeliere). In una chiesa di frati francescani, Langone polemizza ricordando che il loro fondatore (S. Francesco) insegnò la genuflessione persino a una pecorella: "Quando nel corso della messa, veniva elevato il sacratissimo corpo di Cristo, essa si prostrava con le zampe piegate, come a rimproverare i distratti per la loro irriverenza ed invitare i devoti di Cristo ad un più intenso fervore verso il Sacramento". Molti credono che inginocchiarsi alla consacrazione è facoltativo, invece non è così. O credi nella Presenza Reale e allora ti inginocchi, o non credi e allora che cosa vieni in Chiesa a fare? "Nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra (Lettera ai Filippesi, 2, 10). Nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, dove non c'è uno straccio di inginocchiatoio, ma solo orribili sedie di plastica grigia, Langone ricorda anche che di solito ci si inginocchia se intorno si inginocchiano, si resta in piedi se intorno si resta in piedi. Questa a prescindere da comodità o scomodità. Scriveva Papa Ratzinger, prima di diventare papa: "L'incapacità a inginocchiarsi appare addirittura come l'essenza stessa del diabolico. Una fede o una liturgia che non conoscono più l'atto di inginocchiarsi, sono ammalate in un punto centrale". La Guida non entra in merito alle costruzioni delle chiese anche se facilmente si capisce che preferisce quelle che rispettano la tradizione, in particolare a croce greca. Si può pregare ovunque, ma la fede si fortifica meglio laddove l'edificio parla di Dio ancor prima che lo faccia il sacerdote. All'interno della chiesa, si cerca sempre come segno distintivo la Croce che dovrebbe essere sempre davanti all'altare maggiore, ben visibile allo sguardo del popolo radunato. Inoltre si bada al silenzio che è condizione prima di ogni azione sacra. La Guida critica aspramente l'uso dei tamburelli, delle chitarre elettriche, ci piacciono quando vogliamo ballare, non quando vogliamo pregare. C'è uno strumento per ogni momento e la messa non è il momento delle percussioni, ordigni dionisiaci che nell'ebrezza della possessione trascinano verso terra, non verso il cielo. Ai trambusti Langone preferisce il bell'organo a canne e magari il canto gregoriano. Questo non significa che l'autore della Guida sia un retrogrado reazionario che rifiuta i cambiamenti per partito preso, anzi è favorevole alle novità come i siti internet, è giusto che le parrocchie si dotino di questi ottimi strumenti, ma un sito deve essere fatto bene e costantemente aggiornato altrimenti si fa più bella figura non averlo. Sarebbe opportuno però che ci pensasse un giovane di medie competenze informatiche che voglia regalare a Gesù un paio d'ore al mese. I preti hanno troppo impegni. Infine riflessione personale: in una scheda Langone afferma che non bisogna meravigliarsi quando certe chiese sono snobbate o abbandonate dai fedeli, confido che mi è capitato quasi sempre frequentare altre chiese rispetto alla mia parrocchia. E' capitato in Sicilia, capita ora anche qui dove vivo, preferisco andare a messa a Milano nel tempio civico di S. Sebastiano in via Torino, dove si viene edificati dalle ottime omelie di don Maurizio, all'interno di una chiesa come Dio comanda.
02 dicembre 2010
Ho scritto al Presidente Napolitano per il suo commento sul suicidio di Monicelli
Non posso rispettare l'azione compiuta da Monicelli, e non posso condividere la posizione di chi, come il Presidente della Repubblica, invoca tale rispetto, perché non credo affatto che il suo sia stato un gesto libero. Credo che una presenza affettuosa al suo fianco avrebbe potuto prevenire quel gesto. E anche perché tale rispetto può essere interpretato come giustificazione, e perciò come incoraggiamento al suicidio nei riguardi delle persone che si trovano in condizioni di difficoltà e di dolore. Il messaggio che dobbiamo mandare a tutte queste persone è la vicinanza, la solidarietà, la fraternità e il senso del nostro apprezzamento per la loro vita e la loro persona come cose preziose. Non un astratto rispetto che di fatto sminuisce il valore della vita umana.
30 novembre 2010
Il messaggio del Santo Padre per la morte di Manuela Camagni

volentieri avrei presieduto le Esequie della cara Manuela Camagni, ma – come potete immaginare – non mi è stato possibile. Tuttavia, la comunione in Cristo permette a noi cristiani una reale vicinanza spirituale, in cui condividiamo la preghiera e l’affetto dell’anima. In questo vincolo profondo saluto tutti voi, in modo particolare i familiari di Manuela, il Vescovo diocesano, i sacerdoti, i Memores Domini, gli amici.
Vorrei qui offrire molto brevemente la mia testimonianza su questa nostra Sorella, che è partita per il Cielo. Molti di voi conoscono Manuela da lungo tempo. Io ho potuto beneficiare della sua presenza e del suo servizio nell’appartamento pontificio, negli ultimi cinque anni, in una dimensione familiare. Per questo desidero ringraziare il Signore per il dono della vita di Manuela, per la sua fede, per la sua generosa risposta alla vocazione. La divina Provvidenza l’ha condotta a un servizio discreto ma prezioso nella casa del Papa. Lei era contenta di questo, e partecipava con gioia ai momenti di famiglia: alla santa Messa del mattino, ai Vespri, ai pasti in comune e alle varie e significative ricorrenze di casa.
Il distacco da lei, così improvviso, e anche il modo in cui ci è stata tolta, ci hanno dato un grande dolore, che solo la fede può consolare. Molto sostegno trovo nel pensare alle parole che sono il nome della sua comunità: Memores Domini. Meditando su queste parole, sul loro significato, trovo un senso di pace, perché esse richiamano ad una relazione profonda che è più forte della morte. Memores Domini vuol dire: "che ricordano il Signore", cioè persone che vivono nella memoria di Dio e di Gesù, e in questa memoria quotidiana, piena di fede e d’amore, trovano il senso di ogni cosa, delle piccole azioni come delle grandi scelte, del lavoro, dello studio, della fraternità. La memoria del Signore riempie il cuore di una gioia profonda, come dice un antico inno della Chiesa: "Jesu dulcis memoria, dans vera cordis gaudia" [Gesù dolce memoria, che dà la vera gioia del cuore].
Ecco, per questo mi dà pace pensare che Manuela è una Memor Domini, una persona che vive nella memoria del Signore. Questa relazione con Lui è più profonda dell’abisso della morte. E’ un legame che nulla e nessuno può spezzare, come dice san Paolo: "[Nulla] potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore" (Rm 8,39). Sì, se noi ricordiamo il Signore, è perché Lui, prima ancora, si ricorda di noi. Noi siamo memores Domini perché Lui è Memor nostri, ci ricorda con l’amore di un Genitore, di un Fratello, di un Amico, anche nel momento della morte. Sebbene a volte possa sembrare che in quel momento Lui sia assente, che si dimentichi di noi, in realtà noi siamo sempre presenti a Lui, siamo nel suo cuore. Ovunque possiamo cadere, cadiamo nelle sue mani. Proprio là, dove nessuno può accompagnarci, ci aspetta Dio: la nostra Vita.
Cari fratelli e sorelle, in questa fede piena di speranza, che è la fede di Maria presso la croce di Gesù, ho celebrato la santa Messa di suffragio per Manuela la mattina stessa della sua morte. E mentre accompagno con la preghiera il rito cristiano della sua sepoltura, imparto con affetto ai familiari, alle consorelle e a tutti voi la mia Benedizione.