16 marzo 2011

Negli uffici pubblici il crocifisso non si tocca


Chi troppo vuole nulla stringe. Proverbio che ben si attaglia alle pretese dell’ex giudice di pace di Camerino, Luigi Tosti. Il togato, lo ricordiamo, nei mesi scorsi si era rifiutato di tenere udienza fino a quando il crocefisso non fosse stato eliminato da tutti i palazzi di giustizia italiani. Non gli bastava poter lavorare in una stanza sguarnita della figura sacra, no, voleva l’azzeramento totale del simbolo della cristianità in tutte le aule, oppure, in alternativa, chiedeva di poter esporre anche la «Menorah», simbolo della fede ebraica. Due pretese che gli sono costate, nel gennaio scorso, la rimozione dall’incarico da parte del Csm. Tosti si così è rivolto alla Cassazione dove ha incassato un’altra sconfitta. La Corte, infatti, ha confermato la sua espulsione dall’incarico e ha difeso – vivaddio - il crocefisso nei tribunali e negli edifici pubblici. I giudici, a Sezioni riunite, hanno chiaramente affermato che il simbolo della cristianità nei tribunali non è un pericolo per la libertà religiosa di chi non è cristiano. «La presenza di un crocefisso – si legge nella sentenza n. 5924 – può non costituire necessariamente minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano un’aula di giustizia per i più svariati motivi e non solo necessariamente per essere tali utenti dei cristiani”. Di conseguenza, il giudice Tosti non poteva “rifiutare la propria prestazione professionale solo perché in altre aule di giustizia (rispetto a quella in cui egli operava) era presente il crocefisso». A Tosti, infatti, era stata messa a disposizione un’aula senza alcun simbolo ma lui aveva lo stesso rifiutato di tenere udienza chiedendo la rimozione del crocefisso da tutti i tribunali italiani perché a suo avviso, la presenza della cristianità «violava i diritti di libertà religiosa e di coscienza degli utenti di quelle aule». Una valutazione bocciata dagli ermellini che hanno, tra l’altro, escluso la possibilità di esporre altri simboli religiosi perché manca una legge: «È necessaria una scelta discrezionale del legislatore, che allo stato non sussiste», dicono chiaro e tondo. Inoltre, la stessa Cassazione mette in guardia il Parlamento da una scelta di questo tipo perché ci sarebbe il rischio di “possibili conflitti” che potrebbero nascere dall’esposizione di simboli d’identità religiose diverse. Meglio dunque fermarsi al crocefisso che meglio rappresenta il sentire comune degli italiani. Il punto fermo fissato ieri dalla Cassazione, però, potrebbe però sgretolarsi nei prossimi giorni. Venerdì, infatti, la Grande Chambre della Corte europea dei Diritti dell’uomo si esprimerà, con sentenza d’appello definitiva, sul caso dei crocefissi nelle scuole italiane. Artefice di questo bailamme è una cittadina italiana di origini finlandesi, Soile Lautsi. Nel 2002 richiese al consiglio d’istituto di una scuola media di Abano Terme, frequentata dai figli, di rimuovere il crocifisso dalle aule. La richiesta era stata rifiutata e la donna si era rivolta al tribunale competente, il Tar del Veneto. Da lì una lunga battaglia arrivata fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo che si è già espressa, due anni fa, a sfavore del crocefisso nelle scuole perché la sua presenza «violava il diritto all’istruzione e il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo». Dopo il ricorso del governo italiano, ecco la seconda e ultima battaglia a sfondo religioso. Ma se la Corte boccerà il crocefisso nelle aule, la Gelmini obbedirà ai giudici europei contro il volere del popolo italiano? Nel dicembre 2004, per esempio, un insegnante dell’istituto per geometri di Ivrea aveva chiesto di togliere il crocefisso dall’aula ma il Consiglio d’istituto aveva deciso all’unanimità che il simbolo religioso tornasse in classe. E l’anno prima ci fu un braccio di ferro tra Adel Smith e gli organi scolastici di Ofena, provincia dell’Aquila. L’uomo pretendeva la rimozione del crocefisso esposto nelle aule della scuola materna ed elementare, frequentate dai suoi figli. Una pretesa finora andata a vuoto.

(tratto da "Il Giornale")

14 marzo 2011

Il testamento di Shahbaz Bhatti


Vi proponiamo il testamento spitituale di Shabaz Bhatti, ministro pakistano ucciso il 2 Marzo scorso dai talebani.

"Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.

Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.


Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: "No, io voglio servire Gesù da uomo comune".


11 marzo 2011

Che sorpresa, è Quaresima ma l'Italia non se n'e accorta


Vorrei dare una notizia in esclusiva: ieri (mercoledì) è iniziata la Quaresi­ma. Lo dico perché nessun giorna­le e nessuna Tv ha riservato alla vicenda la benché minima atten­zione. Il mercoledì delle Ceneri è passato via inosservato, fra gli avanzi del Carnevale grasso, le ul­time feste di Venezia e le ricadute di polemiche scatenate attorno al­la festa della donna. Per carità: momento importante l’8 marzo. Ma di tutte le pagine ricoperte di mimose, fra tutte le iniziative in rosa, e le quote rosa, le ricorrenze rosa e i palazzi illuminati di rosa, possibile che non ci sia uno spa­zietto viola per ricordare che oggi inizia il tempo più importante per i cristiani? Scommetto che se oggi fosse co­minciato il Ramadan avremmo già stampato titoli a caratteri cubi­tali. Succede ogni volta: cinque­mila a Vicenza per il Ramadan, diecimila a Milano per il Rama­dan, e giù a raccogliere opinioni degli esperti per dire come ci si comporta durante il Ramadan, quali sono le regole del Rama­dan, com’è bello fare il Ramadan.
Persino alcuni vescovi a volte sembra che s’emozionino più per il Ramadan che per la Quaresima: si sa, è più facile ottenere un titolo su Repubblica inchinandosi ai fe­deli musulmani, magari propo­nendo una moschea in ogni quar­tiere, che celebrando il consueto cristiano rito delle Ceneri… E allora, però, è abbastanza inu­tile lamentarsi dell’Eurabia, cita­re le profezie di Oriana Fallaci, spaventarsi per l’arrivo delle mas­se di immigrati dal Nord Africa e per il conseguente «suicidio del­l’Europa», come ha fatto ieri il Cor­riere con un sentito editoriale di Piero Ostellino, se poi non ci si ac­corge nemmeno che in tutto il re­sto del giornale (e dei giornali) non c’è una riga per ricordare che sta accadendo qualcosa di impor­tante per i cristiani. È inutile per­ché non si può vincere la sfida con l’islam cancellando la nostra me­moria, le nostre tradizioni, la no­stra fede. Chi perde le proprie ra­dici rischia di essere spazzato via anche da un venticello, figuriamo­ci da una bufera come quella che si è sollevata in terra araba. Ma in fondo noi quella sfida l’abbiamo già persa. Abbiamo perso perché sappiamo tutto del­le celebrazioni del venerdì in mo­schea e nulla delle Ceneri. Abbia­mo perso perché nella preghiera laica del mattino, che sono i gior­nali, citiamo i carri di Viareggio e le arance di Ivrea, ma non sappia­mo più perché esiste una festa che si chiama Carnevale. Abbia­mo perso perché se domani, che è il primo venerdì di quaresima, nelle mense scolastiche serviran­no prosciutto e bistecca nessuno avrà nulla da dire. E magari sono gli stessi che giustamente si scan­dalizzano se, per errore, sul tavo­lo di un musulmano finisce un tocco di maiale…Ci tornano in mente le parole della Fallaci perché abbiamo pau­ra. E abbiamo paura perché non sappiamo più chi siamo, mentre gli islamici lo sanno benissimo e sono così orgogliosi della loro fe­de e del loro passato da difender­lo anche in terra straniera. Noi, la nostra fede e il nostro passato, non sappiamo più raccontarlo nemmeno negli oratori, dove si celebra solennemente il multicul­turalismo, ma ci si dimentica di spiegare il significato delle Cene­ri. Se ieri fossimo andati in giro per le città a chiedere: «Che giorno è og­gi?», avremmo avu­to molte risposte: «Il giorno dopo la festa della donna», «il giorno dopo il martedì grasso», «il 9 marzo», «il giorno in cui si ri­torna a scuola», «il giorno in cui ap­passiscono le mi­mose», «il giorno della Champions League». Tutto ve­ro, tutto esatto. E le Ceneri? Chi lo sa. Ormai persino la giornata interna­zionale della len­tezza, la giornata mondiale senza ta­bacco e la giornata internazionale sul­la protezione della fascia di ozono stratosferico han­no più visibilità dell’inizio della Quaresima. Sarà forse una giustificazione il fatto che buona parte delle grandi aziende editoriali hanno sede a Milano? Per la grande stampa e per le Tv il tempo della penitenza potrebbe cominciare domenica, secondo il rito ambrosiano? Mac­ché: domenica ci saranno gli ulti­mi riti della settimana bianca, co­minceranno le cerimonie laiche della primavera, il Fai che apre i giardini e le ville e altre interessan­ti attività. La Quaresima no, quel­la l’abbiamo cacciata via. Non se ne parla, è tabù, forse perché la ri­teniamo troppo tri­ste da inserire nel­la nostra vita, un’overdose di sa­crifici che non ci vuole in mezzo a giorni che sembra­no ormai quasi tut­ti quaresimali. Ed invece sbagliamo. Sbagliamo perché, come ha scritto l’ Avvenire ieri, la Quaresima è sem­pre meno il rito del­la malinconia, e sempre più è il rito dell’ironia, che «sorride in faccia ai gufi della storia». Lo si voglia o no: «Non è più una tesi filosofica, ce lo si legge proprio ad­dosso». Basta guar­darsi intorno. Pro­prio perché i tempi sono già così cupi, proprio perché siamo di fronte a un mondo che crolla, proprio per­ché la vita già ci sembra una serie di infinite quaresime, non c’è al­tra strada che sperare nella Quare­sima. Quella vera. Che, se non al­tro, a differenza delle tante quare­sime quotidiane, dà un senso ai sacrifici, portando con sé la spe­ranza della Pasqua.

(di Mario Giordano- tratto da "Il Giornale")

09 marzo 2011

La mia scuola privata, spalancata sul bene del sapere ben più di quella pubblica

Strano modo di procedere quello di Paola Mastrocola, di cui pure apprezziamo la passione pedagogica: denuncia la decadenza della scuola pubblica e poi difende la stessa a spada tratta in nome della resistenza democratica.

Ma lo spirito pubblico che sta tanto a cuore alla prof torinese e ai severi progressisti democratici cofirmatari dell’appello di Repubblica, si coltiva benissimo anche studiando in una scuola privata. Il ministro Gelmini, ormai, parla solo di scuole statali e di scuole paritarie, sussumendo entrambe nella categoria del pubblico. Giusto. Ai miei tempi, invece, c’erano la scuola pubblica e la scuola privata parificata. E io che dall’asilo alla maturità ho sempre frequentato scuole private, e anzi ho dovuto farlo per motivi politici, vi garantisco che per nutrire il senso dello stato, l’adesione spontanea al civismo, il rispetto dei valori della democrazia liberale non ho avuto bisogno di farmi indottrinare da un professore barbuto, da un militante antifascista duro e puro che leggeva il manifesto, teneva lezione sull’“Antologia di Spoon River”, consigliando ai suoi scolari la lettura di don Milani, se andava male, o degli scritti giovanili di Karl Marx, se andava bene.

I miei professori erano suore. A cominciare da suor Maria Cecilia, gli occhi azzurri e il viso butterato dall’acne giovanile. Era una Piccola Ancella del Sacro Cuore e mi ha insegnato a leggere, a scrivere, a fare di conto, a perdermi con la fantasia, dopo aver studiato gli antichi egizi sul sussidiario, sognando di giocare ai faraoni, nelle buche di sabbia scavate dalla pioggia nella pineta di Monte Mario. A dieci anni, trattandosi di scegliere le medie, mi decisi per le Ancelle del Sacro Cuore, perché molte delle mie compagne di gioco andavano lì. Una scuola bellissima, che oggi non esiste più. Anni fa, il villino in liberty e gli edifici moderni che ospitavano le aule della media, dei due licei, classico e linguistico, le camere delle interne, poiché era anche un collegio, e quelle delle suore vennero venduti insieme al bel giardino su Villa Balestra. Da allora varie generazioni di professioniste donne, giudici, avvocati, scrittrici, manager, persino un’astronauta, la prima in Italia (Barbara Negri) e molte madri di famiglia passano davanti al cancello chiuso dei Monti Parioli, con una stretta al cuore, perché la loro scuola non c’è più. Fu lì infatti che negli anni Settanta frequentarono il liceo parificato, studiando Kant e le guerre di religione con madre Giuditta Federici, la protesta di Leopardi secondo Walter Binni con madre Dolores de Bernardiis, la struttura del Dna con la mitica Puglielli, che era laica, e l’“Alcesti” con Nicola Santoro, grecista pugliese, anche lui laico, e le leve di terzo tipo con Silvia Spaziani, e Botticelli e Sironi con Francesca Romana De Marco, “l’unica vergine di Roma”, come lei stessa si professava, indifferente ai nostri scherzi feroci. Fuori da quel giardino delle bambine viziate c’era la contestazione, ma per noi era la festa della matricola, gli scioperi, ma per noi erano goliardie; c’era mio fratello Berto, che non poteva entrare a Mamiani, e una mattina si trovò fra i “fasci” ostaggio di un gruppo di “compagni” che minacciosi roteavano in aria le catene della moto, col casco calato sul viso. Per questo io, unica figlia femmina di un paria, neofascista ma parlamentare del Msi, dovendo scegliere il ginnasio venni tenuta lontana dalla scuola pubblica. In compenso, imparai un metodo, il gusto e la fatica di studiare, l’allegria di conoscere. A scuola nostra, l’unica politica era non fare politica. Mai decisione si rivelò più liberatoria.

(di Marina Valensise)

11 febbraio 2011

Quando ci irridevano per la castità

Fummo una generazione irriverente, trasgressiva. Negli anni Settanta chi non ha fatto scioperi e okkupazioni? Il “vietato vietare”, il sei politico, poi gli spinelli, gli amorazzi usa e getta, il fanatismo ideologico, la violenza politica, i capetti intolleranti circondati di “compagne” adoranti. Una generazione obbedientissima – come la giudicò Pasolini – ai padroni del pensiero dominante che la volevano rivoluzionaria.

Poi alcuni di noi hanno incontrato dei padri e hanno disobbedito ai padroni. Abbiamo sperimentato la vera libertà. Ci siamo avventurati in terre sconosciute, abitate da una bellezza mai immaginata, abbiamo sperimentato l’amicizia, l’autenticità, il gusto di una vita diversa.Senza neanche metterlo a tema, seguendo il fascino di Gesù Cristo, ci siamo trovati a vivere lo splendore della castità, fra ragazzi e ragazze, e perfino a intuire la poesia rivoluzionaria della verginità. Meravigliati da quanto era bello il volto della propria ragazza non ridotta a preda, a oggetto su cui sfogare la propria violenta solitudine.

E’ la sovrana e lieta libertà dei figli di Dio per cui Francesco d’Assisi poteva dire: “dopo Dio e il firmamento: Chiara”. E nel Testamento di Chiara si legge: “Francesco, nostra unica consolazione e sostegno, dopo Dio”. Avevamo incontrato uomini veri e per nulla al mondo volevamo perdere quella nuova vita e quel gusto dell’esistenza. Così diventammo gli “odiati ciellini”. Odiati dal branco dei “compagni” che, al mercato libertario delle facili carni (limitrofo alla bancarella dell’eroina), sghignazzavano sui preti e il papa e – com’era facile per gli sciocchi – sulla castità dei ciellini. In tanti casi dal disprezzo si passò pure alle spranghe, ai pugni, agli insulti.

Eccoli là, oggi, i compagni di allora. Non hanno fatto la rivoluzione, però molti hanno fatto carriera e soldi. E l’arroganza è spesso rimasta identica. Sotto la canizie e la calvizie ruggisce ancora il giovanotto fanatico di allora. L’unica rivoluzione che hanno fatto – o meglio: che hanno servito – è stata la rivoluzione sessuale. Ad uso e consumo della società dei consumi. Oggi la panza, che ballonzola dietro la loro cravatta di facoltosi giornalisti, potenti politici, baroni universitari, ammonisce e rimprovera. E – toh! – su cosa?Contro il sesso sfrenato (ovviamente non il proprio: quello di Berlusconi). Pontificano accigliati contro il sesso usa e getta, tessono orazioni morali sulla dignità della donna, ci insegnano il sacro rispetto del corpo femminile, predicano il rigore morale. In certi casi dall’alto di una vita, di una generazione, che ha conosciuto – dopo l’anarchia sessuale della giovinezza – il susseguirsi di matrimoni e relazioni… Lo spettacolo è sorprendente. Forse è perfino occasione di riflessione. Mi sono trattenuto finora dallo scrivere sulle miserie della cronaca e ho risposto no ad alcuni talk show politici che volevano invitarmi a “giudicare da cattolico” le “notti di Arcore”. Tuttavia da settimane vedo e sento alcuni ex rivoluzionari, con aria ispirata e virgineo candore, alzare il loro alto grido contro chi profana con immagini discinte “il corpo delle donne”, contro chi ha costumi sessuali sfrenati e – incredulo – mi stropiccio gli occhi.

Non solo ricordando le stagioni giovanili. Mi chiedo: ma su quali giornali hanno scritto finora? Su quali settimanali? Cos’avevano in copertina? Donne col burka? E quali libri hanno lanciato? Quali film e quali registi hanno esaltato? Quali costumi hanno praticato e legittimato? Quale morale hanno affermato? D’improvviso sembra siano diventati tutti castigatissimi censori. Era inevitabile che una tale schiera di puritani si trovasse a fianco Oscar Luigi Scalfaro essendo, lui sì, un bigotto della prima ora. Ricordate l’episodio che lo ha reso “immortale”? E’ la scenata fatta negli anni Cinquanta a una signora, casualmente intravista al ristorante, rea di avere un vestito scollato. Alla manifestazione “per la dignità delle donne” dunque parteciperà questo Scalfaro. E leggo su Repubblica che “parteciperà anche Nichi Vendola: ‘Un’altra storia italiana è possibile, c’è un’Italia migliore per cui le donne non sono carne da macello, corpi da mercimonio, protagoniste solo in un establishment da escort’ ”. Sì, caro Nichi (nei panni del teologo morale), questa Italia esiste. Ma sei sicuro che sia proprio quella che voi volete da decenni?E’ meraviglioso lo slogan di questa sinistra: “Sono uomo e dico basta”. Ma basta a cosa? Alla famosa “libertà sessuale”? Allo slogan “il corpo è mio e lo gestisco io”? A questa sessuomania di massa. Parliamone. A maggio scorso partecipai a una puntata di “Annozero” su preti e pe dofilia. Fu molto interessante, ma ricordo che quando tentai di ampliare l’orizzonte proponendo di analizzare la (spesso patologica) sessuomania di massa che caratterizza i nostri costumi e la nostra cultura, Santoro troncò il discorso passando ad altro. Non lo ritenne interessante. Eppure è questo il clima irrespirabile.

Sono un padre, ho figlie giovani e mi fa schifo una società in cui delle giovani donne – in qualunque ambiente ! – sono discriminate se non stanno al gioco o non accettano certi compromessi. Mi fa schifo una società dove delle ragazze o dei ragazzi sono marchiati come cretini se dicono di credere nella castità o nella verginità. O dove sei considerato un soggetto pericoloso se affermi che il matrimonio è solo tra uomo e donna, se ti ostini ad affermare che il genere non è un’opinione (che la natura – essere maschi e femmine – non è opinabile), se consideri il divorzio un male, se condanni l’aborto, la pillola del giorno dopo e se osi mettere in discussione il “sacro preservativo” venerato dalla cultura dominante. C’è chi cerca di strattonare i cristiani per strappare loro qualche scomunica del peccatore Berlusconi. Gad Lerner ha amplificato la voce della suorina che ha tuonato “Non ti è lecito!” contro il Cav come il Battista contro Erode.

Bene. Con quella suorina però – a proposito di Erode – tuoniamo “non ti è lecito” pure contro una cultura dominante che a livello planetario ha legalizzato la pratica dell’aborto arrivando in cinquant’anni a totalizzarne un miliardo, una cultura che abbassa sempre di più il livello di difesa della vita umana.E vorrei ricordare a quella suorina che Giovanni Battista tuonava soprattutto contro l’ipocrisia di scribi e farisei che chiamava: “Razza di vipere!”.Anche Gesù tuonerà contro di loro. Lui mostra compassione per i peccatori, i pubblicani e le prostitute, ma non per i “sepolcri imbiancati” che puntano il dito sul peccato altrui: “essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”.E’ di tutti noi che parla. Perché di un gran peccatore, come Zaccheo, Gesù può fare un santo, anche un grande santo come Paolo o Agostino. Ma di chi presume di giudicare gli altri, dei sepolcri imbiancati? Del resto loro saranno col dito puntato contro di Gesù fin sotto la croce.Dicevamo della manifestazione per la dignità delle donne. Difenderanno anche la dignità calpestata delle donne nel continente islamico? E la dignità delle donne cristiane in Pakistan, la dignità di Asia Bibi, giovane madre condannata a morte, tuttora detenuta e sottoposta a ogni umiliazione, perché cristiana?E’ il cristianesimo che ha imposto di riconoscere alle donne la loro dignità. Lo stesso Roberto Benigni, commentando la “preghiera alla Vergine” di Dante, ebbe a dirlo: “è da quando Dio stesso ha chiesto a Maria il suo sì o il suo no che le donne hanno acquisito il diritto di dire sì o no”. Proprio ieri si festeggiava sant’Agata, vergine e martire. La storia di questa giovane del III secolo ci mostra l’unica vera rivoluzione che ha ridato dignità alle donne. Non certo la cultura di Repubblica e dell’Espresso o quella comunista (né, ovviamente, la cultura televisiva). Ma solo Gesù Cristo.

Antonio Socci

da “Libero”, 6 febbraio 2011

05 febbraio 2011

Chi salva la politica?


«Sgomento». Ha usato questo termine, il cardinale Angelo Bagnasco, per accennare ai fatti che occupano le prime pagine da giorni. È una parola vera. Basta guardarci, per accorgersene. Sorprendere il primo effetto che ha su di noi questa valanga di fango e di caos.Prima della repulsione di fronte allo squallore che viene a galla. Prima della ribellione per una battaglia politica fatta via inchieste e provvedimenti giudiziari, che sta mettendo a rischio il bene di tutti. Forse addirittura prima della rabbia e della pena per un Paese che avrebbe bisogno di tutt’altro e si ritrova impantanato tra bungabunga ed annizero. Prima di tutto questo, o comunque dentro tutto questo, se siamo leali il contraccolpo ha davvero quel nome: sgomento. Ovvero, malessere. Disagio. Per un modo di trattare cose e persone triste di suo, e reso ancora più amaro se accompagnato dall’illusione di potere tutto, anche sfuggire al tempo. Per la menzogna di chi si aspetta che «a cambiarci la vita» sia qualche busta piena di euro, intascati magari dando in cambio te stessa o spingendo tua figlia a sgomitare per farlo. E anche per come si usa di tutto ciò per attaccare un avversario che non si è riusciti a buttar giù a forza di voti ed elezioni. Sesso, soldi e politica. «Lussuria, Usura e Potere», come diceva Eliot. In fondo, la vicenda è sempre lì. Le tentazioni eterne, di sempre e per tutti. Certo, sulle inchieste serve chiarezza. Se c’è ipotesi di reato (reato, non peccato: quello, fino a prova contraria, non riguarda i pm), si indaghi, e in fretta. Così come è urgente che ognuno torni a fare il suo mestiere, che politici, giudici e media si rimettano al servizio del bene comune - vocazione che in gran parte stanno smarrendo - anziché «tendersi tranelli», come ricordava il cardinale Bagnasco, aggiungendo che «dalla situazione presente nessuno ricaverà motivo per rallegrarsi né per ritenersi vincitore». Ma non perdiamo l’occasione per prendere sul serio quel contraccolpo iniziale, quel turbamento. Non spostiamoci - o non lasciamoci spostare - sulla sempiterna “questione morale”, sull’incoerenza, sulla debolezza umana. Fatti serissimi, di cui tenere conto, ma che arrivano dopo, perché in fondo lo sappiamo che è difficile mettersi nei panni di chi scaglia per primo la pietra. Un istante prima, invece, c’è quel disagio, quell’inquietudine profonda. Che, se viene presa sul serio, porta a una domanda: ma chi può salvarci da questo? Chi può tirarci fuori da un modo così avvilente di trattare se stessi e gli altri? C’è qualcosa che possa riempire la vita più di sesso, soldi e potere o tutto ciò a cui possiamo ridurre il nostro desiderio di felicità? Qualcuno capace di attirare tutto di noi a sé, perché - finalmente - basta al nostro cuore? Chi può salvare l’umanità di Berlusconi, di chi gli gira intorno, di chi gli dà addosso - e mia, qui e ora? La salvezza, la pienezza dell’umano, non verrà dalla politica, se mai ci fosse stato bisogno di conferme. Né dai giudici. Ma da chi, allora?Qui lancia la sua sfida il cristianesimo. Qui, ancora una volta, ci provoca fino in fondo Cristo. L’Unico che ha la pretesa di rispondere al nostro bisogno di felicità. L’Unico che può generare una morale, cioè salvare l’umano: sfidarlo con un fascino più potente del resto - di tutto - e attrarlo a Sé, fino a cambiarlo. Perché è l’Unico che gli riempie il cuore.Ma qui si capisce anche il realismo dei criteri che la Chiesa ha sempre usato per giudicare la politica e i politici: il bene comune, appunto, e la libertas Ecclesiae, prima e più della coerenza e dell’ineccepibilità morale del singolo. Sembrano non c’entrare nulla. Invece entrano nel merito fino in fondo. Perché se è solo Cristo che salva l’umano, salvaguardare la Sua presenza nella storia - la Chiesa - vuol dire lasciarGli spazio nel mondo, qui e ora. Vuol dire aprirsi alla possibilità che potenti e soubrette, magistrati e giornalisti (e noi, con loro) incontrino qualcosa per cui vale la pena vivere, e cambiare.È questo che chiediamo alla politica. Non la salvezza, ma che lasci spazi di libertà a questo luogo che salva anche la politica, perché rende presente nel mondo qualcosa che non ha paragone con Usura, Lussuria e Potere. Qualcosa di infinitamente più grande. Qualcuno di vero.
(tratto dal mensile "Tracce")

01 febbraio 2011

Carpenedolo Caput Mundi

La vicenda della coda per le iscrizioni alla Scuola dell'Infanzia Maria Immacolata ha innescato una serie di dichiarazioni e di commenti che dimostrano, con tutta evidenza, come il nostro piccolo paese soffra degli stessi mali di cui è afflitto il mondo intero. Pensiamo al relativismo, teoria che si basa sul concetto che non esiste una verità evidente per cui tutto è uguale e quindi tutto è relativo. Il Sindaco di Carpenedolo ha fornito un classico esempio di relativismo dichiarando di non comprendere perchè i genitori abbiano fatto la coda davanti alla Scuola dell'Infanzia gestita dalle Suore visto che ci sono strutture comunali che svolgono lo stesso servizio. In sostanza il Sindaco non riconosce un'evidenza grande come il mondo: cioè che la Scuola dell'Infanzia Maria Immacolata è una scuola pubblica non statale ad indirizzo cattolico ed è pertanto DIVERSA dalle altre scuole. Non si possono considerare queste scuole "intercambiabili" tra di loro.
Anche il consigliere comunale della Lista Cambiare Carpenedolo ha insistito sul fatto che la Scuola dell'Infanzia delle Suore dovrebbe accogliere un numero minimo di stranieri non prendendo minimamente in considerazione che la scuola, essendo ad indirizzo cattolico, avrà come scopo l'educazione dei bambini (italiani e stranieri) secondo l'esperienza cattolica (vi sono nella Scuola sette bambini stranieri che seguono il percorso educativo stabilito). Inserire bimbi stranieri senza fare i conti con questa evidenza è un'ipotesi irrealizzabile. Il relativismo è questo: non fare i conti con la realtà così come si palesa nella sua verità inconfutabile.
L'altra grossa malattia che affligge il nostro paesello è la voglia di insinuare la divisione, di gettare fango, di screditare le persone mediante il semplice uso della penna. Lo scopo non è quello di ristabilire la verità che anzi viene calpestata in nome di una semplice battaglia contro una persona o, come in questo caso, contro un gruppo di persone che non erano certo in coda per fare polemica o farsi vedere. E' triste vedere Carpenedolo stretto tra la morsa di coloro che proprio non capiscono e coloro che invece, seppur capendo, sono tutti intenti in una loro battaglia personale contro il nemico di turno. Personalmente credo che vicende come quella della scorsa settimana servano al nostro paese per maturare, per elaborare un giudizio chiaro che metta a nudo le tante contraddizioni che affliggono e bloccano Carpenedolo.
Paolo Spaziani

28 gennaio 2011

La sfacciataggine dei laicisti

Se noi “atei devoti” diciamo che forse bisognerebbe salvare il matrimonio tra uomo e donna dalla legislazione eticamente indifferente di Zapatero, che ha abolito i nomi di marito e moglie e di padre e madre in favore di un più neutrale progenitore A e progenitore B, precisiamo subito che si tratta di critica culturale e civile, e che l’incontro con le posizioni del clero cattolico e del magistero ecclesiale su quel terreno si risolve, distinguendo kantianamente peccato e reato, e coniugando con molte sfumature ethos e legge. Lo stesso facciamo quando, da laici, critichiamo l’indifferenza morale all’aborto, la kill pill, l’eugenetica del figlio sano, la fabbricazione della prole, tutti fenomeni una punta più rilevanti, in senso pubblico, di alcune cene nella villa di Arcore rese note da quella che il cardinal Bagnasco ha eufemisticamente chiamato, con scandalo dei benpensanti laicisti, “una ingente mole di strumenti di indagine”.
Quando tocca a loro, ai laicisti, ragionare sull’ethos privato di un uomo pubblico che considerano nemico, Berlusconi, lo fanno invitando esplicitamente la chiesa all’ingerenza, alla scomunica, alla condanna iperpolitica. Criticando la gerarchia perché sceglie una posizione di equilibrio e un modo di ragionare laico e incline alle distinzioni, insinuano interessi obliqui e patti col demonio del potere per chi non faccia vibrare il bastone canonico contro il reprobo. Pubblicano su MicroMega e su Repubblica invettive moraleggianti di vescovi emeriti, indicono crociate clericali (con l’eccezione dei loro unici moralisti veri, Serra e Sofri), mentre i monaci da sbarco scoprono sulla Stampa di Gianni & Lapo il peccato della lussuria. E questo incredibile battage neoclericale, questo lungo comizio integralista, lo chiamano profezia.
(tratto da "Il Foglio" del 26/01/2011)

20 gennaio 2011

Quei bacchettoni feroci e senza fede


È da un pezzo che viviamo immersi in un fetido intruglio di ferocia e sentimentalismo, crudeltà e buonismo, perfidia e melensaggine. Del resto il tratto principale dello spirito del nostro tempo potrebb’essere proprio la sua inesauribile capacità di alternare e mescolare in modi sempre più inverecondi, nei suoi diversi menu, tutte le possibili forme dell’umana fasullaggine. Questa sua vocazione falsaria il genio del nostro tempo la sta oggi esprimendo, ovviamente, un po’ dappertutto nel mondo, producendo ovunque effetti più o meno devastanti, ma in nessun altro Paese della terra questi effetti sono forse orripilanti come quelli che si registrano oggi nel nostro. In nessun altro luogo del pianeta è infatti possibile assistere, oggi, a uno spettacolo ributtante come il trescone persecutorio che da ormai tre lustri sta infuriando, in forme sempre più micidiali, intorno a un uomo che agli occhi dei suoi linciatori ha fin troppo manifestamente la sola colpa di essere un geniale e lieto beniamino della vita. Ma quale sarà mai la vera radice di quella passione letale che è l’inestinguibile odio che corrode e divora l’anima di questi poveri ossessi, istigandoli a tornare senza posa a sfregiare, con il loro dissennato accanimento politico, mediatico e giudiziario, l’immagine stessa del nostro Paese nel mondo? Non basta parlare d’invidia. Non basta parlare di rabbia. Non basta parlare di rancore e di volontà di vendetta. Occorre parlare anche di disperazione e di empietà. Nonché, anzi forse soprattutto, di feroce bacchettoneria.
Questi boriosi sbandieratori di questioni etiche e morali sono infatti in primo luogo dei disperati bacchettoni. Bacchettoni – va da sé – senza fede, senza nessuna fede, salvo, naturalmente, quella che essi hanno nella loro buffa pretesa di essere, nonostante tutte le severe bocciature impartite loro dalla storia, la crème spirituale del paese, se non del mondo. Nulla di più ridicolo. Eppure proprio in questa bacchettoneria senza fede è racchiuso forse tutto il sugo di quella micidiale ideologia, sopravvissuta al crollo delle sue sorelle e cuginette comuniste e nazifasciste, che è la superstizione laicista. La quale in effetti consiste appunto nell’illusione di poter recidere ogni legame fra l’etica e il sacro, la morale e il sentimento religioso, l’Europa e le sue radici cristiane, il senso della giustizia e quello della giustizia divina. Illusione ormai confutata dagli effetti micidiali che ha prodotto negli ultimi due secoli, e tuttavia ancora oggi capace, da noi, di produrre sciami di demoni assolutamente identici a quelli così descritti da Nietzsche nella sua «Genealogia della morale»; «Noi soltanto siamo i buoni, i giusti - dicono costoro, - noi soltanto siamo gli uomini di buona volontà». Si aggirano tra noi come rimproveri viventi. Oh, quanto costoro sono pronti, in fondo, a far espiare! Quanta è la loro sete di diventare carnefici! Pullulano tra loro i bramosi di vendetta travestiti da giudici, che hanno sempre in bocca una bava avvelenata, sempre con una smorfia sulle labbra, sempre pronti a sputare su tutto quanto non ha l’aria scontenta e va di buon animo per la sua strada. Fra costoro non manca neppure quella nauseabonda genia di vanitosi, aborti di menzogna, che mirano a fare da «anime belle», e a esibire sul mercato, avvolta in versi e in altri pannolini, la loro malconcia «sensualità come purità di cuore: la genia degli onanisti morali».

(di Ruggero Guarini- tratto da "Il Tempo")

16 gennaio 2011

Quando Dio vale meno di un gatto


Mi pongo da alcuni giorni una domanda: ha ancora senso al giorno d’oggi scandalizzarsi?
Secondo lo Zingarelli, il termine significa indignarsi o suscitare indignazione, sconvolgersi, presumendo con ciò che vi sia un principio su cui fondare il proprio comportamento e, di conseguenza, il violarlo è considerato scorretto, sconveniente o maleducato. Ma nella società attuale scandalizzarsi non ha più senso, almeno per i più. Tutto è ormai scandalo e, per una semplice deduzione, nulla, ovviamente, lo è più.
Oggi, si dice, c’è la voglia di trasgredire, ognuno fa quello che crede specialmente per rivendicare una propria personalità, soprattutto tra i più giovani. E così avviene che in una trasmissione televisiva, “Il grande Fratello”, un ragazzo, con tanto di madre che fa la catechista, bestemmi in diretta davanti alle telecamere, ottenendo così il suo minuto di pubblicità.
Come altre volte è capitato per altre trasmissioni, per il concorrente si preparano le valigie per uscire dal gioco, ma ecco il colpo di scena salvifico: sempre in diretta dagli studi Mediaset, il giovane viene assolto, dopo un vivace dibattito, dal giornalista Alfonso Signorini, dalla mamma presente in studio – che ripetiamo è anche catechista - ed ovviamente dal pubblico, con la consacrazione definitiva della Marcuzzi.
Il ragazzo rientra nella Casa perché in fondo non è successo nulla di grave, diciamolo pure, una bestemmia può capitare a tutti di pronunciarla: siamo o no liberi di fare quel che ci pare? Come afferma qualche “illuminato” sociologo, la bestemmia è anche una forma per comunicare il proprio disagio agli altri ed allora vai con la bestemmia, la nuova forma di dialogo tra le persone, tanto Dio forse c’è, ma sicuramente non si vede, almeno con gli occhi.
Ma non è finita qui, anzi se c’è un perdono deve essere per tutti, nessuno escluso, e così per accontentare lo show bussines, un concorrente che lo scorso anno aveva “esternato il proprio disagio” con una simpatica bestemmia, è stato riammesso nella Casa. Bella trovata! In questo modo la parola blasfema è ormai derubricata, non certo come peccato grave per la Chiesa (credo che di ciò nulla importi ai partecipanti al gioco) ma almeno come atto di maleducazione.
Non c’è che dire, un bell’esempio di valori che se ne vanno. Poi ci lamentiamo se sui mezzi pubblici, ad esempio, salgono frotte di ragazzini che strillando e ridendo bestemmiano allegramente. Ma è solo il loro modo di esprimersi, ormai lo sappiamo che lo fanno anche i grandi in televisione e dunque offendere Dio, per un sillogismo un po’ stiracchiato, è una cosa lecita!
Tempo fa salii con mia moglie su di un autobus e ci capitò di riprendere un ragazzino che con i suoi amichetti bestemmiava senza neanche accorgersi di quello che diceva. Morale: non solo il ragazzino ci ha mandati a quel paese, ma altre persone presenti se la sono presa con noi perché eravamo dei bacchettoni. Ancora, per fortuna, non c’era stata la puntata incriminata del Grande Fratello: pensate come ci avrebbe risposto oggi quel ragazzino!
A questo punto sento il dovere di spezzare una lancia a favore di un certo Bigazzi, il quale è stato estromesso da una trasmissione televisiva di successo che si occupa di cucina perché aveva raccontato come in tempo di guerra dalle sue parti si mangiavano i gatti, fornendo anche la ricetta. Subito è scattato lo scandalo di animalisti e di telespettatori infuriati che vedevano già il loro gattino in salmì. Non dico che non fosse giusto, ma nessuno che io sappia si è scandalizzato con pari vigore, salvo parte della stampa cattolica, per la bestemmia in televisione
.
Ma volete mettere sullo stesso piano Dio con il gatto di casa? Non scherziamo, se bestemmiamo Dio è un modo, come abbiamo già accennato, per affermare il proprio disagio, forse per aprire un dialogo con gli altri che altrimenti sarebbe difficile; ma con il gatto la situazione è ben più grave, è un animale e, come tale, ha i suoi diritti inalienabili e va salvaguardata la sua dignità. Chi è un retrogrado come me è avvisato.
(di Antonello Cannarozzo)

14 gennaio 2011

Bio testamenti comunali, un flop annunciato

Quanti sono i testamenti biologici depositati presso gli uffici comunali in giro per il nostro Paese? Una prima fonte di riferimento è la cartina dell’Italia compilata dall’Associazione radicale Luca Coscioni, con i Comuni che gestiscono i registri, le raccolte firme in corso, le delibere in fase di discussione. Un ginepraio in cui risulta difficile tenere il passo dei cambiamenti e delle novità, tanto che facendo una semplice verifica telefonica con i Comuni – ad esempio quello di Piacenza – si scopre che lo stesso sito dei Radicali non è aggiornato (e che il registro, alla fine, non è stato attivato). In ogni caso, sentendo le amministrazioni promotrici dei registri da Nord a Sud, emerge un quadro con regole diverse in ciascuna realtà, accomunate però da un’adesione alquanto bassa.
Discorso bloccato per quanto riguarda Torino, nonostante l’approvazione in giunta a novembre. «Il registro non è ancora attivo – spiega Giovanni Maria Ferraris, assessore ai Servizi civici – dopo la circolare interministeriale che stoppa i testamenti biologici e la risposta critica dell’Anci, la giunta ha deciso di sospendere l’applicazione della delibera, in attesa di un approfondimento giuridico». A Cagliari e provincia (oltre 560 mila abitanti, un terzo dei sardi), spiega Angela Quaquero, assessore provinciale alle Politiche sociali, si sono avvalsi di quest’opportunità «una cinquantina di persone, in genere motivate e preparate. Non è un bisogno di massa, certo, ma un diritto in più». A Genova (oltre 600 mila abitanti) il Comune da novembre 2009 ha raccolto circa 170 testamenti. «All’inizio erano in tanti a interessarsi, poi il flusso si è stabilizzato», racconta Romani, dell’ufficio competente. A Calenzano (16 mila abitanti), in provincia di Firenze, Alessandro Landi, responsabile ai servizi demografici, spiega che dopo la circolare ministeriale «non proponiamo più un modello prestampato di testamento, come facevamo prima. Continuiamo però a tenere un registro su cui annotiamo le dichiarazioni di chi ha fatto i testamenti, ma non li custodiamo né conosciamo il contenuto». Da luglio 2009 ne hanno raccolti circa 50.
La recente circolare dei ministri Sacconi, Maroni e Fazio ha fatto per ora archiviare il registro a Cattolica (Forlì-Cesena), dov’era stato istituito il 1° ottobre 2010. «In due mesi, comunque, non avevamo avuto nessuna richiesta, tranne una domanda di informazioni da parte di un signore insieme alla madre», racconta Stefania Gianoli, responsabile dell’Ufficio relazioni con il pubblico. Allo stesso modo, il Comune di Palermo fa sapere che «non si è dotato di un registro dei testamenti, anche in considerazione dei contenuti della nota».
Testamento biologico «congelato» anche a Bologna, dove secondo il commissario Cancellieri è meglio occuparsi di cose più «urgenti».
In alcuni altri Comuni di dimensioni medie e piccole i testamenti biologici realmente attivati sono mosche bianche. È il caso di Alba (provincia di Cuneo, 31 mila abitanti), dove da marzo 2010 «abbiamo raccolto solo due dichiarazioni», dice per il Comune Bruna Vero. A Barile (Potenza), unico Comune della Basilicata ad aver lanciato il registro, Mario Giuliano confida che da giugno 2009 «solo tre persone ci hanno portato il testamento. Quasi me ne vergogno».
Una ventina le dichiarazioni anticipate di volontà raccolte dal maggio 2010 dal Comune di Arezzo (100 mila abitanti). Più consistenti i numeri di Roma, dove i testamenti vengono raccolti dai Municipi X e XI sono rispettivamente 900 (da aprile 2009) e 200 (da ottobre 2009), ma per una popolazione urbana di oltre due milioni e mezzo di abitanti.
«Vincoliamo la dichiarazione di fine vita a un atto notorio sostitutivo, per garantire la copertura giuridica», dice Sandro Medici, presidente del Municipio X. «Già due persone ce li hanno richiesti, per farli valere davanti al proprio medico». Peccato che, in assenza di una legge nazionale, non valgano nulla.
(di Fabrizio Alessandri- tratto da "Avvenire")

09 gennaio 2011

Ma Messori sta con il Papa o con il Grande Imam?

Non desidero polemizzare con Vittorio Messori, nutrendo per lui amicizia e stima. Purtroppo però a volte nella polemica si è trascinati nostro malgrado, per un dovere di testimonianza alla verità: così anni fa insorsi per i giudizi (che ritenni non generosi) espressi da Messori su Giovanni Paolo II, subito dopo la sua morte. E oggi mi sento costretto a farlo per il dovere di verità che abbiamo verso i martiri cristiani che sono stati massacrati anche in questi giorni. “Amor mi mosse che mi fa parlare”: l’articolo di Vittorio uscito ieri sul Corriere della sera davvero fa un pessimo servizio ai cristiani. Ma soprattutto fa un pessimo servizio alla verità storica.
Lasciamo perdere le discutibilissime escursioni nel VII secolo, sull’invasione araba dell’Egitto e del Nord Africa. Ho cercato ansiosamente nel testo messoriano almeno una frase che mettesse in rilievo il cuore del problema (come benissimo lo enunciò il Papa a Ratisbona), cioè l’irrisolto rapporto dell’Islam con la violenza, questione certamente nota a Messori, questione che ha orrende ricadute non solo sui cristiani, ma sui rapporti dei musulmani con tutte le altre religioni e civiltà, oltreché su varie questioni sociali (penso alle condizioni delle donne).
Ma purtroppo questa frase non l’ho trovata. Una condanna senza appello si trova nell’articolo, ma non è rivolta contro l’irrisolta commistione fra Islam e violenza. No. La condanna sembra toccare al “sionismo” (accusato di “violenta intrusione”), sionismo che non c’entra assolutamente niente con l’attentato alla cattedrale cristiana di Alessandria (forse Messori qui intendeva descrivere l’ideologia islamista, ma non sembra dissociarsi da quel giudizio sul sionismo). Fra i cattivi senza attenuanti Messori cita pure il solito Bush (con gli amerikani). Anche i cristiani sono da lui rappresentati in modo tutt’altro che lusinghiero.
Quello con cui invece l’intellettuale cattolico concorda è il Grande Imam del Cairo, Al Tayyeb, secondo cui l’attentato “non è un attacco ai cristiani, ma all’Egitto intero”. Ora, questo Ahmed Al Tayyeb è il tipo che ha accusato il Papa di “ingerenza” negli affari interni egiziani quando il Pontefice ha condannato la strage di cristiani alla messa del 1° gennaio.
Questo Grande Imam è anche il tipo che sempre all’indomani della strage, intervistato dal Corriere della sera, di nuovo – come ha notato Ippolito sullo stesso Corriere – “si è sentito in dovere di rimbeccare il Papa che chiedeva protezione per i fedeli in Oriente”, sostenendo testualmente che tale “appello del Pontefice alla difesa dei fedeli può creare malintesi”.
Il Grande Imam è arrivato fino al punto di esigere dal papa “un gesto distensivo verso i musulmani, come se sull’altra sponda del Mediterraneo a essere minacciati fossero i seguaci del Corano”.
Questi rilievi critici sono sempre di Ippolito. E stupisce che non si trovino invece nell’editoriale di Messori uscito ieri. Egli non fa alcun riferimento critico a quelle incredibili dichiarazioni del Grande Imam. Anzi, lo cita per dire che in quella frase (sull’attentato come attacco all’Egitto) “non ha torto”.
Personalmente invece ritengo anche quella una frase molto ambigua.
Par di capire che, secondo Al Tayyeb, l’Islam, anche egiziano, sarebbe una meraviglia e i terroristi sarebbero un corpo estraneo che viene a far traballare questo idilliaco mondo musulmano e lo stato egiziano.
E da cosa sarebbe provocata la violenza di tali terroristi? Ecco la risposta che Messori dà (assai condivisa fra i musulmani) dopo aver avallato la frase dell’Imam: “Tutti i governi di tutte le nazioni islamiche sono sotto lo tsunami che ha avuto come detonatore l’intrusione violenta del sionismo che è giunto a porre la sua capitale a Gerusalemme, città santa per i credenti quasi pari alla Mecca. Ira, umiliazione, senso di impotenza hanno dato avvio a un panislamismo che intende demolire le frontiere e i regimi attuali per giungere a un blocco comune e ferreo di fedeli nel Corano. Una sorta di superpotenza che possa sfidare persino gli Stati Uniti, padrini di Israele”.
A chiunque appare evidente che il teorema di Messori non sta in piedi: se il problema fosse davvero il sionismo, perché massacrano i copti che sono cittadini egiziani sempre stati fedeli allo stato egiziano?
Se il problema fosse davvero la fondazione dello stato di Israele, nel 1948, perché da quattordici secoli l’Islam cerca di conquistare e sottomettere i paesi cristiani (sono arrivati fino a Vienna, fino alla Sicilia e fino ai Pirenei, prima di essere respinti)? E’ noto del resto che certi gruppi islamisti si sentono orfani della Palestina tanto quanto si sentono defraudati dell’Andalusia e magari domani della Sicilia: che facciamo, gliele ridiamo? Chiedo ancora: perché il genocidio turco degli armeni cristiani (il primo del Novecento) avvenne decenni prima della nascita di Israele?
E perché, infine, i “Fratelli musulmani” esistono dal 1928-1929?
E perché sono riemersi con fanatismo solo negli anni Ottanta anziché nel 1948? E potrebbe spiegare, Messori, come e perché il regime islamista di Karthoum, in Sudan, per venti anni, dal 1980, ha massacrato i cristiani e gli animisti neri del Sud, provocando una strage di due milioni di vittime?
Glielo dico io: perché rifiutavano l’imposizione della sharia, non perché – migliaia di chilometri lontano da loro – esisteva lo Stato di Israele.
E perché, all’altro capo del mondo, il regime indonesiano ha invaso Timor est e ha massacrato un’enorme porzione della popolazione cristiana di Timor est, senza che nessuno – né Indonesia, né abitanti di Timor est, si fossero mai interessati a Israele e Palestina?
La verità è ben altra. Sentiamola da due storici (peraltro non cattolici). “Per quasi mille anni” ha scritto Bernard Lewis “dal primo sbarco moresco in Spagna al secondo assedio turco di Vienna, l’Europa è stata sotto la costante minaccia dell’Islam”. Samuel Huntington ha ricordato inoltre che “l’Islam è l’unica civiltà ad aver messo in serio pericolo e per ben due volte, la sopravvivenza dell’Occidente”. Stante questa duratura utopia imperialistica dell’Islam, dove religione e politica sono una cosa sola, il grande trauma del mondo islamico è stato rappresentato dalla fine dell’Impero Ottomano, dopo la prima guerra mondiale.
Quello è stato il detonatore. Poi, dalla decolonizzazione, le élites arabe hanno puntato su movimenti politici laici, di ideologia socialista e/o nazionalista. Questi regimi sono stati i primi ad affossare la possibilità di uno stato palestinese e, con l’ideologia panaraba e antisionista, si sono lanciati in una serie di guerre per l’eliminazione di Israele uscendone a pezzi.
Così i loro regimi illiberali, spesso corrotti e perlopiù fallimentari – per cercare un nemico esterno da additare alle folle fanatizzate – hanno alimentato l’odio anti-israeliano e anti-occidentale, ancor più forte quanto più il nostro modello di vita e di benessere è da quei popoli agognato.
Odio che – dopo la rivoluzione sciita iraniana degli anni Settanta – si è espresso in una rinascita dell’islamismo fondamentalista.
Il vero problema è il mancato appuntamento dei paesi arabi e islamici con la democrazia e il riconoscimento dei diritti dell’uomo. E il mancato appuntamento dell’Islam con il ripudio di ogni violenza.
L’invito del Papa ad Assisi è l’altra faccia di Ratisbona: il tentativo da parte dei cristiani di aiutare chi vuole liberare il sentimento religioso, che si esprime nelle varie religioni, dalla violenza e dall’intolleranza.
Un’ultima nota: il titolo dell’articolo di Messori era “Le radici dell’odio contro i cristiani”. Ma i cristiani sono stati odiati, perseguitati e massacrati, negli ultimi duecento anni, sotto tutti i regimi e le ideologie. E lo sono tuttora, per esempio in tutti i regimi comunisti.
Dunque la “radice dell’odio” non può essere nell’esistenza di Israele. E Messori lo sa. Allora perché non dirlo? Perché scrivere editoriali di quel genere?
(di Antonio Socci- tratto da Libero del 08/01/2011)

08 gennaio 2011

La profezia di Oriana

Un passo del libro profetico "La rabbia e l’orgoglio" (Bur) scritto da Oriana Fal­laci nel 2001: "E' in atto una Crociata all’inverso. Abituati al politically correct non capite che è in corso una guerra. Cannoneggiate dalla nostra debolezza e cecità, le mura delle nostre città sono già cadute"

"...Sveglia, gente, sveglia! Intimi­diti come siete dalla paura d’andar contro corrente op­pure d’apparire razzisti, (pa­rola oltretutto impropria per­ché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata all’Inverso. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia e dalla cretineria dei Politically Correct, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione forse, (forse?), co­munque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad, Guerra Santa. Una guerra che forse non mira alla conquista del nostro territorio, (forse?), ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime: alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà, all’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci... Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri...

Cristo! Non vi rendete conto che gli Osama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador anzi il burkah, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v’importa neanche di questo, scemi? Io sono atea, graziaddio. Irrimediabilmente atea. E non ho alcuna intenzione d’esser punita per questo da barbari che invece di lavorare e contribuire al miglioramento dell’umanità se ne stanno col sedere all’aria cioè a pregare cinque volte al giorno. Da vent’anni lo dico, da vent’anni. Con una certa mitezza e non con questa collera, con questa passione, vent’anni fa su tutto ciò scrissi un articolo di fondo.

Era l’articolo di una persona abituata a stare con tutte le razze e tutti i credi, d’una cittadina abituata a combattere tutti i fascismi e tutte le intolleranze, d’una laica senza tabù. Ma nel medesimo tempo era l’articolo d’una persona indignata con chi non sentiva il puzzo d’una Guerra Santa a venire, e ai figli di Allah gliene perdonava un po’ troppe. Feci un ragionamento che anche allora suonava pressappoco così: «Che senso ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha difendere la loro cultura o presunta cultura quando essi disprezzano la nostra? Io voglio difendere la nostra, e v’informo che Dante Alighieri e Shakespeare e Molière e Goethe e Walt Whitman mi piacciono più di Omar Khayyam». Apriti cielo. Mi mangiarono viva. Mi esposero alla pubblica gogna, mi crocifissero.

«Razzista, razzista!». Furono le cicale di lusso anzi i cosiddetti progressisti (a quel tempo si chiamavano comunisti) a crocifiggermi. Del resto l’insulto razzista- razzista me lo presi anche quando i sovietici invasero l’Afghanistan. Li ricordi i barbuti con la sottana e il turbante che a ciascun colpo di mortaio gridavano le lodi del Signore cioè il bercio Allah akbar, Dio-è-grande, Allah-akbar? Io li ricordo eccome. E a sentir accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i brividi. Mi pareva d’essere nel Medioevo e dicevo: «I sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li ringrazio». Riapriti cielo. «Razzista, razzista!». Nella loro cecàggine non volevan neanche sentirmi parlare delle mostruosità che i figli di Allah commettevano sui militari sovietici fatti prigionieri. Ai militari sovietici segavano le gambe e le braccia, rammenti? Un vizietto cui s’erano già abbandonati in Libano coi prigionieri cristiani ed ebrei. (Né è il caso di meravigliarsi, visto che nell’Ottocento lo facevano sempre ai diplomatici e agli ambasciatori. Soprattutto inglesi. Anzi a loro tagliavano anche la testa, e con questa giocavano a buskachi. Una specie di polo.

Le gambe e le braccia, invece, le esponevano come trofei nelle piazze o al bazaar). Tanto che gliene importava, alle cicale di lusso, d’un povero soldatino ucraino che giaceva in un ospedale con le braccia e le gambe segate? Nel loro cinismo applaudivano addirittura gli americani che, rincretiniti dalla paura dell’Unione Sovietica, riempivan di armi l’eroico-popolo-afgano. Addestravano i barbuti e coi barbuti (Dio li perdoni, io no) un barbutissimo di nome Osama Bin Laden. «Via i russi dall’Afghanistaaan! I russi devono andarsene dall’Afghanistaaan!». Bè, i russi se ne sono andati. Contenti?E dall’Afghanistan i barbuti del barbutissimo Osama Bin Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati siriani, egiziani, iracheni, libanesi, palestinesi, sauditi, tunisini, algerini, insomma coi diciannove che componevano la banda dei kamikaze identificati. Contenti? (...)

Da quando i nostri nemici ci hanno regalato l’Undici Settembre, le cicale non si stancano mai di ripetere che i mussulmani sono una cosa e i fondamentalisti o integralisti mussulmani un’altra. Che il Corano ha molte versioni, che viene letto con molte interpretazioni, ma in ogni sua versione ed interpretazione predica la pace e la fratellanza e la giustizia. (Lo dice anche Bush. Per tenersi buoni i suoi cinque milioni di americani arabo-mussulmani, suppongo. Per indurli a spifferare quel che sanno su eventuali parenti o amici devoti a Osama Bin Laden. Povero Bush). Ma in nome della logica: se il Corano è tanto fraterno e tanto pacifico, come la mettiamo col fatto che il Profeta fosse uno spietato guerriero e quindi un uomo tutt’altro che fraterno e pacifico? Come la mettiamo col fatto che avesse personalmente guidato ventisette battaglie, personalmente sgozzato settecento nemici, personalmente incendiato tre città? Come la mettiamo col fatto che i suoi avversari li liquidasse come un capo mafioso, che i suoi rivali li eliminasse con atrocità da rabbrividire? (...) Come la mettiamo col fatto che il Corano predichi senza sosta la Guerra Santa, che i paesi dove non regna l’Islam li definisca «Dar al-Harb» cioè Terra-da-conquistare?

Come la mettiamo col fatto che i non-mussulmani li chiami cani-infedeli, che li tratti da inferiori anche se si convertono, che lungi dal raccomandare un qualsiasi perdono imponga la legge dell’Occhio-per-Occhio-e-Dente-per-Dente, che tale legge la consideri il Sale della Vita? Come la mettiamo con la faccenda del chador o meglio del burkah che copre le donne dalla testa ai piedi, volto compreso, sicché per vedere quel che c’èal di là di quel sudario una disgraziata de-ve guardare attraverso la fittissima rete posta all’altezza degli occhi? Come la mettiamo con la faccenda della poligamia ossia delle quattro mogli (però su speciale dispensa dell’Arcangelo Gabriele il Profeta ne aveva sedici), o con la faccenda degli harem dove le concubine e le schiave vivono a mo’ di prostitute nei bordelli? Come la mettiamo con la storia delle adultere lapidate o decapitate, e della pena capitale per chi beve alcool? Come la mettiamo con la legge sui ladri a cui il Corano ingiunge di tagliar la mano, al primo furto la sinistra, al secondo furto la destra, al terzo non so cosa però mi pare che al terzo il castigo consista nel bucare le pupille con un ferro rovente? Cito a caso, affidandomi alla memoria. Certo il Sacro Libro offre esempi ancora più gravi. Nondimeno questi bastano, e non mi sembra che esprimano pace e fratellanza e misericordia e giustizia. Non mi sembra nemmeno che esprimano intelligenza.

E a proposito d’intelligenza: è vero che gli odierni santoni della Sinistra o di ciò che chiamano Sinistra non vogliono udire ciò che dico? È vero che a udirlo danno in escandescenze, strillano inaccettabile-inaccettabile? Si son forse convertiti tutti all’Islam e anziché le Case del Popolo ora frequentano le moschee? Oppure strillano così per compiacere il Papa che su certe cose apre bocca solo per chiedere scusa a chi gli rubò il Santo Sepolcro? Boh! Lo zio Bruno aveva ragione a dire che l’Italia non ha avuto la Riforma ma è il paese che ha vissuto più intensamente la Controriforma. (...) Oh, sì, mio caro. La Crociata all’Inverso, la Crociata dei nuovi Mori dura da tempo. È ormai irreversibile e per avanzare non ha bisogno di eserciti che a colpi di bombarda abbattono le mura di Costantinopoli. Cannoneggiate dalla nostra misericordia, dalla nostra debo-lezza, dalla nostra cecità, dal nostro masochismo, le mura delle nostre città sono già cadute: l’Europa sta già diventando una gigantesca Andalusia. Per questo i nuovi Mori con la cravatta trovano sempre più complici, fanno sempre più proseliti.

Per questo diventano sempre di più, pretendono sempre di più, ottengono sempre di più, spadroneggiano sempre di più. E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici. Diventeranno sempre di più, pretenderanno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spengere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell’indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso...".

03 gennaio 2011

Laiche ragioni della libertà religiosa


Il ventunesimo secolo o sarà religioso, o non sarà per nulla». Non so se l’agnostico André Malraux volesse fare una profezia e con che spirito pronunciò questa frase, ma credo che oggi Benedetto XVI ne sottoscriverebbe la lettera.
Soprattutto dopo l’escalation degli attacchi omicidi contro i cristiani in varie parti del mondo, l’ultimo contro una chiesa copta ad Alessandria d’Egitto. Il Papa il suo nome sotto quell’affermazione l’ha di fatto già messo firmando il suo messaggio per la giornata mondiale della pace che si è celebrata ieri. Il titolo è inequivocabile: “Libertà religiosa, via per la pace”. L’alternativa, per Joseph Ratzinger, è secca: o una vera libertà religiosa o una «minaccia alla sicurezza, alla pace» che comporta la rinuncia a «un autentico sviluppo umano integrale». Il Papa lo dice sin dall’inizio del suo pontificato: l’alternativa alla libertà religiosa - che implica l’espressione pubblica della fede e il riconoscimento del ruolo della religione nell’agorà culturale, civile e politica - è una sottomissione sempre più grave dell’uomo al potere; una «visione riduttiva della persona umana» che genera «una società ingiusta perché non proporzionata alla vera natura della persona».
Se la vita di ogni singola persona non ha senso, non ha senso neanche la condanna della sua uccisione. Se non esiste una verità che dia significato all’esistenza singola e sociale, non ha verità la condanna degli attentati contro la libertà di ricercare questa verità. E infatti queste condanne, soprattutto quando si tratta di violenze contro i cristiani - «attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede» (Benedetto XVI) -, giungono sempre meno, hanno spesso il sapore del dovuto, quando la particolare efferatezza o le dimensioni dell’attacco non permettono l’indifferenza, ormai il triste tratto distintivo delle coscienze occidentali verso i loro progenitori spirituali e culturali.
Iraq, Cina, Pakistan, Egitto, Indonesia, Sudan, Nigeria, Turchia, India, Vietnam... l’elenco delle «regioni del mondo in cui non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale» sta diventando tragicamente lungo. Ed è laicamente insopportabile che dei credenti - come ha detto Papa Ratzinger nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu il 18 aprile 2008 - «debbano sopprimere una parte di se stessi - la loro fede - per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti».
Sento già l’obiezione: la mano assassina contro i cristiani è armata da un altro Dio. È l’alibi di chi si professa campione del dialogo e non si accorge quando il dialogo avviene davvero. Sono frutto anche degli incontri di Assisi queste parole di Giovanni Paolo II per la Giornala mondiale della pace del 2002: «Il fanatismo fondamentalista è un atteggiamento radicalmente contrario alla fede in Dio. A ben guardare il terrorismo strumentalizza non solo l’uomo, ma anche Dio, finendo per farne un idolo di cui si serve per i propri scopi... Nessun responsabile delle religioni, pertanto, può avere indulgenza verso il terrorismo e, ancor meno, lo può predicare. È profanazione della religione proclamarsi terroristi in nome di Dio, far violenza all’uomo in nome di Dio». Non è nell’atteggiamento religioso la radice della volontà dell’eliminazione dell’altro (anche se per questa consapevolezza è stata necessaria la purificazione della storia), semmai nell’ideologia, come il secolo scorso ci ha drammaticamente documentato.
Ora, torna a ripetere Benedetto XVI, l’idolo contemporaneo si presenta con «due tendenze opposte, due estremi entrambi negativi: da una parte il laicismo, che, in modo spesso subdolo, emargina la religione per confinarla nella sfera privata; dall’altra il fondamentalismo, che invece vorrebbe imporla a tutti con la forza. In realtà, “Dio chiama a sé l’umanità con un disegno di amore che, mentre coinvolge tutta la persona nella sua dimensione naturale e spirituale, richiede di corrispondervi in termini di libertà e di responsabilità, con tutto il cuore e con tutto il proprio essere, individuale e comunitario”. Là dove si riconosce effettivamente la libertà religiosa, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice e, attraverso una sincera ricerca del vero e del bene, si consolida la coscienza morale e si rafforzano le stesse istituzioni e la convivenza civile. Per questo la libertà religiosa è via privilegiata per costruire la pace» (Angelus del 1° gennaio 2011). Capisco che queste parole suonino ostiche a molte orecchie occidentali, ma - per tornare a Malraux - non è e non sarà il relativismo culturale e morale o l’indifferenza verso la dimensione trascendente dell’uomo ciò che può fermare il fondamentalismo.
La dignità e la libertà della persona possono trovare fondamento solo nella sua dimensione trascendente. Se il singolo è totalmente determinato dai suoi antecedenti biologici, sociali o culturali, diventa di proprietà di chi possiede o sa determinare questi fattori: in ultima istanza il potere. Sia quello dei genitori, o della biotecnologia, o della politica. E non ha ragioni ultime per opporsi. Non ha dalla sua un diritto inalienabile da contrapporre all’allora inevitabile legge del più forte. C’è solo un caso in cui l’essere umano può invocare la sua insopprimibile libertà: il suo essere direttamente in rapporto con un fattore esterno al mondo, alla situazione storica, alle condizioni sociali. Il Papa parla di «apertura al Mistero», l’essenza di ogni religione. Non è casuale che ogni totalitarismo, più o meno esplicito, abbia sempre perseguitato la religione, incominciando col censurare la sua espressione pubblica.
Allora, la politica e la diplomazia, dice in sintesi il Papa, non possono essere indifferenti alla verità morale, anzi, debbono «promuoverla». Che cosa questo voglia dire viene ben declinato nel suo messaggio: «Vuol dire agire in maniera responsabile sulla base della conoscenza oggettiva e integrale dei fatti; vuol dire destrutturare ideologie politiche che finiscono per soppiantare la verità e la dignità umana e intendono promuovere pseudo-valori con il pretesto della pace, dello sviluppo e dei diritti umani; vuol dire favorire un impegno costante per fondare la legge positiva sui principi della legge naturale. Tutto ciò è necessario e coerente con il rispetto della dignità e del valore della persona umana, sancito nella Carta delle Nazioni Unite del 1945».
(di Ubaldo Casotto- tratto da "Il Riformista" del 02/01/2011")

02 gennaio 2011

Il potere contro i cristiani


Sembra essere diventata una terribile abitudine quella di un Natale di sangue per le comunità cristiane nel Mondo: la sera del 24 dicembre 2010, la Nigeria è stata il teatro di un nuovo inquietante episodio della cristianofobia. I “talebani” nigeriani hanno assaltato chiese cristiane in almeno tre città del paese africano, uccidendo non meno di 80 persone.
La regione nordorientale di Jos, già di recente luogo di scontri tra etnie diverse, è una zona molto povera, dove la tensione stratificata nel corso di decenni di risentimenti tra i gruppi autoctoni, per lo più cristiani o animisti, sta pesantemente aumentando a causa della prepotenza dei migranti e dei coloni provenienti dal nord musulmano.
Uno di questi gruppi è il movimento fondamentalista xenofobo, molto attivo dal 2004 nella area di Maiduguri, nella Nigeria nordorientale. Si tratta di un movimento populista composto per gran parte di giovani disoccupati e non istruiti che non parlano inglese ma solo arabo e la lingua locale chiamata hausa. Sono contrari alla Costituzione e allo stato federale e si battono per uno stato islamico puro secondo criteri di drammatica violenza urbana.
Il gruppo sottolinea la validità di una violenza dissacrante a tuttotondo che prende di mira tutto ciò che ha a che fare con l’Occidente, ad esempio i libri dell’Occidente, ma anche l’abbigliamento, la religione e la laicità dell’Occidente, nonché la democrazia e il capitalismo industriale.
In Nigeria il cristianesimo è una realtà molto viva e radicata nella società. Molto influenti sono, infatti, alcune associazioni di chiese cristiane evangeliche battiste e pentecostali. Religione e politica sono da sempre connesse in Nigeria: c’è grande competizione tra le chiese protestanti e le diverse correnti islamiche, moderate e integraliste, che sono in perenne lotta per il potere. L’Islam fondamentalista si batte contro il monopolio religioso degli ordini Sufi, i grandi ordini mistici della Nigeria. I cristiani per loro rappresentano l’Occidente e la democrazia. Il loro obiettivo è l’imposizione a tutti della Sharia, che è già applicata in 12 stati nel nord della Nigeria con conseguenze devastanti per i diritti umani della popolazione.
In Terrasanta, dove mi sono recato nei giorni scorsi proprio per dare sostegno ideale alle comunità cristiane perseguitate, ho incontrato parecchi pellegrini nigeriani: il loro timore è proprio che si possa arrivare alla sharia imposta ai non islamici.
I cristiani sono vittime, come accade in gran parte del mondo, di un vero e proprio progetto di potere. Negli ultimi cinque anni, le persone uccise per odio religioso sono quasi sempre cristiane: tre su quattro, secondo un recente studio Osce.
La Nigeria è uno dei paesi più importanti della dell’Africa subsahariana: è membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, è un paese produttore di petrolio a livello globale, detiene un ruolo guida in seno alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Eecowas), è uno dei paesi che contribuiscono maggiormente alle operazioni di mantenimento della pace, nonché un fattore di stabilizzazione nell’Africa occidentale.
Per tutte queste ragioni la stabilità e la democrazia del paese rivestono una grande importanza direttamente oltreconfine: gli effetti della crescente violenza in Nigeria potrebbero essere devastanti anche per le comunità cristiane dei paesi limitrofi, ma anche per il già lento sviluppo economico dell’intera regione.
Se questi attacchi dovessero continuare nell’indifferenza delle autorità nigeriane, sarebbe indispensabile per l’Ue sospendere gli effetti dell’accordo di Cotonou finalizzato allo sviluppo dei paesi Acp per questo paese. Non può esserci, infatti, sviluppo economico a discapito dei diritti umani. Considerando che l’Unione europea è uno dei donatori finanziari principali per la Nigeria (il 12 novembre 2009, ad esempio, la Commissione europea e il governo federale della Nigeria hanno sottoscritto il documento strategico per paese e il programma nazionale indicativo per il periodo 2008-2013 per la Nigeria, in virtù dei quali l’Ue finanzierà progetti intesi, tra l’altro, a garantire la pace, la sicurezza e i diritti umani), l’Alto Rappresentante della politica estera Ue, Catherine Ashton, deve lanciare un preciso segnale di monito nei confronti del governo nigeriano. In Nigeria, come in India, Pakistan, Cina, Iraq, Iran, e molti altri paesi, rapporti economici e aiuti vanno vincolati alle garanzie di tutela delle minoranze, religiose ed etniche.

(di Mario Mauro- Capogruppo PDL al Parlamento Europeo)

29 dicembre 2010

Death Panels


Domandiamoci senza pregiudizi che cosa significhi introdurre per regolamento l’uso di pagare i medici di stato affinché abbiano ogni anno un colloquio con i vecchi pazienti del programma americano Medicare, sul tema del come morire, del come rifiutare terapie di sostegno vitale indesiderate. Che vuol dire questo testamento in vita, sulla vita, consegnato al confessionale della sanità pubblica?
Gli avversari di Barack Obama dicono: death panels, comitati della morte. C’è enfasi in questo, e c’è in questo accento forte il dramma politico che ha portato alla eliminazione di questi protocolli dalla legge di riforma del sistema sanitario, per riproporli dal primo gennaio via regolamento, a sorpresa, a tradimento. Gente in buona fede, anche cattolici come Martini e Verzé e le ribelli suore americane, gente che arde di zelo per un compromesso apostolico con i tempi, pensa così: la medicina ha preso un posto ingente nella vita d’oggi, l’età media si è allungata, esiste un problema sociale, quello del protrarsi inutile delle cure o addirittura di accanimenti non desiderati, e bisogna risolverlo come si può, consacrando l’autonomia personale, l’autodeterminazione degli individui di fronte alla fine della loro vita, insomma il diritto di morire.
Qualche elemento di verità in questo modo di ragionare c’è, naturalmente. Siamo diversamente esposti, rispetto a tempi in cui il bios era un fondo di bottiglia misterioso, alla scienza medica, nel bene e nel male. E la libertà di determinarsi come si vuole ha fatto tali progressi che per molti, forse grandi maggioranze, è impensabile cederne anche solo una quota all’idea astratta, metafisica, che siamo una creatura umana, un intoccabile costrutto di anima e corpo che per la vita e per la morte dipende da Dio o da un rapporto insondabile con l’essere delle cose e della persona. Dipende cioè da una relazione che può essere interrotta in forza della nostra volontà privata, in un abbandono fiducioso nella zona grigia tra vita e non vita, ma che è irriducibile, in termini di diritto, di legge, di regolamento pubblico, alla decisione sovrana di ciascuno di noi o, peggio, della comunità che decide per noi sulla questione fatale del nulla.
Nel secolo scorso si era creduto che la battaglia finale sarebbe stata tra comunisti ed ex comunisti, lo diceva il vecchio e saggio scrittore Ignazio Silone. Invece con il nuovo secolo è sempre più chiaro che la resa dei conti sarà tra un secolarismo della specie più pervasiva e un cristianesimo eviscerato della sua virtualità normativa, privato della sua influenza sociale e politica e civile. Quel medico di un leader a suo modo cristiano come Obama che ogni anno, per regolamento, parlerà con milioni di vecchi americani di ogni ceppo, ispanici, neri, wasp, caraibici, polacchi, italiani, irlandesi e così via, è l’Ersatz, il sostituto sociologico e spirituale del prete confessore, e la nuova religione secolarista, religione culturale e ideologica senza rivelazione e senza la talare ma con un suo clero in càmice molto incisivo, questa nuova religione è la medicina federale: ti obbliga ad assicurarti ma al tempo stesso ti chiede di liberarti senza tante storie della tua vita calante per risparmiare sui costi inutili della salute pubblica, e ti confonde nella testa le due nozioni di salute e salvezza, bene e benessere. Con il pretesto libertario della tua autodeterminazione.
(di Giuliano Ferrara- tratto da "Il Foglio" del 28/12/2010)

27 dicembre 2010

Basta con la Messa creativa, in chiesa silenzio e preghiera


La liturgia cattolica vive «una certa crisi» e Benedetto XVI vuole dar vita a un nuovo movimento liturgico, che ripor­ti più sacralità e silenzio nella messa, e più attenzione alla bel­lezza nel canto, nella musica e nell'arte sacra. Il cardinale Anto­nio Cañizares Llovera, 65 anni, Prefetto della Congregazione del culto divino, che quando era vescovo in Spagna veniva chia­mato «il piccolo Ratzinger», è l'uomo al quale il Papa ha affida­to questo compito. In questa in­tervista al Giornale, il «mini­stro» della liturgia di Benedetto XVI rivela e spiega programmi e progetti.

Da cardinale, Joseph Ratzin­ger aveva lamentato una cer­ta fretta nella riforma liturgi­ca postconciliare. Qual è il suo giudizio?
«La riforma liturgica è stata re­alizzata con molta fretta. C'era­no ottime intenzioni e il deside­rio di applicare il Vaticano II. Ma c'è stata precipitazione. Non si è dato tempo e spazio suf­ficiente per accogliere e interio­rizzare gli insegnamenti del Concilio, di colpo si è cambiato il modo di celebrare. Ricordo be­ne la mentalità allora diffusa: bi­sognava cambiare, creare qual­cosa di nuovo. Quello che aveva­mo ricevuto, la tradizione, era vi­sta come un ostacolo. La rifor­ma è stata intesa come opera umana, molti pensavano che la Chiesa fosse opera delle nostre mani, invece che di Dio. Il rinno­vamento liturgico è stato visto come una ricerca di laboratorio, frutto dell'immaginazione e del­la creatività, la parola magica di allora».

Da cardinale Ratzinger ave­va auspicato una «riforma della riforma» liturgica, paro­le oggi impronunciabili persi­no in Vaticano. Appare però evidente che Benedetto XVI la desideri. Può parlarcene?
«Non so se si possa, o se con­venga, parlare di "riforma della riforma". Quello che vedo asso­lutamente necessario e urgen­te, secondo ciò che desidera il Papa, è dar vita a un nuovo, chia­ro e vigoroso movimento liturgi­co in tutta la Chiesa. Perché, co­me­spiega Benedetto XVI nel pri­mo volume della sua Opera Om­nia, nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Cristo è presente nella Chiesa attraverso i sacra­menti. Dio è il soggetto della li­turgia, non noi. La liturgia non è un'azione dell'uomo, ma è azio­ne di Dio».

Il Papa più che con le decisio­ni calate dall'alto, parla con l'esempio: come leggere i cambiamenti da lui introdot­ti nelle celebrazioni papali?
«Innanzitutto non deve esser­ci alcun dubbio sulla bontà del rinnovamento liturgico conci­liare, che ha portato grandi be­nefici nella vita della Chiesa, co­me la partecipazione più co­sciente e attiva dei fedeli e la pre­senza arricchita della Sacra Scrittura. Ma oltre a questi e altri benefici, non sono mancate del­le ombre, emerse negli anni suc­cessivi al Vaticano II: la liturgia, questo è un fatto, è stata "ferita" da deformazioni arbitrarie, pro­vocate anche dalla secolarizza­zione che purtroppo colpisce pure all'interno della Chiesa. Di conseguenza, in tante celebra­zioni, non si pone più al centro Dio, ma l'uomo e il suo protago­nismo, la sua azione creativa, il ruolo principale dato all'assem­blea. Il rinnovamento concilia­re è stato inteso come una rottu­ra e non come sviluppo organi­co della tradizione. Dobbiamo ravvivare lo spirito della liturgia e per questo sono significativi i gesti introdotti nelle liturgie del Papa: l'orientamento dell'azio­ne liturgica, la croce al centro dell'altare, la comunione in gi­nocchio, il canto gregoriano, lo spazio per il silenzio, la bellezza nell'arte sacra. È anche necessa­ri­o e urgente promuovere l'ado­razione eucaristica: di fronte al­la presenza reale del Signore non si può che stare in adorazio­ne».

Quando si parla di un recupe­ro della dimensione del sa­cro c'è sempre chi presenta tutto questo come un sempli­ce ritorno al passato, frutto di nostalgia. Come rispon­de?
«La perdita del senso del sa­cro, del Mistero, di Dio, è una delle perdite più gravi di conse­guenze per un vero umanesi­mo. Chi pensa che ravvivare, re­cuperare e rafforzare lo spirito della liturgia, e la verità della ce­lebrazione, sia un semplice ritor­no a un passato superato, igno­ra la verità delle cose. Porre la li­turgia al centro della vita della Chiesa non è affatto nostalgico, ma al contrario è la garanzia di essere in cammino verso il futu­ro».

Come giudica lo stato della li­turgia cattolica nel mondo?
«Di fronte al rischio della routi­ne, di fronte ad alcune confusio­ni, alla povertà e alla banalità del canto e della musica sacra, si può dire che vi sia una certa cri­si. Per questo è urgente un nuo­vo movimento liturgico. Bene­detto XVI indicando l'esempio di san Francesco d'Assisi, molto devoto al Santissimo Sacramen­to, ha spiegato che il vero rifor­matore è qualcuno che obbedi­sce alla fede: non si muove in modo arbitrario e non si arroga alcuna discrezionalità sul rito. Non è il padrone ma il custode del tesoro istituito dal Signore e consegnato a noi. Il Papa chiede dunque alla nostra Congrega­zione di promuovere un rinno­vamento conforme al Vaticano II, in sintonia con la tradizione liturgica della Chiesa, senza di­menticare la norma conciliare che prescrive di non introdurre innovazioni se non quando lo ri­ch­ieda una vera e accertata utili­tà per la Chiesa, con l'avverten­za che le nuove forme, in ogni caso, devono scaturire organica­mente da quelle già esistenti».

Che cosa intendete fare co­me Congregazione?
«Dobbiamo considerare il rin­novamento liturgico secondo l'ermeneutica della continuità nella riforma indicata da Bene­detto XVI per leggere il Concilio. E per far questo bisogna supera­re la tendenza a "congelare" lo stato attuale della riforma po­stconciliare, in un modo che non rende giustizia allo svilup­po organico della liturgia della Chiesa. Stiamo tentando di por­tare avanti un grande impegno nella formazione di sacerdoti, seminaristi, consacrati e fedeli laici, per favorire la comprensio­ne del ver­o significato delle cele­brazioni della Chiesa. Ciò richie­de un'adeguata e ampia istruzio­ne, vigilanza e fedeltà nei riti e un'autentica educazione per vi­verli pienamente. Questo impe­gn­o sarà accompagnato dalla re­visione e dall'aggiornamento dei testi introduttivi alle diverse celebrazioni (prenotanda). Sia­mo anche coscienti che dare im­pulso a questo movimento non sarà possibile senza un rinnova­mento della pastorale dell'ini­ziazione cristiana».

Una prospettiva che andreb­be applicata anche all'arte e alla musica...
«Il nuovo movimento liturgi­co dovrà far scoprire la bellezza della liturgia. Perciò apriremo una nuova sezione della nostra Congregazione dedicata ad "Ar­te e musica sacra" al servizio del­la liturgia. Ciò ci porterà a offrire quanto prima criteri e orienta­menti per l'arte, il canto e la mu­sica sacri. Come pure pensiamo di offrire prima possibile criteri e orientamenti per la predicazio­ne».

Nelle chiese spariscono gli in­ginocchiatoi, la messa talvol­ta è ancora uno spazio aperto alla creatività, si tagliano per­sino le parti più sacre del ca­none: come invertire questa tendenza?
«La vigilanza della Chiesa è fondamentale e non deve esse­re considerata come qualcosa di inquisitorio o repressivo, ma un servizio. In ogni caso dobbia­mo rendere tutti coscienti del­l'esigenza, non solo dei diritti dei fedeli, ma anche del "diritto di Dio"».

Esiste anche il rischio oppo­sto, cioè quello di credere che la sacralità della liturgia dipenda dalla ricchezza dei paramenti: una posizione frutto di estetismo che sem­bra ignorare il cuore della li­turgia...
«La bellezza è fondamentale, ma è qualcosa di ben diverso da un'estetismo vuoto, formalista e sterile, nel quale invece talvol­ta si cade. Esiste il rischio di cre­dere che la bellezza e la sacralità del liturgia dipendano dalla ric­chezza o dall'antichità dei para­menti. Ci vuole una buona for­mazione e una buona catechesi basata sul Catechismo della Chiesa cattolica, evitando an­che il rischio opposto, quello della banalizzazione, e agendo con decisione ed energia quan­do si ricorre a usanze che hanno avuto il loro senso nel passato ma oggi non ce l'hanno o non aiutano in alcun modo la verità della celebrazione».

Può dare qualche indicazio­ne concreta su che cosa po­trebbe cambiare nella litur­gia?
«Più che pensare a cambia­menti, dobbiamo impegnarci nel ravvivare e promuovere un nuovo movimento liturgico, se­guendo l'insegnamento di Bene­detto XVI, e ravvivare il senso del sacro e del Mistero, metten­do Dio al centro di tutto. Dobbia­mo dare impulso all'adorazio­ne eucaristica, rinnovare e mi­gliorare il canto liturgico, colti­vare il silenzio, dare più spazio alla meditazione. Da questo sca­turiranno i cambiamenti...».

(di Andrea Tornielli- tratto da "Il Giornale")

23 dicembre 2010

Il prodigio che tutti aspettiamo


«Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il Cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un’esistenza vissuta sempre e soltanto “contro” sarebbe insopportabile» (Luce del mondo, p. 27). Queste parole di Benedetto XVI ci lanciano una sfida: che cosa significa essere cristiani oggi? Continuare a credere semplicemente per tradizione, devozione o abitudine, ritirandosi nel proprio guscio, non è all’altezza della sfida. Allo stesso modo, reagire con forza e andare contro per recuperare il terreno perduto è insufficiente, il Papa dice addirittura che è «insopportabile». L’una e l’altra strada − ritirarsi dal mondo o essere contro − non sono capaci, in fondo, di suscitare interesse per il cristianesimo, perché nessuna delle due rispetta quello che sarà sempre il canone dell’annuncio cristiano: il Vangelo. Gesù si è posto nel mondo con una capacità di attrarre che ha affascinato gli uomini del suo tempo. Come dice Péguy: «Egli non perse i suoi anni a gemere e interpellare la cattiveria dei tempi. Egli tagliò corto… Facendo il cristianesimo». Cristo ha introdotto nella storia una presenza umana così affascinante che chiunque vi si imbatteva doveva prenderla in considerazione. Per rifiutarla o per accettarla. Non ha lasciato indifferente nessuno.
Oggi ci troviamo tutti di fronte a una «crisi dell’umano», che si documenta come stanchezza e disinteresse verso la realtà e che coinvolge tutti gli ambiti che hanno a che fare con la vita della gente. È una disgrazia per tutti, infatti, che le persone non si mettano in gioco con la loro ragione e la loro libertà. E proprio in questo momento la Chiesa ha davanti a sé un’avventura affascinante, la stessa delle origini: testimoniare che c’è qualcosa in grado di risvegliare e suscitare un interesse vero. «Anche il mio cuore aspetta, / alla luce guardando ed alla vita, / altro prodigio della primavera». Tutti noi, come il poeta Antonio Machado, aspettiamo il miracolo della primavera, in cui vedere compiersi la nostra vita. E se qualcuno dirà, ancora col poeta, che è un sogno, perché lo aspettiamo? Perché questa attesa ci costituisce nell’intimo, come scrive Benedetto XVI: «L’uomo aspira ad una gioia senza fine, vuole godere oltre ogni limite, anela all’infinito» (Luce del mondo, p. 95). Ma l’uomo può decadere, il mondo può cercare di scalzare questo desiderio dell’infinito minimizzandolo; può perfino prenderlo in giro offrendo qualcosa che attira per qualche tempo, ma che non dura, e alla fine lascia solo più insoddisfatti e più scettici. Ora, la prova della verità di ciò che affascina e risveglia un interesse è che deve durare. Ma anche le cose più belle – lo vediamo quando si ama una persona o quando si intraprende un nuovo lavoro – vengono meno. Il problema della vita, allora, è se esiste qualcosa che dura.
Il cristianesimo ha la pretesa – perché la sua origine non è umana, anche se si può vedere nei volti degli uomini che lo hanno incontrato – di portare l’unica risposta in grado di durare nel tempo e nell’eternità. Però un cristianesimo ridotto non è in grado di fare questo. Sappiamo per esperienza che esiste un modo astratto di parlare della fede che non suscita la minima curiosità. Se il cristianesimo non viene rispettato nella sua natura, così come è comparso nella storia, non può mettere radici nel cuore.Il cristianesimo è sempre messo alla prova di fronte al desiderio del cuore, e non se ne può liberare: è Cristo stesso che si è sottoposto a questa prova. L’aspetto affascinante è che Dio, spogliandosi del Suo potere, si è fatto uomo per rispettare la dignità e la libertà di ciascuno. Incarnandosi, è come se avesse detto all’uomo: «Guarda un po’ se, vivendo a contatto con me, trovi qualcosa di interessante che rende la tua vita più piena, più grande, più felice. Quello che tu non sei capace di ottenere con i tuoi sforzi, lo puoi ottenere se mi segui». È stato così fin dall’inizio. Quando i due primi discepoli domandano: «Dove abiti?», Egli risponde: «Venite e vedrete». La sua semplicità è disarmante. Dio si affida al giudizio dei primi due che Lo incontrano. L’uomo non può evitare di paragonare continuamente ciò che accade con le sue esigenze fondamentali.
Qualcuno potrebbe obiettare che all’epoca di Gesù si vedevano i miracoli, ma oggi non è più tempo di prodigi. Non è così, perché questa esperienza continua ad avere luogo, come il primo giorno: quando incontri persone che risvegliano in te un interesse e un’attrattiva tali che ti obbligano a fare i conti con quello che ti è accaduto. Come dice il Papa, «Dio non si impone. […] La sua esistenza si manifesta in un incontro, che penetra nella più intima profondità dell’uomo» (Luce del mondo, p. 240).
Alcuni anni fa un mio amico è andato a studiare arabo a Il Cairo. Ha incontrato un professore musulmano. L’incontro si sarebbe potuto svolgere secondo gli stereotipi dell’uno e dell’altro. Ma è accaduta una cosa inattesa: sono diventati amici. Il musulmano ha domandato al mio amico perché era cristiano, e questi lo ha invitato in Italia, dove ha conosciuto il Meeting di Rimini. Trascinato dall’incontro con una realtà umana diversa, ha voluto realizzare il Meeting de Il Cairo, coinvolgendo molti giovani egiziani, musulmani e cristiani.
Di recente, a Mosca, ho conosciuto persone che fino a poco tempo fa non avevano niente a che fare con la fede. L’hanno scoperta incontrando dei cristiani che le avevano incuriosite. Alcune erano battezzate nella Chiesa ortodossa e si sono interessate al cristianesimo – cosa che non avevano mai fatto prima – grazie ad amici che lo vivevano con intensità e pienezza.
Non sono storie del passato, ma qualcosa che accade ora, nel presente.
Nella sua recente visita in Spagna, Benedetto XVI ha invitato a un dialogo tra laicità e fede. E come lo ha fatto? Indicando una presenza, un testimone, Gaudì, che con la Sagrada Familia «è stato capace di creare […] uno spazio di bellezza, di fede e di speranza, che conduce l’uomo all’incontro con colui che è la verità e la bellezza stessa». Il Papa ha sfidato tutti rendendo contemporaneo lo sguardo di Cristo e indicando l’esperienza nuova che Egli immette nella vita: chiunque può interessarsene o rifiutarla. Quando Benedetto XVI ci chiama alla conversione ci sta dicendo che per testimoniare Cristo, per farci «trasparenza di Cristo per il mondo», dobbiamo percorrere un cammino umano fino a scoprire la pertinenza della fede alle esigenze della nostra vita. Non so se qualche cattolico si può sentire escluso dalla chiamata del Papa. Io no.

(di don Julian Carron)